L’emarginazione dei profeti: un destino “inevitabile”?
In una memorabile conversazione del 10 maggio 1970, riferendosi a Mazzolari, papa Paolo VI avverti l’esigenza di rendere in qualche modo giustizia al parroco di Bozzolo. “C’è chi va dicendo – ebbe ad affermare fra l’altro – che io non ho voluto bene a don Primo. Non è vero: io gli ho voluto bene. Certo ... non era sempre possibile condividere le sue posizioni: camminava avanti con un passo troppo lungo e spesso non gli si poteva tener dietro. E così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti”.
Ma è appunto questo il problema. E questo destino dei profeti è veramente “inevitabile”? È, questo, un punto importante sul quale il cinquantenario della morte di Mazzolari dovrebbe indurre a riflettere.
Si deve riconoscere che la storia della Chiesa degli ultimi due secoli (per non riandare ad epoche ancora più lontane) è tutta costellata di condanne poi revocate, di prese di distanza da posizioni successivamente ritenute pienamente legittime, di emarginazione di figure poi riabilitate o addirittura beatificate (fatti, tutti, che nulla hanno a che fare con la “infallibilità” del magistero in quanto garante della fede della comunità, la quale opera su ben più alti piani).
Basti pensare alla messa all’indice di varie opere rosminiane, e cioè di un autore che nel 2008 è stato beatificato, o all’umiliante ritrattazione cui Geremia Bonomelli si piegò, con grande ed esemplare obbedienza, dopo avere sostenuto la non necessità, per la libertà della Chiesa, del potere temporale; o alle durissime critiche, fortunatamente non sfociate in una formale condanna, cui fu assoggettato da parte di influenti ambienti ecclesiastici Jacques Maritain, ora riconosciuto come uno dei grandi intellettuali cattolici del novecento. Mazzolari trova dunque posto, con le sue emarginazioni, in una lunga (e gloriosa) galleria di personaggi.
Vi è tuttavia da domandarsi – perché la storia possa esercitare la sua spesso inoperante funzione di magistra vitae – se questi errori di valutazione, per altro storicamente comprensibili, siano proprio necessari o se invece la loro persistenza non stia ad indicare alcuni limiti dell’istituzione ecclesiastica che augurabilmente dovrebbero essere superati.
Il primo limite è rappresentato da una insufficiente capacità di ascolto. Molte condanne sono avvenute in passato per una inadeguata attenzione alle “ragioni” (spesso legittime) dell’"inquisito”. Mazzolari, ad esempio, non ebbe mai la reale possibiltà di difendersi e di chiarire il suo pensiero.
Un secondo limite è costituito da un ampliamento eccessivo dell’area delle questioni dottrinalmente rilevanti. Se si pensa all’importanza “dottrinale” attribuita in passato a talune questioni politiche o agli usi linguistici nella liturgia, si comprende come sia ricorrente la tendenza a trasformare questioni opinabili in problemi di fede, con la conseguente riduzione degli spazi di libertà dei credenti.
Occorre dunque che si aprano nella Chiesa più ampi spazi al dialogo e che, nello stesso tempo, si operi un attento discernimento in ordine alla distinzione fra problematiche decisive per il futuro della fede e questioni che è opportuno lasciare alla libera discussione, evitando di moltiplicare e dismisura (con il rischio di successive clamorose smentite) l’area dei cosiddetti “principii non negoziabili”.
Perché i profeti possano essere ascoltati – e non umiliati ed emarginati, in attesa di postume riabilitazioni – è dunque necessario che si aprano nella Chiesa liberi spazi di confronti, di dialogo, di dibattito, partendo dal presupposto che non sono le parole, ma più spesso i silenzi, che feriscono il corpo della Chiesa. Vi è un silenzio che feconda ed arricchisce ed un silenzio che mortifica ed umilia: proprio in questo ambito deve sapersi esercitare l’autentico discernimento cristiano. Ciò che importa è che – anche al di là della diversa valutazione su questioni contingenti – permanga intatto l’amore per la Chiesa, la volontà di servirla, l’attitudine a rivedere le proprie posizioni quando dal confronto fraterno emerga che quanto si era a lungo ritenuto giusto e vero tale non è e che ci si deve, se necessario, inchinare a chi nella Chiesa esercita l’autorità.
Giorgio Campanini
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