Mi dispiace non essere con voi. Tento di farmi perdonare accennando a due osservazioni intorno alle quali avrei sviluppato il mio intervento.
L’orgia militarista scandisce, ormai, ore, minuti, secondi della nostra quotidianità, invade i nostri territori nella <> ossessiva ed autistica della guerra preventiva, infinita, globale. <> l’ordine del Pentagono. È la metafora della legge marziale e di quel conseguente <>, di quel neoautoritarismo emergenziale globale che colpisce, reprime il conflitto ed i movimenti come “fronte interno” della guerra stessa. Perché la guerra è, oggi, livello estremo di tecnologia distruttiva ma anche colossale mistificazione politico/culturale (facciamo la guerra, dice Bush, per portare democrazia, libertà e, insieme, per salvare il modello di vita, di produzione, di consumo di tutti i paesi ricchi; che vanno, quindi, allineati nella nuova “crociata”; e i “disertori” vanno puniti). Non a caso: sulla civiltà mesopotanica piovono bombe e, insieme, la violenza dei libri per le future elementari scritti e stampati negli USA. Gli iracheni dovranno imparare da piccoli libero mercato e “pax statunitense”. Questo è lo scontro devastante tra civiltà. Mutano i paradigmi e le strutture ideologiche: la guerra preventiva si fa essa stessa politica, teoria politica contemporanea. Le risorse vengono, per questo, dirottate violentemente dallo stato sociale alle spese militari, allo “stato penale globale”. Credo che tocchi al nuovo movimento pacifista mettere e fuoco la contraddizione insanabile tra aumento delle spese militari e pace, rilanciando la centralità della concezione del disarmo, costruendo obiettivi, vertenze, lotte quotidiane. La pace non è, infatti, assenza di guerra; è un piano di obiettivi di disarmo, di lotta contro i territori militarizzati, sequestrati per la guerra. Credo che dobbiamo impegnarci a costruire quotidianamente pratiche antimilitariste, obiezioni di coscienza e fiscali alle spese militari, lotte al commercio delle armi e alla produzione di esse, anche con progetti di riconversione dal militare al civile. La campagna per la chiusura delle basi militari è uno degli obiettivi tesi a disarticolare i “modelli di difesa imperiali”, fondati sui militari “professionisti di guerra” e sui territori sottratti alla socializzazione e messi al lavoro per la guerra.
In secondo luogo (come piano strategico che deve vivere nei programmi di lotta quotidiana), noi dobbiamo rifiutare la trasformazione del Mezzogiorno in piattaforma armata nel Mediterraneo, dentro la nuova strategia USA di spostamento delle strutture armate per controllare le risorse energetiche e proteggere i propri protettorati nel Medio Oriente e nei Sud del mondo. Perché non far ripartire la ricerca politica e sociale sulla “regione Euromediterranea”? il capitale guarda al Sud disegnando, per esso, un ruolo futuro “modernamente coloniale”, zona franca della precarizzazione e militarizzazione assoluta del territorio. Chiudere le basi, riappropriarsi del territorio, significa contrastare questo destino del Sud dentro la globalizzazione liberista, significa delineare il Mediterraneo come mare di pace, di inclusione, di rapporti, relazioni, cooperazioni, di accoglienza dei migranti e non come frontiera blindata che
esclude. Da questo punto di vista ritengo che la “nuova questione meridionale” vada assunta complessivamente, in quanto cerniera tra il Mediterraneo e l’Unione Europea, come “questione Euromediterranea”.
Continuerò, dunque, ad essere partecipe del vostro impegno,che ritengo non contingente e settoriale, ma fondamentale per delineare una strategia alternativa.
Giovanni Russo Spena
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