Il senso morale di fronte ai poveri

16 dicembre 2006
Umberto Galimberti
Fonte: la Repubblica - 30 agosto 2006

Da sempre le comunità umane hanno ancorato le regole del loro comportamento sociale e morale alla volontà di Dio, pensato come il fondatore della comunità. Per grazia di Dio i sovrani legittimavano il loro potere e in nome di Dio emanavano le loro leggi. Il peccato era la trasgressione della legge che, avendo il proprio fondamento nella volontà di Dio, era peccato contro Dio. Nell' Età dei lumi Dio prese congedo dalla comunità umana, la sua volontà fu sostituita dalla volontà popolare. Nacquero in Occidente le società borghesi che, sul consenso dei contraenti sociali, istituivano quell' ordinamento normativo il cui rovescio era l' elenco dei reati: "reati" contro la comunità e non più "peccati" contro Dio. La Chiesa, con l' introduzione del nuovo catechismo dei peccati sociali (evasione fiscale, negligenza sul lavoro, gioco d' azzardo, mercato della droga, manipolazione dell' opinione pubblica), intende risacralizzare il reato e riproporlo nelle vesti religiose del peccato. Ma questo genere di colpe non è ancora interiorizzato dalla nostra coscienza che, essendo tuttora troppo individualistica, fatica a percepire le colpe che investono l' intera collettività e perciò limita il suo orizzonte di riprovazione al furto, all' omicidio, alla sessualità perversa o violenta. E poi più nulla. Povertà
Prendiamo ad esempio la povertà che, dal resto del mondo dove dilaga, incomincia a intaccare anche il nostro mondo. Che sussulto provoca al nostro senso morale? Nessuno. Anche se sappiamo che la povertà non è solo mancanza di cibo, non è solo un incontro quotidiano con la malattia e con la morte. L' estrema povertà è la fuoriuscita dalla condizione umana e insieme la sua riapparizione come "incidente della storia", che fa la sua comparsa televisiva quando i conduttori della storia passano da quelle lande disperate che un giorno chiamavamo "terzo mondo" e che ora, visti i tenori di vita raggiunti dal primo mondo, potremmo chiamare "non-mondo", puro incidente antropologico, non dissimile da quegli incidenti geologici o atmosferici, che sotto il nome di terremoto o alluvione, chiedono soccorso. Ma cos' è un "soccorso umanitario" se non la latitanza del nostro sentimento morale che si accontenta di un gesto di carità, senza avere la forza di sollecitare la politica? E qui non penso alla politica che fa gli affari con la fame nel mondo, penso alla politica come al "non-luogo" della decisione, perché la decisione avviene altrove, in quell' altro teatro, l' economia, che da due secoli a questa parte ha ridotto la politica a un siparietto di quinta, dove ha luogo la rappresentazione democratica di interessi che operano dietro la scena e lontano dagli schermi. La presenza dei giacimenti di petrolio ha deciso fulmineamente la prima guerra del Golfo e, se mi è concesso dirlo, oggi anche la guerra in Iraq. La mancanza di questi giacimenti ha fatto marcire la guerra in Bosnia, in Croazia, in Serbia e poi in Kosovo, quindi la guerra in Somalia, e l' altra sulla frontiera tra Zaire e Ruanda, per non parlare della Costa d' Avorio dove non si muore di malattia ma di fame e di machete. Non parliamo poi della regione dei Grandi Laghi africani, del Sudan e del Darfur, luoghi in cui, abbiamo sentito dire senza scomporci, che due milioni di uomini, donne e bambini sono stati ammazzati e un altro milione manca all' appello. Un appello che non si fa a nominativo, ma per cifre che oscillano, a seconda dei diversi calcoli delle organizzazioni locali e internazionali, nell' ordine di decine di migliaia. Davvero consideriamo questi esseri umani nostri "simili", simili a noi italiani, tedeschi, francesi, americani, o non piuttosto simili a un gregge di cui non ci interessa la sorte? E perché non ci interessa? Perché non muove il nostro sentimento morale? Perché sappiamo, anche se poi rimuoviamo il pensiero, che il nostro benessere dipende dalla loro disperazione. Per rendercene conto basta qualche numeretto che qualsiasi lettore di giornali può venire a conoscere se ancora ha la forza d' animo di voler sapere in che mondo vive. Il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Pnud) riferisce che il 18 per cento della popolazione mondiale, più o meno 800 milioni di persone, dispone dell' 83 per cento del reddito mondiale, mentre l' 82 per cento della popolazione mondiale, più o meno 5 miliardi di persone, si spartisce il restante 17 per cento. Quanto all' uso, all' abuso e alla distruzione delle risorse della terra, i paesi più ricchi consumano il 70 per cento di energia, il 75 per cento del metallo e l' 85 per cento del legno. Riferisce il rapporto Pnud: «L' estrema povertà potrebbe essere sradicata con una spesa di 80 miliardi di dollari l' anno, cioè meno del patrimonio netto accumulato dalle sette persone più ricche del mondo». E in effetti le dieci persone più facoltose del mondo possiedono patrimoni per 133 miliardi di dollari che equivalgono una volta e mezzo il reddito nazionale dei 48 paesi meno fortunati. Ciò significa la fine dell' indipendenza degli Stati nazionali, la cui politica economica diventa pura esecuzione di ricatti finanziari, mascherati da consigli-condizioni per ottenere crediti, a loro volta necessari per restituire debiti al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, nel loro ruolo di agenzie del capitale transnazionale. Questa situazione non riguarda solo i paesi poveri, riguarda anche noi, se appena prestiamo un po' di attenzione a quelle agenzie specializzate (Moody' s, Standard & Poor' s) che danno i voti al debito pubblico dei vari Stati, mettendo in riga governi e amministrazioni che si vedono tagliati ulteriori fonti di credito se a loro volta non tagliano le spese per programmi sociali, se non aumentano le tasse ai cittadini, se non trasformano i debiti delle banche private e delle imprese in debito a garanzia pubblica, incentivando i capitali ad affluire. è evidente che in una condizione del genere la democrazia non può andare oltre le scelte degli esecutori tecnicamente più capaci nell' applicare i comandi del capitale finanziario che si muove a livello transnazionale, per cui quando Marx diceva che i governi erano comitati d' affari della grande borghesia, forse aveva torto, ma solo per difetto. Quello che allora era un cattivo costume, oggi è un sistema, anzi è il sistema. Per cui se nel mondo antico i debitori insolventi finivano schiavi, nel mondo del capitalismo globale interi Stati vengono costretti a lavorare per conto delle grandi finanziarie e delle grandi imprese. Qualche sussulto morale? Credo proprio di no. Anzi penso che ricordare queste cose, oggi non sia neppure politicamente corretto, in nome del "sano realismo" a cui si ispira la politica. Sano realismo che, tradotto, significa lasciare libero gioco alla "volontà di potenza", deprecabile quando Nietzsche la indicava come anima della storia, e incondizionatamente accettata quando passa sotto il nome di "real politik". Nascosta allo spettacolo quotidiano, espulsa dal linguaggio, la povertà sembra vivere solo nel gesto distratto di una mano che allunga qualcosa che non cambia di un grammo la nostra esistenza. E così, non toccata, anche la nostra esistenza si rende immune dalla presenza anche massiccia della povertà. Una povertà silenziosa, densa come la nebbia che in modo impercettibile ci tocca da ogni parte e che può passare inosservata solo a colpi di rimozione percettiva, visiva, linguistica. Ma il rimosso ritorna. E non ritorna come senso di colpa da cui è facile lavarsi con un gesto di carità. Ritorna come atrofizzazione della nostra esistenza che, per non percepire, non vedere, non sentire quel che inevitabilmente la tocca, deve procedere a tali colpi di amputazione, in ordine alla sua percezione del mondo, da diventare alla fine una povera esistenza. E qui la povertà materiale di coloro che, invisibili, si muovono nei bassifondi delle condizioni impossibili d' esistenza compie la sua vendetta mutilando la nostra esistenza per consentirle di non percepire che il nostro stato di benessere dipende direttamente dallo stato di povertà del mondo. La condizione umana infatti è comune. E il privilegio di chi vuol difendersi non solo dalla povertà, ma anche dalla sua percezione, è l' inganno di un giorno. Ciò non significa che l' Occidente è diventato cattivo, insensibile e cinico. La sua colpa non è nella sua accresciuta insensibilità e indifferenza per le sorti del mondo (questa semmai è la conseguenza, non la causa). La sua colpa morale consiste nell' aver consentito che la povertà del mondo divenisse "smisurata", perché, di fronte allo smisurato, la nostra sensibilità si inceppa. Il "troppo grande" ci lascia indifferenti, non freddi, perché la freddezza sarebbe già un sentimento. E quando ci dicono che nel mondo ogni otto secondi muore un bambino, il nostro sentimento si trova di fronte non a una tragedia, ma a una statistica, di fronte alla quale piomba in una sorta di analfabetismo emotivo. Questo analfabetismo, divenuto ormai nostra cultura, è peggiore di tutte le peggiori cose che accadono nel "non-mondo", perché è ciò che rende possibile l' eterna ripetizione di queste terribili cose, il loro accrescersi e il loro divenire inevitabili, perché il nostro meccanismo di reazione si arresta quando il fenomeno supera una certa grandezza. E siccome un bambino che muore di fame ogni 8 secondi è già oltre questa grandezza, per effetto di questa legge infernale, ogni sorta di catastrofe ha via libera, non solo in quel "non-mondo", un tempo chiamato "terzo mondo", ma anche da noi. E già se ne vedono le tracce, ma anche in questo caso possiamo sempre chiudere gli occhi e mettere a tacere quel che resta del nostro asfittico sentimento morale.

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