Genova si interroga sul movimento che serve
Ma a che serve, se serve ancora, il movimento dei movimenti? E che cosa può, o deve, fare in una fase politica diversa da quella in cui s’è manifestato per la prima volta? Specie poi se la congiuntura si veste dei toni drammatici come quelli che si registrano a proposito della guerra afgana in cui si sta imbarcando il governo nato anche dalla spinta delle nuove energie di cittadinanza che si sprigionarono a Genova?
Cinque anni dopo le giornate del ricordo, oggi è l’anniversario dell’omicidio di Carlo, si nutrono anche di domande come quelle che il comitato Piazza Carlo Giuliani ha messo in cartellone da ieri e fino a sabato con l’obiettivo esplicito di contribuire a far ripartire discussione e mobilitazione, ripartendo da Genova. Perché non si dica di noi, rubando le parole a Vittorio Agnoletto che fu il portavoce del Genoa social forum, «che si incontrarono per cambiare il mondo e si lasciarono dopo aver cambiato il governo». Perché già nelle preoccupazioni quasi sussurrate mentre sistema il banchetto del comitato da Haidi, senatrice da oggi al posto di Gigi Malabarba, oppure evocate dal microfono da Giuliano, lo spettro che si aggira nello spazio feste del Porto Antico, ha un nome e un aggettivo: governo amico. Dice ad esempio Bersani, portavoce di Attac, che mica esiste un governo amico, tutt’al più “amici al governo” che servono ad aprire varchi. Ma quei varchi qualcuno deve pure sfondarli. A Bersani gliel’hanno insegnato i Sem terra brasiliani. Qua invece, «abbiamo fatto Bingo - dirà ancora Agnoletto - Scajola al Copaco e Bianco agli affari costituzionali del Senato». Uno era ministro di polizia all’epoca del G8 di Genova, l’altro lo aveva preceduto pochi mesi prima dirigendo la repressione al global forum napoletano che sembrò la prova generale di quanto sarebbe accaduto a luglio. E non sono certo rassicuranti le palate di sabbia gettate da Violante, appena 24 ore fa, sulla commissione d’inchiesta, scritta nel programma dell’Unione ma che nessuno, eccetto il solito Prc, sembra ricordare. «Fu raccapricciante anche allora - ricorda Maurizio Gubbiotti di Legambiente - il tentativo di Violante per una relazione bipartisan alla fine della commissione di indagine che seguì il G8». Peggio, si profila, su un’orizzonte minacciosamente vicino, un ruolo ancora più potente per De Gennaro, capo della polizia per ogni stagione, regista delle mattanze genovesi e probabile Negroponte italiano. Agnoletto azzarda ironico: «Ho l’impressione che ora diamo noia, forse ci hanno solo usato come centravanti di sfondamento».
E le domande si moltiplicano. Una l’aggiunge Giorgio Cremaschi, segretario Fiom, contando la non oceanica folla del Porto Antico: «Dove sono andate a finire le centinaia di migliaia di persone che vennero nel 2001? Dove le abbiamo perse? Perché di tutte loro c’è ancora bisogno. Senza un movimento le cose non cambiano davvero». E’ così sulla guerra contro cui il movimento s’è battuto “senza se e senza ma” ma proprio mentre a Genova si parlava, a Roma venivano stanziati 300 milioni di euro per la missione afgana che - fa i conti la pacifista Norma Bertulacelli - ha fatto 2500 morti solo negli ultimi sei mesi. «La pace non ce la regala nessuno - dice pensando a certe dichiarazioni di D’Alema - serve qualche “stravaganza”». Quello che accadde a Genova 2001. Già ma come? Raffaella Bolini sembra quasi la più realista: «Abbiamo bisogno di porci il problema di un rapporto diverso con la politica, ci serve una tattica intelligente. Anche gli africani del forum sociale mondiale ci chiedono un’interlocuzione con settori moderati come il Pse. Non è per nulla d’accordo Nicola De Lussu, dei Cobas, per il quale i movimenti non sono compatibili con impostazioni governiste. «Anzi - aggiunge Bersani - il governo social-liberista, per noi, è un banco di prova. Dobbiamo uscire dalla subalternità di una logica di delega: dobbiamo essere seminatori intransigenti».
Sulla ricostruzione di un ambito di movimento, perché è questo che ha fatto la differenza in questi ultimi mesi, esiste un consenso sostanziale tra tutte le anime sentite nella prima giornata di dibattiti genovesi. Ma il “solito” Agnoletto insinua un dubbio prolifico: «C’è qualcosa che non funziona se alla Camera ci sono stati solo una manciata di no al ddl sulle missioni. Forse se l’intera sinistra radicale avesse elaborato una posizione comune perlomeno ci sarebbe stato un decreto diverso». E a chi ribattesse con il risultato del ritiro dall’Iraq, contenuto nel ddl, viene risposto che è stato il movimento a farlo diventare senso comune. Lo stesso è riuscito a fare con la Tav, l’acqua di Napoli e le scorie di Scanzano. Gubbiotti lo sa bene, così come lo sa Attac, dopo le manifestazioni oceaniche, le reti si sono territorializzate. Non c’è territorio senza un conflitto ambientale o per i beni comuni o contro i Cpt.
Cinque anni dopo Genova si prende dunque la briga di stimolare una terza fase. «Il movimento serve e non deve fare il fiancheggiatore - propone Cremaschi - meglio fare come in Francia». Lui dice «ripartiamo dalla guerra e dal liberismo. Non ci può bastare la sconfitta di Berlusconi». Bersani propone di lanciare una campagna per il taglio in finanziaria delle spese militari, per uscire dall’economia della guerra. E l’ex portavoce del Gsf, oggi europarlamentare, chiama a una campagna d’autunno capace di partorire rapporti di forza diversi e di far sentire il fiato sul collo alla sinistra radicale. «Ma attenzione a non restare incastrati nella faccenda afgana - avverte Bolini - abbiamo un’altra urgenza, prima ancora dell’autunno, ed è quella mediorientale».
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