Tutti gli orrori di Bolzaneto 2001
«La Guantanamo italiana», la «Caserma degli Orrori», la «banalità del male». Così un piccolo comune alla periferia della Genova marinara e montuosa, in bilico tra antiche spiagge della vicina Sampierdarena, e piccole alture dopo Pontedecimo, è assurta a simbolo di qualcosa che i propri abitanti, fino al 2001, ignoravano. Quella caserma era così vicina, ma quasi sconosciuta. A Bolzaneto la vita delle persone è da tempo intenta, per lo più, ad osservare il passaggio tra una zona anticamente di campagna e la proliferazione di uscite autostradali, bretelle ecomostruose, nuovi insediamenti prefabbricati. La caserma, nel luglio 2001, ha reso noto all'Italia intera il piccolo centro abitato della Valpolcevera ligure. L'enormità di quanto accaduto tra le mura della caserma, ha trovato - a sprazzi - spazio nelle cronache giornalistiche con appellativi diversi, macabri e memori di tempi passati o quanto meno, supposti tali. Invece. Invece Bolzaneto ha rivelato alcuni tra gli anfratti più biechi di quanto accadde a Genova nel luglio del 2001. In tempi in cui la sicurezza è al primo posto nei programmi pre elettorali, né Bolzaneto, né la Diaz, appaiono come brevi, seppure intense, grida di attenzione per i politici italiani. E' scivolato via, il processo di Bolzaneto, come se fosse un lato minore degli eventi di quei giorni. Perché, al contrario della Diaz, non ci sono alti papaveri delle forze dell'ordine imputati: sono solo banali uomini normali, in divisa. Medica o delle forze dell'ordine. Al contrario dei processi contro i no global, sui quali con allegria si suona sempre la grancassa, Bolzaneto era meno mediatica: troppa paura, forse, che qualcosa del genere potesse capitare ai propri lettori desiderosi di sicurezza e fiducia nella forze dell'ordine. Il processo trasparente, così straziante e silenzioso, è giunto però all'epilogo. Ieri le richieste dell'accusa hanno portato una prima parziale chiusura del lungo procedimento, in attesa che la macchina della giustizia, scriva la definitiva parola fine.
L'inizio invece, era arrivato da una denuncia pubblica. Dopo avere raccolto le testimonianze dei ragazzi arrestati, che lamentavano vessazioni a Bolzaneto, i giudici hanno ascoltato direttamente il giornalista di Panorama, Giacomo Amadori, già autore a suo tempo nell'agosto 2001, dell'articolo intitolato «C'è una crepa nel muro dei G.O.M.». Quest'ultimo, rinunciando al segreto professionale, fece i nomi delle proprie fonti, grazie alle quali era giunto a conoscenza delle violenze perpetrate ai danni delle ragazze e dei ragazzi che erano transitati a Bolzaneto. L'inchiesta partì e giunse a processo con 46 imputati tra personale di polizia, polizia penitenziaria, carabinieri e personale medico. Emergono poi riconoscimenti e angoscianti racconti. Più di tutto, nelle mattinate d'aula bunker genovese, si ha la sensazione di entrare nelle traiettorie micidiali di quella caserma, stanza per stanza, metro per metro.
Il comitato d'accoglienza
Della caserma di Bolzaneto si conosce la piantina. Al contrario della Diaz si sanno anche i turni di entrata e di uscita di tutto il personale. Doveva essere un luogo di smistamento degli arrestati in piazza. Prima di entrare, gli arrestati venivano fatti scendere dai pullman in un piazzale antistante l'ingresso della caserma. Di fronte a loro persone delle forze dell'ordine, ricevevano, a modo loro, gli ospiti. Prima di addentrarsi nei corridoi tra le celle e l'infermeria, una dose di sgambetti, calci, insulti e minacce si librava all'esterno. Come a fare intendere che in quel luogo, nessuno avrebbe potuto curarsi di quanto sarebbe accaduto. «Con Berlusconi, con quelli come voi, facciamo quanto vogliamo». Una tra le tanti frasi dette da un esponente delle forze dell'ordine e ricordate in aula da una delle vittime.
Ali di corvo
Nel campionario di termini militareschi ascoltati nei processi genovesi - qualcuno ha citato Zun Tzu, altri tecniche di guerriglia, altri minimizzato o celebrato (su tutti Francesco Gratteri quando sostenne che «le perquisizioni non si fanno con i guanti», riferendosi alla Diaz) - le «Ali di corvo» entrano tristemente agli atti del processo di Bolzaneto.
E' la descrizione dei primi passi all'interno della caserma: il corridoio verso le celle, percorso dai ragazzi tra le ali di poliziotti pronti a picchiare, ingiuriare, minacciare. «Ci deridevano dicendoci che ci avrebbero usato come le sagome dei poligoni di tiro».
Nelle celle. Nei corridoi. Cantando
Gambe larghe, in piedi, braccia alte al muro. E' la posizione che tutti i testimoni di Bolzaneto hanno ricordato perfettamente. Costretti per ore, senza potersi muovere e sotto le minacce e le umiliazioni verbali. «Se non urlavamo viva il duce, venivamo picchiati», persone costrette a cantare canzonette oscene, come la tremenda «un due tre viva Pinochet» e ancora la «parata» cui erano costretti i ragazzi per uscire dalle celle: braccio teso e passo di marcia, sotto la minaccia di poliziotti e agenti penitenziari. Nell'aula del tribunale di Genova era piombato il silenzio, quando i testimoni sembravano ripetere quegli stessi, identici racconti. Per i pm le «costrizioni consistenti nell'obbligo imposto con violenza o minaccia alle parti offese di inneggiare con parole o gesti (saluto romano, passo dell'oca) al fascismo o al nazismo», costituiscono violenza privata, nella ricerca dei reati adatti. Perché in Italia, il reato di tortura, non c'è.
Sui cori fascisti, anche una deposizione sui generis. Di un ragazzo, romano, capitato nei disordini genovesi, ma di idee contrarie alla maggioranza della gente giunta a Genova per protestare. Lui si definiva di destra. Un suo compagno di cella racconterà l'episodio: «Allo stadio mi denunciano se canto faccetta nera, qui mi obbligano a cantarla», gli avrebbe infatti detto il romanista di destra.
Trattamenti inumani e degradanti
«Gli agenti, dalla finestra della cella, ci insultavano: "puttane", "troie", "ora vi scopiamo tutte"». A portare in aula per prima, gli insulti a sfondo sessuale è una genovese di 25 anni, arrestata nella tarda serata del venerdì 20 luglio 2001. La sua deposizione porta alla luce tutto il repertorio di insulti e umiliazioni sessiste subito dalle ragazze, e con esso il clima di becero machismo presente nella caserma. C'è chi si ricorda le parole precise, puntate dritte sulle ragazze inermi: «gli agenti dicevano che le avrebbero dovute stuprare come in Bosnia». Le minacce di stupro, subite da molte vittime, sono state ampiamente sottolineate dai pm: «come in ogni caso di tortura - avevano già scritto nella memoria - avvennero grazie all'impunità percepita, ovvero quel meccanismo fatto di omissioni per cui i responsabili non vengono puniti e le vittime terrorizzate hanno paura di denunciare i maltrattamenti subiti».
Il medico di Napoleone a Bolzaneto
«Al medico avevo raccontato che mi avevano rotto il labbro, ma lui disse che erano fatti miei, che me l'ero fatto da solo». Non furono da meno i membri del personale sanitario di Bolzaneto. Il loro capo, Giacomo Toccafondi, aveva ideato per l'occasione, un sistema di visite particolare: dapprima gli arrestati dovevano sottoporsi al triage. Una visita sommaria, un'invenzione dei medici napoleonici, come ha spiegato lo stesso Toccafondi in aula, con l'aria di raccontare l'ultima scampagnata sui piani di Praglia, sulle alte genovesi. «Era il metodo, ha detto, con il quale i medici di Napoleone decidevano chi andava curato e chi lasciato morire». Niente male. Poi c'era la visita più complessiva, quella durante la quale vennero picchiate le ferite, strappati i piercing, fatte spogliare le ragazze: lì si decideva se serviva il ricovero o l'arresto. In pratica, esito scontato.
Il ministro che non vede
Chi avrebbe potuto vedere, ma non ha visto, fu l'allora ministro della Gustizia Roberto Castelli, giunto a Bolzaneto per assicurarsi che tutto funzionasse. Evidentemente soddisfatto, il ministro se ne andò, senza notare nulla di strano.
In seguito Bolzaneto è venuta fuori, in tutta la sua drammatica realtà. Ieri la quantificazione giuridica degli abusi commessi, da parte dell'accusa. Un numero che conterà poco, sempre, se paragonato a quelle ore di botte e insulti, così difficili da ricordare, così impossibili da dimenticare.
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