Piccoli e grandi soprusi consumati nei commissariati
Ma la polizia deve difendere i cittadini o difendersi dai cittadini? Non è una domanda provocatoria, ma un interrogativo serio che emerge dal senso comune che rischia di affermarsi nel nostro paese. Dopo le accusa del governo inglese contro i comportamenti della polizia italiana, i giornali di destra si scatenano in sua difesa, a prescindere. Ma anche i commenti di politici del centro sinistra sembrano privilegiare il terreno campanilistico, come se la competizione calcistica investisse anche il giudizio sull'ordine pubblico.
Il problema invece va posto, non solo perché le immagini trasmesse dalle televisioni, relative all'intervento della polizia allo stadio olimpico non sono un bel vedere, e meritano come minimo un supplemento di indagine. Ma perché, non da oggi, e in particolare dopo la morte dell'ispettore Raciti a Catania, si rischia di affermare un'idea totalmente sbagliata.
Non ho bisogno di insistere sulla convinzione che non è assolutamente concepibile che qualcuno perda la vita in uno stadio o in una piazza, e che l'incolumità dei poliziotti va salvaguardata esattamente come per ogni cittadino senza la divisa. Questo non può però confondere le cose, fino al punto di criminalizzare qualsiasi critica a determinati comportamenti, o di giustificare nuovi provvedimenti legislativi di carattere emergenziale, secondo l'unica filosofia di un inutile quanto pericoloso aumento delle pene, accompagnato da un senso comune che presuppone una condizione di pericolo per le nostre forze dell'ordine. Il decreto del governo sull'emergenza stadi ha questa caratteristica, e le modifiche del parlamento l'hanno appena migliorato e circoscritto. E già sono in corso iniziative da parte di qualche sindacato di polizia per chiedere altre misure e altri aumenti di pena. La professionalità delle forze dell'ordine italiane non è in discussione, numerose esperienze lo confermano. Ma le stesse ci dicono che questa professionalità può essere usata in direzioni opposte: per tutelare i diritti dei cittadini o per scatenare ingiustificate e ingiustificabili repressioni. Quella che va monitorata è dunque la cultura che sottende ai loro interventi, alla loro formazione, ai loro comportamenti.
E non è solo l'esperienza di Genova 2001, ad aver determinato in noi preoccupazioni e inquietudini. Sono tanti piccoli e grandi soprusi consumati nei commissariati a fronte di un fermo; sono gli incontrollabili istinti che abbiamo registrato in manifestazioni minori, magari seguiti dalle scuse della questura; è la reazione insofferente dei sindacati di polizia, contro una misura di buon senso come un codice di identificazione da apporre sulle divise e sui caschi. E soprattutto è l'idea di impunità, che sembra affermarsi anche negli schieramenti politici, di centro destra e di centro sinistra. Vale allora la pena di ricordare che un vero processo di democratizzazione delle forze dell'ordine, nel nostro paese, non si è mai compiuto; che la riforma dell'81 ha riguardato solo la sindacalizzazione della polizia; che diverse forze politiche, in particolare il PCI e il PSI ancora negli anni '60 e '70 sollecitavano riforme profonde, che non hanno trovato risposta negli atti parlamentari.
Va ribadito altresì che le forze dell'ordine non devono rispondere ai governi, ma alla Costituzione, e che la loro formazione deve ispirarsi ai suoi valori, che è cosa diversa dall'addestramento. Se 10 anni fa lo Stato spendeva 30 miliardi di lire per la formazione, nel 2006 ha stanziato solo 6.50 milioni di euro, possiamo ben sostenere che il vuoto culturale è enorme e che la disciplina oggi sostituisce la formazione. L'ipocrisia di coloro che rifiutano qualsiasi critica alle azioni della polizia, determina dunque conseguenze negative anche sui diritti degli stessi agenti. Non è un caso se un codice di disciplina gerarchico e ricattatorio, in cui non è garantito neanche il diritto di difesa, sopravvive ormai a diversi governi. Dunque, quelli che vorrebbero stendere un velo di impunità e di connivenza sulle forze dell'ordine, sono gli stessi che negano loro effettive libertà sindacali. In queste ore è stata diffusa la notizia che il Viminale vorrebbe dotare la polizia di bombolette con spray urticante. Fortunatamente lo stesso ministero dell'Interno ha smentito. Ma poiché ne abbiamo conosciuto gli effetti a Genova, vorremmo cogliere l'occasione per dire che la bomboletta è simbolica di una concezione dell'ordine pubblico in cui l'obiettivo non è difendere i diritti dei cittadini, impedire che la gente si faccia male, che i tifosi si picchino, che l'intervento della polizia miri ad alleggerire la tensione, a impedire che la situazione degeneri, ecc.. Quando arrivi a spruzzare uno spray urticante verso un manifestante, vuol dire che già prima si sono consumate tante altre azioni repressive, e sei arrivato al corpo a corpo?
Ecco, noi siamo contro l'uso di determinati strumenti perché siamo contro questo tipo di ordine pubblico e pensiamo che la migliore difesa per le forze dell'ordine stia nella loro azione per difendere i diritti dei cittadini.
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