CRITICARE ISRAELE, VUOL DIRE ESSERE ANTISEMITA?

E’ assolutamente legittimo criticare la politica israeliana così come avviene per qualunque altra scelta politica di qualunque altro stato al mondo ed è sempre possibile farlo senza usare toni antisemiti. E’ sbagliato considerare ogni forma di critica verso la politica israeliana come antisemitismo.
26 febbraio 2009
Monique Eckmann (Haute école de Travail Social - Institut d’études sociales, Ginevra)

CRITICARE ISRAELE, VUOL DIRE ESSERE ANTISEMITA? (1)

Monique Eckmann (2)

Palestine wall

Questo contributo vuole offrire alcune piste di riflessione su questioni che regolarmente si pongono quando si parla di Israele, di antisemitismo e di Shoah: «Criticare Israele, vuol dire essere antisemita? » - «Non si può criticare Israele senza essere accusato di antisemitismo!» - «Come le vittime della Shoah, le vittime di ieri possono fare quel che fanno oggi?»
Tali questioni sono spia di un’inquietudine che oscilla tra il dubbio e l’indignazione in rapporto sia all’antisemitismo che al conflitto del Vicino-Oriente, conflitto che sembra preoccupare gli Europei più di ogni altro al mondo.

I due conflitti

In realtà, a proposito del Vicino-Oriente è necessario parlare di due conflitti: un conflitto laggiù, sul campo, e un«conflitto a proposito del conflitto», qui in Europa. In questo contributo farò riferimento al conflitto qui, nella misura in cui è sempre più spesso messo in gioco il legame con l’antisemitismo. Affrontare il conflitto laggiù andrebbe di gran lunga oltre l’ambito di un testo che si interroga sul razzismo in Svizzera e in Europa. (3)

Per prima cosa, cerchiamo di accordarci su due punti decisivi

E’ assolutamente legittimo criticare la politica israeliana così come avviene per qualunque altra scelta politica di qualunque altro stato al mondo ed è sempre possibile farlo senza usare toni antisemiti.

E’ sbagliato considerare ogni forma di critica verso la politica israeliana come antisemitismo. La Commissione Federale contro il Razzismo (CFR), del resto, lo sottolinea nel suo comunicato stampa del 16 giugno 2002: «Le critiche verso la politica dello Stato d’Israele non possono essere qualificate in sé come espressione di antisemitismo.» Si tratta di un conflitto politico violento, al riguardo del quale è del tutto naturale la presenza di giudizi fortemente divisi e differenti valutazioni.

Di contro, è anche vero che gli atti e le critiche antisemite sono aumentati in modo preoccupante in questi ultimi anni, sia in Svizzera che del resto anche in Europa. E bisogna purtroppo constatare che alcune critiche riferite al conflitto hanno talvolta usato un vocabolario antisemita e trasmettono sentimenti di odio, cosa intollerabile e totalmente inaccettabile, che si sia consapevoli o no, come è stato sottolineato dal CFR nello stesso comunicato già citato: «Senza essere di per sé antisemite, le critiche possono tuttavia favorire delle reazioni antisemite e l’estremismo di destra. Ciò, comunque, non può essere una ragione per considerarle inaccettabili. I soli responsabili del razzismo e dell’antisemitismo sono coloro che ne danno prova. E’ inaccettabile il fatto che dei cittadini svizzeri ebrei siano considerati risposabili della politica di uno Stato sovrano, anche se essi si sentono, in un qualche modo, legati a questo Stato (CFR, 2002).

Osserviamo la cosa più da vicino. In che cosa la critica è o sarebbe considerata antisemita? Perchè un così grande sospetto? Perché tanto risentimento? Perché questo malessere?
Proviamo a ripercorrere qualche pista di spiegazione per definire poi qualche strumento che ci consenta di distinguere il dibattito e la critica democratica da una parte, dai sentimenti e i risentimenti antisemiti dall’altra.

L’irruzione dell’antisemitismo (4)

Riciclaggio d’immagini antisemite ben conosciute

L’antisemitismo, in realtà, non è mai del tutto scomparso in Europa, anche dopo il 1945. Profondamente ancorato sotto forma di «codice culturale» (Volkov 2000) alla cultura europea, si è trasformato dopo la Seconda Guerra mondiale ed è diventato, almeno in parte, un elemento politico del conflitto israelo-palestinese, saldandosi con un immaginario antico. Affinché il dibattito si svolga democraticamente, è necessario che la critica o l’opposizione alla politica israeliana sia condotta sulla base di fatti, di argomenti razionali e nella disponibilità dell’ascolto reciproco.
Laddove il limite verso l’odio è superato, ecco che le emozioni che esprimono un’avversione totale fanno irruzione e superano il quadro della razionalità. E’ la situazione nella quale gli argomenti si richiamano ad associazioni, simboli o sentimenti ispirati all’arsenale antisemita. Tre esempi per illustrare questo limite. Si è potuto osservare il ricorso nella stampa a disegni e immagini che sono in realtà la riproposizione di antiche immagini, che associano i fatti e le imprese dell’esercito israeliano agli Ebrei sanguinari e alla morte rituale, o che ricordano l’accusa di deicidio, temi ben noti dell’antigiudaismo cristiano. Un secondo esempio è la ripresa delle teorie del complotto, che raffigurano gli Ebrei come una superpotenza che domina sul mondo con poteri occulti e un piano diabolico, sulla scia di una tradizione diffusa dai tristemente famosi “Protocolli dei Savi di Sion”. Un terzo elemento è la presentazione degli Ebrei o degli Israeliani, spesso impiegati come termini interscambiabili, come il male assoluto, con l’uso di simboli nazisti che ricordano i peggiori ammonimenti del nazismo riguardo al preteso “pericolo ebraico”. Di contro, i sentimenti di odio associati a certe espressioni retoriche superano di gran lunga il limite dell’odio che separa la critica politica dall’antisemitismo.

Analogie con la Shoah: le difficoltà del passato che non passa

La Shoah e il nazional-socialismo rappresentano oggi in modo emblematico il peggio che la civiltà occidentale ha potuto produrre. Perché dunque è così frequente la tentazione di comparare la politica israeliana al nazional-socialismo o di associare la sorte dei Palestinesi a quella degli Ebrei?
E’ facilmente comprensibile che noi Europei, Ebrei e non-Ebrei, siamo tutti ossessionati dalla Shoah, e ciò spiega il fatto che quando si discute del conflitto israelo-palestinese si finisca per parlare della Shoah, e viceversa. Si aggiunga che un certo mimetismo tra il popolo ebraico e quello palestinese, due gruppi che hanno vissuto delle tragedie traumatiche – Shoah e Neqba (5) -, fa parte oggi di quello che possiamo definire il dialogo o la concorrenza delle memorie (Eckmann 2004). Ed esistono nessi storici tra le due tragedie. Ma questi nessi non autorizzano affatto dei parallelismi. La comparazione degli Israeliani con i nazisti, dei campi dei rifugiati palestinesi con i campi di concentramento, rappresenta un’analogia impropria che non solo porta la responsabilità di una demonizzazione dello Stato di Israele, e a volte per estensione di tutti gli Ebrei, ma per giunta rappresenta una banalizzazione della Shoah come ha notato Georg Kreis (citato da Abelin 2004).
Bisogna chiedersi, come è accaduto in Germania, in quale misura queste analogie hanno come conseguenza o per funzione quella di scagionare la coscienza europea, in difficoltà nei confronti degli Ebrei.
In effetti, relativizzare la Shoah e stabilire che i crimini di oggi sarebbero tanto gravi quanto quelli dei nazisti, dichiarando che le vittime ebree “fanno la stessa cosa”, rappresenta una pericolosa banalizzazione o piuttosto una trivializzazione (Christer Mattson 2004) della Shoah. Tutto ciò fa intendere che la Shoah, in fondo, non è stato un fatto così grave al confronto con i crimini di oggi, e che il dovere di una coscienza storica di quel periodo non rappresenterebbe più una necessità.
La tesi di Alain Finkielkraut si spinge ancora più oltre: egli sostiene che in nome stesso della memoria della Shoah e dei Diritti umani molti movimenti schierati a fianco dei Palestinesi stigmatizzano il comportamento degli Ebrei e di Israele.

Senza condividere le sue conclusioni sulla politica di Israele, in ogni caso qui viene posta una questione ai movimenti per i Diritti umani. Comunque sia, molti Ebrei in Svizzera dichiarano di essere isolati nelle discussioni, di essere oggetto di allusioni e dello sguardo degli altri, e testimoniano della difficoltà di dirsi Ebrei e di parlare di Israele.
Capita spesso che essi non osino dire il loro punto di vista apertamente, per il timore di suscitare reazioni di rigetto.
E’ quindi possibile e necessario evitare che la critica politica o il sostegno dei Palestinesi non siano oggetto di strumentalizzazione antisemita in modo indiretto o manifesto, o di risentimenti legati più al passato e alla storia europea, che al presente e alla situazione attuale in Palestina.

L’accusa di antisemitismo

Per altri versi, l’accusa di antisemitismo è indirizzata sbrigativamente, spesso troppo sbrigativamente, a persone e movimenti solidali con i Palestinesi, da parte di certi ambienti che difendono la politica israeliana, contando sulla paura di essere accusati di antisemitismo, con lo scopo, cosciente o meno, di intimidire attraverso l’uso di questo argomento per squalificare ogni critica. Questo uso rischia di svalutare e di annacquare il termine antisemitismo e di politicizzare il suo significato. Da una parte c’è il timore delle comunità ebraiche, che sentono, con una diversa sensibilità, gli accenti e le intonazioni antisemite, là dove altri non le percepiscono. Nella stessa Israele, il ritorno di Auschwitz è vissuto come «una eventualità sempre possibile di fronte al resto del mondo definito come ostile e antisemita» (Zertal 2004).
In ogni caso, l’accusa di antisemitismo dovrebbe essere più prudente, poiché in effetti si confonde il sospetto di antisemitismo con l’antisemitismo messo in atto, un eventuale antisemitismo latente con un antisemitismo manifesto. Si accusa spesso le vittime di vedere il razzismo ovunque e di essere paranoiche. Ciò è vero per tutte le vittime del razzismo, e la suscettibilità è un rischio che corrono tutti i gruppi discriminati. D’altra parte, in questi casi ci può essere una strumentalizzazione inversa a quella citata in precedenza che si serve dell’accusa di antisemitismo per difendere dalle critiche un governo o una scelta politica. Quando la critica delle colonie di popolamento o dell’occupazione è considerata come antisemita, ci si trova nel campo dell’uso politico dell’antisemitismo. Accusare di antisemitismo tutti quelli che difendono i diritti dei Palestinesi ad avere uno Stato significa accusare di antisemitismo la stessa opposizione israeliana e i movimenti per la pace israeliani o ebraici e i loro simpatizzanti, dunque molti Ebrei.
Il sospetto di antisemitismo fa esitare alcuni a dire ciò che pensano del conflitto israelo-palestinese o a pronunciare la loro opinione apertamente. Il vago sentimento di malessere e di colpevolezza nei confronti degli Ebrei rinforza questa difficoltà. E ancora, essere accusati di antisemitismo significa oggi essere equiparati ai nazisti, il peggiore degli oltraggi. Negli ambienti solidali con i Palestinesi che si collocano a sinistra dello schieramento politico molti si dichiarano coscienti del rischio di tendenze antisemite. Cosa vera che richiederebbe però qualche riflessione più critica per gli slogan di certe manifestazioni, ad esempio.
Non bisogna certo insinuare che gli Ebrei avrebbero il potere di impedire qualsiasi critica, cosa che rinvia alle teorie sul complotto. Per questo basta guardare i media. In particolare nella Svizzera, i sostenitori delle due parti in conflitto accusano i media di essere parziali: per gli uni, i media sono sistematicamente filo-palestinesi; per gli altri, sono sistematicamente filo-israeliani. E tutto questo vorrà forse dire che, alla fine, i media sono riusciti a trovare il giusto equilibrio?
Per molte delle persone impegnate nella difesa dei Diritti umani, è una necessità quella di far sentire la propria voce in difesa dei più deboli, e cioè di impegnarsi dalla parte dei Palestinesi, e ciò senza giustificare in nessun modo il ricorso alla violenza. Accusare queste persone di antisemitismo tout court non serve né alla causa dei Diritti umani, né a quella della lotta contro l’antisemitismo. I difensori dei Diritti umani da parte loro – e una presa di coscienza a questo proposito sta facendosi strada - devono far propria l’esigenza di non superare il limite tra il dibattito politico e l’antisemitismo.

L’antisionismo è antisemitismo?

L’interrogativo apre un ampio dibattito. E solleva questioni alle quali la stessa Europa non è riuscita a rispondere in modo adeguato come dimostra l’imbroglio etno-politico nella ex-Yugoslavia: come organizzare un territorio per consentire a due o più popoli di sentirsi a casa propria e esercitare la loro sovranità? Come conciliare diverse aspirazioni nazionali? Come proteggere i diritti delle minoranze in uno Stato-nazione? Sono tutte questioni che ruotano attorno allo sionismo e all’anti-sionismo.
L’anti-sionismo è una forma di antisemitismo: la questione presuppone che si possa chiaramente definire il sionismo e l’anti-sionismo. (6) Bisogna ricordare che c’è un forte dibattito dalla fine del XIX secolo all’interno dello stesso mondo ebraico tra sionisti e anti-sionisti, e il sionismo ha sempre incontrato sia approvazione che contestazione da parte degli stessi Ebrei. E così come ci sono molte forme di sionismo, ci sono molte forme di anti-sionismo o anche di post-sionismo.
In sostanza, l’anti-sionismo propone uno Stato nel quale potrebbero vivere Ebrei e Palestinesi, ciò che sembra in effetti costituire una reale possibilità. Ma uno Stato bi-o pluri-nazionale è realizzabile a condizione che le minoranze possano disporre di garanzie di protezione dei loro diritti e della loro sicurezza. Bisognerà immaginare nuove forme Stato, pluri-nazionali o di tipo federale, e trovare assolutamente delle risposte alle questioni legate alla sovranità, anche se parziale, e alla sicurezza. Una posizione antisionista che tralascia di affrontare queste implicazioni rasenta effettivamente l’antisemitismo, anche se la situazione è solo ipotetica, nella misura in cui questa stessa posizione non si fa carico della protezione degli Ebrei come minoranza in uno Stato a maggioranza palestinese o araba. Ed è esattamente questa eventualità che spaventa la grande maggioranza degli Ebrei. Ed è per questo che la memoria della Shoah rappresenta la tempo stesso un trauma reale e un trauma facilmente strumentalizzabile, una paura che spiega molte cose, anche se non può giustificare tutto.
Si può dunque vedere come in questa logica l’antisionismo si avvicina all’antisemitismo larvato. A ciò di aggiunga che la parola sionista è sempre più spesso usata come un insulto, e funziona come sinonimo di «Ebreo», e ciò, ad esempio, nei paesi del blocco comunista. Resta comunque il fatto che il nesso tra anti-sionismo e antisemitismo non è affatto automatico. E tuttavia se si prescinde dal contesto storico nel quale è nato il sionismo e si argomenta intorno al sionismo come se l’antisemitismo non fosse mai esistito, molti Ebrei percepirebbero un ragionamento anti-sionista come espressione di un atteggiamento antisemita, anche da parte di coloro che si sono fortemente opposti alla politica israeliana (Klug 2004 b). La possibilità dell’autodeterminazione politica è un diritto che deve essere riconosciuto ad ogni popolo, ivi compresi gli Ebrei e i Palestinesi. Mettere in discussione l’esistenza stessa dello Stato d’Israele, o delegittimarlo in quanto tale, significa negare agli Ebrei questo diritto, cosa che è per molti aspetti assimilabile a una forma di antisemitismo, anche se solo in forma larvata.
Ma ritorniamo al «conflitto a proposito del conflitto», quello che si gioca qui in Europa. Ciò che è irritante è vedere che nelle discussioni ognuno si pone come vittima, creando una specie di competizione tra le vittime. Non bisogna sostenere questo atteggiamento e bisogna evitare che si diffonda, sia che riguardi coloro che vedono in ogni critica della politica israeliana una forma di antisemitismo, sia coloro che ravvisano in ogni messa in guardia dell’antisemitismo una strumentalizzazione politica.

Difficoltà e possibilità quando si affrontano queste obiezioni sul terreno pedagogico

E dunque: è possibile criticare Israele? È possibile criticare la politica israeliana senza essere antisemiti? È possibile criticare la politica israeliana senza essere accusati ingiustamente di antisemitismo?
È del tutto evidente che si può sia criticare la politica israeliana e battersi allo stesso tempo contro l’antisemitismo, entrambi gli atteggiamenti nel nome dei Diritti umani. Concludiamo allora con alcune riflessioni e questioni in una prospettiva pedagogica.

Decostruire le pratiche discorsive che demonizzano

Scegliere le proprie parole e le proprie immagini non ha a che vedere con un atteggiamento politically correct, ma è piuttosto questione di rispetto della precisione. Così non si deve confondere un governo con un popolo, né gli Israeliani con gli Ebrei. È necessario imparare a decodificare l’uso delle associazioni e dei simboli antisemiti e saperli combattere. Le strategie retoriche che favoriscono una essenzializzazione e una demonizzazione - e ciò, del resto, vale sia per gli uni che per gli altri ! – devono essere decostruite criticamente.

Argomentare utilizzando i fatti, sapendoli contestualizzare

L’esattezza dei fatti sui quali si basa un’argomentazione è decisiva, così come è necessario saper ricondurre i fatti al loro contesto storico e politico. Ciò implica l’uso di documenti storici e contemporanei, la capacità di metterli in prospettiva e di procedere ad un’analisi critica delle fonti. Questo approccio può favorire di per sé uno scambio di fatto, anche se sappiamo che gli stessi accadimenti possono essere interpretati diversamente, come dimostra il gruppo di docenti israeliani e palestinesi che hanno scritto le due rispettive storie in parallelo, riconoscendo la legittimità della storia dell’altro e la necessità di tenerne effettivamente conto (Collectif PRIME 2003).
La critica delle posizioni politiche, delle azioni politiche o militari o degli atteggiamenti dei politici o di un governo fanno parte del dibattito democratico, e non è la stessa cosa che condannare in blocco una popolazione e/o un paese.

Interrogare il proprio rapporto con il conflitto

Il conflitto israelo-palestinese è unico?
Spesso l’argomento è sostenuto per il fatto che si tratta di un conflitto non paragonabile a nessun altro, in ragione della sua complessità, della storia particolare del progetto nazionale ebraico o del legame tra la decisione della creazione dello Stato di Israele e la Shoah. Ma non è così certo tutto ciò: le questioni dei territori e delle frontiere, delle minoranze e dello Stato-nazione, della collocazione dei rifugiati si possono ritrovare in ben altri conflitti. Ciò che potrebbe essere unico è il rapporto singolare che ha una grande parte del mondo, e in ogni caso l’Europa, con questa parte del mondo. Sono dunque il nostro particolare rapporto al conflitto che lo rende così unico, e i molteplici legami che legano l’Europa cristiana, la storia delle Crociate, del colonialismo e quella del XX secolo a questa terra. Interroghiamoci dunque non solo sul conflitto in sé, ma lasciamoci anche uno spazio per interrogare il nostro stesso rapporto a questo conflitto e a questa terra, « promessa » a più di uno sguardo.
Riflettere sulle emozioni e sul linguaggio usato
A volte la differenza sta più nel modo con cui sono dette le cose, nelle emozioni che sottendono le parole che al contenuto degli argomenti messi in campo.
Dovremmo, inoltre, riflettere egualmente al nostro modo di esprimerci con riferimento «al conflitto a proposito del conflitto»: gli uni dovranno interrogarsi sulla virulenza delle affermazioni anti-israeliane e domandarsi se esse non abbiano implicazioni antisemite; gli altri dovranno interrogarsi sull’accusa di antisemitismo e domandarsi se non sia stata pronunciata troppo alla leggera.
Infine, per le persone esterne al terreno del conflitto, per gli Svizzeri o gli Europei, è importante sia prendere parte alla lotta contro l’ingiustizia che essere cauti con le condanne globali e semplificatrici: in effetti, non si tratta di una scelta binaria tra l’essere filo-palestinesi o filo-israeliani, tra il Bene e il Male, bensì di un atteggiamento critico che non ignora la propria implicazione emotiva e identitaria. Sostenere le forze di pace delle due parti offre una prospettiva a tutti coloro che sono consapevoli della posta in gioco.
È dunque possibile non abbandonare né l’uno né l’altro: operare per una pace giusta nel Vicino Oriente e combattere ogni forma di antisemitismo, rifiutando le polarizzazioni che contrappongono i filo-palestinesi ai filo-israeliani. Potremmo ispirarci per prima cosa a quei docenti israeliani e palestinesi sopra menzionati che suggeriscono di «considerare l’insegnamento della storia come un tentativo di costruire un futuro migliore “capovolgendo ogni pietra” anziché gettandosele addosso» (PRIME, Collectif, 2003 vedi riquadro).

Traduzione dal francese a cura di Ernesto Perillo

Note: 1 In Monique Eckmann e Michèle Fleury ( a cura di) Racisme(s) et citoyenneté. Un outil pour la réflexion et l’action, Ed. ies, Genève, in corso di pubblicazione.
2 Monique Eckmann, sociologa di formazione, è docente presso l’Haute école de Travail Social - Institut d’études sociales di Ginevra, dove anima, tra le altre, la rete Intermigra (Interculturel,migration, racisme). E’ membro del Centre d’études de la diversité culturelle et de la citoyenneté (CEDIC), nato all’interno della Haute école spécialisée de Suisse occidentale. Al centro delle sue ricerche e del suo insegnamento le dinamiche identitarie nei conflitti tra i gruppi,le relazioni interculturali e la memoria, il dialogo tra maggioranze e minoranze. Nelle sue pubblicazioni sviluppa concetti e strumenti di lavoro e di formazione per l’educazione alla democrazia, ai diritti dell’uomo, alla pace. Tra le sue ultime pubblicazioni : Identités en conflit,dialogue des mémoires. Enjeux identitaries dans les rencontres intergroupes, Ed. ies, Genève, 2004 ; e con Miryam Eser Davolio, Pedagogia dell’antirazzismo. Aspetti teorici e supporti pratici, Giampiero Casagnade editore, Milano, 2005.
3 Il testo parte da due presupposti che non saranno sviluppati in questo contributo : da una parte il riconoscimento della legittimità dell’esistenza dello Stato di Israele con frontiere sicure e riconosciute a livello internazionale e dall’altra la legittimità della rivendicazione palestinese per uno Stato duraturo, che abbia anch’esso frontiere sicure e riconosciute a livello internazionale.
4 Il termine antisemitismo è oggi messo in discussione : alcuni preferirebbero altre denominazioni come anti-giudaismo o razzismo anti-ebraico. A mio parere il termine è di uso sufficientemente comune da poter essere utilizzato in questo contributo. E’ comunque importante non assimilarlo al nazismo, poiché l’antisemitismo è un elemento caratteristico della cultura europea ben prima del periodo nazista.
5 Nome che in arabo significa « catastrofe» e indica l’espulsione dei Palestinesi nel 1948.
6 In prima approssimazione si può definire il sionismo come il movimento che difende l’idea di uno Stato ebraico, ispirato alle tradizioni dei nazionalismi del XIX secolo, e l’antisionismo come la contestazione dell’idea stessa di Stato ebraico.

Riferimenti bibliografici

- Abelin, Peter (2004) « Wo beginnt der Antisemitismus? Georg Kreis bei der GSI in Bern ». in Tachles, 27. Februar.
- CFR, Commission Fédérale contre le Racisme, Communiqué de presse, Berne 16 juillet 2002, Discussion sur l’antisémitisme dans le débat sur le conflit au Proche-Orient.
- Deutsch-israelischer Arbeitskreis für Frieden im Nahen Osten (DIAK)(2004) Antisemitismus und Nahostkonflikt, Zeitschrift für Dialog, Wochenschauverlag 3/ 2004.
- Eckmann, M. (2004), Identités en conflit, dialogue des mémoires. Enjeux identitaires dans les rencontres intergroupes. Préface de C. Rojzman. Ed. ies, Genève.
- Finkielkraut, Alain (2003), Au nom de l’Autre. Gallimard, Paris
- Klug, Brian (2004a), «Der Mythos des neuen Antisemitismus » in Antisemitismus und Nahostkonflikt, Zeitschrift für Dialog. Deutsch-israelischer Arbeitskreis für Frieden im Nahen Osten (DIAK) Wochenschauverlag 3/ 2004, pp. 27-39.
- Klug, Brian (2004b), « Antisemitismus : Kehrt das Monster zurück ? » in Antisemitismus und Nahostkonflikt, Zeitschrift für Dialog. Deutsch-israelischer Arbeitskreis für Frieden im Nahen Osten (DIAK) Wochenschauverlag 3/ 2004, pp. 48-52.
- Mattson, Christer (2004), Exposé à la Maison Anne Frank, Amsterdam, rencontre d’experts, novembre.
- PRIME, Collectif (2003) L'Histoire de l'Autre. éd. Liana Levi, Paris.(trad. it. Peace Research Institute in the Middle East, La storia dell’altro. Israeliani e Palestinesi, Ed. Una città, Forlì, 2003)
- Volkov, Shulamit (2000) Antisemtismus als kultureller Code. : Zehn Essays. Beck’sche Reihe, Beck, München.
- Zertal, Idith, (2004), La Nation et la mort. La Shoah dans le discours et la politique d'Israël. éd. la Découverte, Paris

«La Storia dell’Altro» è un’iniziativa israelo-palestinese che ha portato alla redazione di un manuale di storia per le scuole secondarie, che presenta il conflitto dai due punti di vista palestinese e israeliano. Il testo è stato scritto da Sami Adwan (Palestina) et Dan Bar-On (Israele), soci fondatori del PRIME (Peace Research Institute for Peace in the Middle East). Di seguito un brano tratta dall’introduzione, pp. 13-14:
I manuali scolastici portano generalmente la loro attenzione sui conflitti, le guerre, le sconfitte (…) Quelli che per una parte sono gli eroi, per l’altra sono i cattivi. Ed è così che un paese forma i propri insegnanti in quanto intellettuali incaricati di dare ragione a una parte a scapito dell’altra.
Noi siamo convinti che è giunto il momento di formare dei docenti che siano costruttori di pace, in grado di insegnare agli studenti la loro storia e quella dell’altro. O meglio ancora, bisogna che il docente sappia dare spazio alle questioni poste alle rispettive storie (…) Bisogna considerare l’insegnamento della storia come un tentativo di costruire un futuro migliore “capovolgendo ogni pietra” anziché gettandosele addosso» Sami Adwan, Dan Bar-On, Adnan Musallam, Eyal Naveh.

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