Genova

La "Macelleria Messicana" che concluse il G8 della follia

8 aprile 2015
Marco Menduni
Fonte: La Stampa

Erano le 9 del 20 luglio 2001 quando i black bloc si presero le strade di Genova. Solo quella mattina si intuì che il summit dei Grandi non sarebbe passato alla storia solo per la riunione degli uomini più potenti della Terra. La certezza arrivò nel pomeriggio, in piazza Alimonda, quando un proiettile stroncò la giovane vita di Carlo Giuliani. Una jeep dei carabinieri rimase bloccata tra i manifestanti più violenti. Giuliani tentò di centrarla con un estintore; un carabiniere, Mario Placanica, sparò e lo uccise. Il proiettile, sentenziò l’indagine, fu deviato da un sasso, tra la gragnuola di oggetti che stanno piombando sul mezzo. Favola finita: da quel momento il G8 di Genova sarebbe stato inesorabilmente associato a quella tragedia.
Il giorno prima c’era stato il grande corteo dei migranti: 50 mila presenze, un serpentone festoso, nessuna violenza. Prima ancora un mese di trattative tra Disobbedienti, istituzioni, polizia. Tutto sembrava calibrato a puntino. Certo, c’erano stati gli allarmi degli 007: improbabili catapulte per violare la “zona rossa”.
All’aeroporto Colombo erano stati sistemati i missili Spada già visti in azione in Kosovo. E poi la città blindata: le forche caudine dei valichi, del controllo dei pass e dei documenti, delle continue perquisizioni, dei posti di blocco. E i bastioni della fortezza: le grate della “zona rossa”. Alle 10 del mattino del 20 luglio il primo segnale che qualcosa non va, nel quartiere della Foce. Arriva un gruppetto con il volto coperto dai passamontagna. Prende d’assalto le vetrate di una banca, distrugge le insegne di un’agenzia immobiliare.
La polizia? I carabinieri? Non ci sono. Non c’è nessuno. In quel momento affiora la percezione che tutto sarebbe scappato di mano. I gruppi dei black bloc si fanno beffe dei reparti schierati, che si muovono lenti, impacciati. Ci sono scontri, incendi. I duri della protesta monopolizzano la giornata di guerriglia urbana. C’è persino una conquista simbolo, quella del carcere di Marassi: in un centinaio sfondano le vetrate della sala colloqui, lanciano molotov contro il portone secondario, scardinano finestre, devastano l’ufficio del direttore.
Un palazzo rischia di andare a fuoco nel quartiere di San Fruttuoso. Un blindato dei carabinieri viene dato alle fiamme, i militari riescono a fuggire. Le forze dell’ordine? Non ci sono e quando entrano in azione, spesso picchiano e manganellano chi non c’entra nulla. C’è una foto che racconta tutto: il volto di un ragazzo di 15 anni che ha ricevuto un calcio in faccia da un poliziotto. È sera, la conta dei feriti si attesta a 180. E non è finita. Dalla mattina dopo si replica. Sarà ancora una giornata di violenza: cariche, manganellate, candelotti lacrimogeni. Poi la città comincia a svuotarsi.
Ma accade qualcosa di imprevisto e imprevedibile. La polizia dà improvvisamente l’attacco alla scuola Diaz, dove si sono radunati i manifestanti che ancora non hanno lasciato la città. Dormono tranquilli, ma la polizia dà l’assalto. Fa irruzione, picchia selvaggiamente. Il pestaggio fa 61 feriti, di cui tre in prognosi riservata e uno in coma. È la «macelleria messicana» che nel processo fu descritta dal vicequestore Michelangelo Fournier.
L’inchiesta annasperà tra tentativi di depistaggio, connivenze, falsi per non far scoprire la vera identità dei picchiatori. Per rendere più verosimile la tesi della pericolosità dei giovani della Diaz, furono mostrate due molotov (in realtà sequestrate altrove) annoverandole nel loro “arsenale”. Il processo si concluderà con 25 condanne. Emergeranno anche le umiliazioni, le sopraffazioni, le violenze inflitte ai giovani fermati sulla strada e portati alla caserma del reparto mobile di Bolzaneto, trasformata in carcere provvisorio.

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