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Chi comanda nelle città.........Bancarotta e fatalismo così muore Taranto
(pagg.1-16-17) firmato da CURZIO MALTESE
Chi comanda nelle città
La marea di debiti che soffoca Taranto
di Curzio Maltese
Bancarotta e fatalismo così muore Taranto
Nella città dei 446 milioni di debiti che aspetta il miracolo
Che cosa accade quando una città fallisce? Se capiti alle sei del pomeriggio in via D´Aquino, il salotto della città, sembra che a non sia successo nulla. Gli avvocati in pausa al caffè estraggono dalle borse griffate telefonini da mille euro, le signore della Taranto bene si lanciano in pattuglie di tre a uno shopping compulsivo, i ragazzi commentano il lento sfilare delle ragazze con indolenza da scirocco, vezzosi lampioncini francesi illuminano la strada immacolata e adornata di piante, per terra nemmeno un mozzicone. Un bambino lascia penzolare una cartaccia e la madre lo strattona: «No´ te fa´ accanosc´». Potrebbe essere il motto cittadino, non facciamoci riconoscere. Ma basta fare cinquanta passi di qua o di là per capire che cos´è una città fallita. Montagne di spazzatura, buche non riparate da anni, strade buie, fontane asciutte, bus che si fermano di colpo e scaricano i passeggeri, il Comune assediato da centinaia di dipendenti in attesa dello stipendio del mese precedente, cumuli di bare all´obitorio perché non ci sono i soldi neppure per seppellire i morti. Taranto, 210 mila abitanti, quattordicesima città d´Italia, non ha un euro in cassa. Il dissesto è stato proclamato il 18 ottobre scorso e da allora il conteggio del buco cresce di mese in mese. L´ultimo totale è di 446 milioni di euro, ma non è definitivo. Una voragine creata in pochi anni, a colpi di appalti fasulli, parentopoli scellerate, eventi milionari, consulenze e stipendi d´oro, con le buste paga dei ragionieri del Comune, dipendenti e consulenti, gonfiate fino a 10, 12, 20 mila euro al mese. La capitale dell´acciaio dalle illusioni di sviluppo al fallimento del Comune Una voragine a colpi di appalti, parentopoli, consulenze d´oro i due ex sindaci Rossana Di Bello, sindaco del dissesto, e Cito il populista dicono le stesse cose: "Se dovessi parlare io, non basterebbe un libro" il commissario Il prefetto Blonda, nominato commissario dal governo: "Qui le regole sono saltate da vent´anni e a nessuno frega niente" ultime mammelle Florido, forse candidato sindaco dell´Unione: "Senza più certezze, la città si è attaccata a sanità e Comune, ultime mammelle di Stato" eredità industriale In cambio del posto fisso, inquinamento spaventoso, 180 morti nella sua storia per infortuni sul lavoro: è l´eredità dell´Italsider-Ilva Tutti d´accordo: trenta amministratori finiti in galera. Era questo il retroscena della «Svizzera sul mare» degli slogan elettorali. Ed è il conto finale della lunga e scalmanata stagione di demagogia, inaugurata nel ‘93 con la discesa in campo del telepredicatore Giancarlo Cito e proseguita dal 2000 al 2006 col regno della pasionaria di Forza Italia, Rossana Di Bello, «il più bel sindaco d´Italia», diceva Berlusconi. La gente ora non vuol sentirne parlare, soltanto dimenticare tutto in fretta nel rito dello «struscio», sala da ballo del Titanic, tappeto luccicante dove la città prova a nascondere le macerie. Come se fosse possibile. Proprio al centro di via D´Aquino entro nella gioielleria dell´ultimo sindaco Rossana Di Bello, la principale responsabile del dissesto. «Desidera qualcosa?» mi chiede la signora, ancora molto bella, sorridente come nei manifesti. Vorrei capire come si fa fallire una città. Per sei anni è stata la regina di Taranto, due volte confermata col sessanta per cento dei voti, idolatrata come una dea, prima di finire condannata per l´inceneritore e costretta alle dimissioni. L´ex sindaco ha l´aria scocciata e benestante di molti «perseguitati politici dalla magistratura rossa». Leva gli occhi al cielo e sospira: «Ah, se dovessi parlare, non basterebbe un libro…». Quindi non parla. In negozio entrano pochi clienti ma nessun tarantino è venuto mai a protestare o soltanto a ricordare. Nessuno va più neppure a trovare «l´Onorevole» o «il Geometra», Giancarlo Cito, inventore del leghismo meridionale, proto Berlusconi, il palazzinaro televisivo e padrone della squadra di calcio che nel ‘93 si prese la città per sette anni. «Che male fa provare?» dicevano perfino gli operai «Se non mantiene le promesse, andiamo in Comune e lo carichiamo di mazzate». Al suo primo processo per mafia novemila tarantini circondarono il palazzo di giustizia per protestare contro «il complotto delle toghe rosse». All´ultima udienza, dopo una serie di condanne, erano presenti in nove, sei cronisti tediati e tre curiosi. Cito vive agli arresti domiciliari in una palazzina del tremendo quartiere Bestat. Smagrito, roco, fa sincera pena, come può farla un ex picchiatore fascista. Alto, imponente, una macchina di muscoli era, «terror de´ comunisti» e poi, da sindaco, degli immigrati e dei venditori ambulanti che andava a togliere dai marciapiedi a schiaffi e pugni. Gli piaceva ripetere sui magistrati la battuta di Al Capone-De Niro negli Intoccabili: «Sono solo chiacchiere e distintivo». «Chiacchiere e distintivo!» e rideva forte. Non gli ha portato fortuna. Pure lui leva lo sguardo e sospira: «Ah, dovessi parlare io…». Non parla la Di Bello, non parla Cito, non parlano i cittadini che li hanno votati ma ora preferiscono parlar d´altro e poi devono proprio scappare: «Brutte storie, chi se l´immaginava? Speriamo che si risolva». Il più sincero è Peppino, che ha il banco del pesce nella città vecchia: «Li ho votati perché mi stavano bene. Dotto´, parliamoci chiaro, io tengo cinquant´anni e tre ricevute». Lo scrittore e giudice Giancarlo De Cataldo parla da «rinnegato», è la più famosa delle tante intelligenze cittadine che hanno fanno le valigie da tanto tempo. L´autore di "Romanzo Criminale" ha dedicato alla sua città un libro dolente e ironico, un´alta orazione civile, "Terroni". «Vivo a Roma da trent´anni e forse non dovrei più parlare. Ma una cosa devo ammettere, che Taranto ha la peggior borghesia del Sud, la più famelica e irresponsabile». Alla città onesta, che in questi decenni ne ha viste e sopportate di tutti i colori, fanno appello i due baresi chiamati a liquidare il «caso Taranto», Francesco Boccia e Tommaso Blonda. Boccia è un giovane economista di valore, degnissimo rivale di Vendola nelle primarie pugliesi, ora consigliere di Enrico Letta, che si è presa la croce di trattare con il governo e i creditori, in prima fila il San Paolo di Torino, per evitare la totale bancarotta tarantina. Tommaso Blonda è un prefetto, «servitore dello Stato» da atlante De Agostini, insomma l´uomo giusto nella città sbagliata. «Quando l´allora ministro Pisanu mi ha proposto l´incarico ho accettato subito. Qui avevo lavorato per quindici anni, vi erano nati i miei figli. Ma non immaginavo quello che mi aspettava. A Taranto le regole sono saltate da vent´anni e a nessuno frega nulla. La città viveva al di sopra dei suoi mezzi e la demagogia cavalcava lo spreco, lo incoraggiava. Si è perso il senso del limite, come se la pratica dell´illegalità non avesse confini. Oggi per ricominciare a pagare i debiti non basta privatizzare le aziende dei trasporti e della nettezza urbana, non basta cancellare gli appalti capestro e neppure vendere gli immobili. Bisognerebbe tagliare almeno mille dipendenti del Comune. Ma se provo a dirlo, ecco il risultato». Mi mostra un titolo di giornale, il più replicato a Taranto nell´ultimo anno: «Tutti contro Blonda». Ha avuto scioperi, minacce, lettere con proiettili, ma va avanti. «Questa non è la città che avevo lasciato nell´86. Piena di problemi e con i clan che facevano una sparatoria al giorno, ma ancora capace di reagire. Non so che cosa sia successo, la gente è rassegnata. Gli parlo di tragedie e mi guardano con l´aria dei concorrenti al quiz televisivo in difficoltà, nella speranza di un aiutino…». Si può dire qualcosa in difesa dei tarantini? La rassegnazione, il fatalismo, hanno origini lontane ed esterne. Taranto fu una nobile capitale della Magna Grecia incastonata fra le acque, una città di laguna, una Venezia delle Puglie, con lo splendido borgo antico dietro il castello aragonese e il quartiere ottocentesco stretti fra Mare Piccolo e Mare Grande, che nell´ultimo secolo ha subito colossali invasioni barbariche. Prima l´Arsenale del Regno, poi la Base Navale, la prima nel Mediterraneo, quindi la Fabbrica. Ora la città non è più né bella né brutta. E´ una tavolozza impazzita, un impasto violento di luce, acqua, cemento, fuoco e acciaio, con angoli d´incanto e squarci spaventosi. Da ogni punto incombe l´ultimo grande paesaggio industriale d´Italia, la riserva indiana del fordismo. L´Ilva, ex Italsider, ora gruppo Riva, sovrasta la città, la domina con le sue ciminiere e si mangia ancora due terzi del gigantesco porto. E´ il primo impianto siderurgico d´Europa, un dinosauro più grande di Mirafiori, tre volte più esteso di Taranto città, dieci milioni di tonnellate d´acciaio all´anno, duecentocinquanta chilometri di ferrovia interna, altiforni imponenti come dolmen, distese di tubi a perdita d´occhio. Da quarant´anni i tarantini la chiamano il Mostro. Da quarant´anni distribuisce vita e morte, e non è un modo di dire. Oggi ci lavorano quindicimila operai ed erano trentamila ai tempi dell´industria di Stato. Nella sua storia si contano centottanta caduti sul lavoro, ottomila invalidi, dieci o forse ventimila morti di cancro e leucemie, dipende dalle stime. Il gioco dei bambini del rione Tamburi, a ridosso del Mostro, è svegliarsi e indovinare di quale colore è il cielo del mattino. Di rado è blu, a volte arancione o viola, più spesso di un rosso mattone, uguale a quello ormai incrostato ai tetti delle case e sulla strada del cimitero. Da sola l´Ilva sputa nell´aria di Taranto il 10,2 per cento di tutto l´ossido di carbonio prodotto in Europa. Ma fino a dodici anni fa, in cambio di tanto dolore, la Fabbrica garantiva almeno il mito del «posto sicuro» nella cuccia calda dell´impresa di Stato. Nel ‘95 l´Ilva è stata privatizzata dal governo Dini, peraltro a un prezzo un po´ troppo basso (1.700 miliardi di lire) ed è arrivato un padrone bresciano, Emilio Riva, ben deciso a imporre nella città-stato tarantina la legge del mercato, con le buone o con le cattive. Ma quasi sempre con le cattive. In un decennio Riva ha mandato via la metà degli operai, spezzato le reni al sindacato, quadruplicato gli utili e collezionato una serie di processi e condanne, l´ultima di tre anni per mancate misure di sicurezza e inquinamento. E´ rinviato a giudizio per una pessima storia di mobbing divenuta celebre, quella della «palazzina Laf», una specie di baracca dov´era rimasto confinato per mesi un pugno di sindacalisti ostinati, senza lavoro e senza una sedia o un tavolo. La privatizzazione dell´Ilva ha segnato lo spartiacque nella vita cittadina. Gli operai licenziati si sono messi a fare gli artigiani e a «coltivare il mare» da vecchi contadini mai diventati marinai. Ogni palo di cozze a Mare Piccolo è un ex operaio dell´Ilva. Le imprese dell´indotto siderurgico prima si sono rivolte fuori, verso il boom di Bari e del Salento, poi si sono spente, una dopo l´altra. Gli operai tarantini avevano costruito la piattaforma del ponte fra Danimarca e Svezia, ma anche la Belleli ha chiuso i battenti due anni fa. «Senza più posto fisso, la città ha finito per attaccarsi alle ultime mammelle di Stato, la sanità e il Comune, fino a succhiare l´ultimo euro». E´ l´analisi del presidente della Provincia, Giovanni Florido, ex sindacalista dell´Ilva e più probabile candidato del centrosinistra alla poltrona di futuro sindaco, nelle elezioni di primavera. Si è trattato di scegliere fra il fallimento della pubblica amministrazione e la bancarotta delle famiglie ed è andata com´era facile immaginare. Ora la città aspetta che qualcuno faccia «il Miracolo». Ma come nel bellissimo film di Edoardo Winspeare girato nella città vecchia, è un miracolo che soltanto la volontà dei tarantini può compiere.
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