Chi ha paura di Lumumba?
gli ordini dell’allora direttore della Cia, Allen Dulles.
Un cablogramma che viene da Washington può uccidere un uomo. Gerard Soete fece quello che avrebbe fatto ogni soldato: quando gli dissero di assassinare il primo ministro congolese Patrice Emery Lumumba e i suoi collaboratori Joseph Okito e Maurice Mpolo, di macellare i loro corpi a colpi di accetta e di scioglierne i pezzi nell’acido, per non lasciare tracce, lo fece senza discutere. L’ordine portava la firma dell’allora capo della Cia, Allen Dulles ed era stato presumibilmente visionato dal presidente statunitense uscente Dwight Eisenhower e dalla monarchia belga.
«Avevamo fucilato Lumumba nel pomeriggio - racconta Soete alla commissione parlamentare belga incaricata delle indagini a 40 anni di distanza dall’omicidio -. Poi tornai nella notte con un altro soldato, perché le mani dei cadaveri spuntavano ancora dal terriccio. Prendemmo l’acido che si usa per le batterie delle automobili, dissotterrammo i corpi, li facemmo a pezzi con l’accetta; poi li sciogliemmo in un barile, facendo tutto di fretta, perché non ci vedesse nessuno».
La notte atroce del 16 gennaio del 1961 fu presto archiviata dall’opinione pubblica e anche dai suoi assassini. Durante tutta l’intervista, ripresa dal regista Michel Noll, Soete ha continuato a passarsi di mano in mano i due denti d’oro che aveva strappato al cadavere di Lumumba. «Li ho conservati per ricordo - conclude l’ex militare ridendo - perché qualcuno dice che tornerà dalla tomba. Comunque, se tornasse, avrebbe due denti in meno!».
Già alla fine del 1960, la decisione da prendere non era più se uccidere Lumumba, ma quando e dove farlo. A sentire la testimonianza dell’allora ufficiale di collegamento della Central Intelligence Agency (Cia) in Congo, Lawrence Devlin, le avevano pensate tutte. «Inizialmente avevamo deciso di utilizzare del dentifricio avvelenato o addirittura di gettarlo in pasto ai coccodrilli - spiega Devlin -, ma poi optammo per qualcosa di più clamoroso per dare un segnale della nostra determinazione. Correvano i tempi della guerra fredda: Lumumba era un pericolo per il Congo e per il resto del mondo, perché avrebbe permesso ai comunisti di installarsi nella regione, cambiando i rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. E questo non lo voleva nessuno».
La colpa per cui Lumumba è stato condannato a morte dalla diplomazia occidentale, infatti, era quella di essersi rivolto al presidente russo Nikita Kruscev, per sedare la ribellione separatista del Katanga del 1960, e di non aver mai fatto mistero delle proprie simpatie marxiste.
In realtà, Lumumba non sapeva nemmeno cosa fosse il comunismo: per quanto il leader africano autodidatta avesse studiato, dai suoi discorsi traspariva un afflato rivoluzionario legato più ai principi della rivoluzione francese del 1789 che a qualunque ideologia novecentesca. Lumumba infatti era prima di tutto un leader nazionalista, interessato alle sorti del popolo congolese e strenuo sostenitore dell’indipendenza. Non sapremo mai che tipo di politico sarebbe potuto essere, anche se è certo che era un pessimo diplomatico, come risultò subito evidente durante la cerimonia di passaggio dei poteri tra la madrepatria belga e l’ex colonia il 30 giugno del 1960.
LA TRAPPOLA BELGA
Nel giorno della festa dell’indipendenza, Lumumba era nervoso e continuava a prendere appunti durante l’intervento di re Baldovino. I testimoni dell’evento raccontano che strappò i fogli del discorso concordato, nel momento in cui il re belga disse che «l’indipendenza del Congo costituiva la realizzazione dell’opera concepita dal genio di Leopoldo ii. Opera intrapresa con coraggio e tenacia, e continuata con perseveranza dal Belgio».
La reazione del leader africano non si fece attendere. Offeso e indignato per gli elogi all’uomo che aveva fatto massacrare oltre 10 milioni di congolesi durante la fase della colonizzazione prese il microfono e gridò: «Abbiamo conosciuto le ironie, gli insulti e i colpi che dovevamo subire mattino, mezzogiorno e sera, perché eravamo dei negri. Chi dimenticherà che a un negro si dava del “tu” non come a un amico, ma perché il “voi” rispettoso era riservato ai bianchi? Abbiamo visto che la legge non era mai la stessa per un bianco o per un nero. Era accomodante per i primi e inumana per i secondi».
Alla fine del discorso applaudirono solo i neri. Nel giorno dell’indipendenza il gelo diplomatico calò sui rapporti tra la neonata repubblica africana e l’intero Occidente.
La repubblica congolese, che vedeva Joseph Kasavubu presidente e Patrice Lumumba primo ministro, inoltre, stentava a reggersi sulle proprie gambe. La partenza degli amministratori belgi aveva privato il paese dei direttori di dipartimento e della sua spina dorsale. Gli uffici pubblici rimasero completamente paralizzati in assenza di qualcuno che avesse il potere e la competenza per prendere le decisioni.
Il 4 luglio dello stesso anno la Force Publique, la polizia congolese, si ammutinò: i sottoufficiali neri iniziarono a rifiutare gli ordini dei superiori che erano ancora di nazionalità belga. La tensione interna alle forze armate in breve si estese a tutto il paese portandolo sull’orlo del tracollo. Le violenze e gli scontri di piazza coinvolsero anche gli imprenditori occidentali, rimasti nella regione di Léopoldville (ora Kinshasa) e i militari congolesi si resero responsabili di stupri e saccheggi ai danni della popolazione civile. Approfittando di disordini in corso, l’11 luglio 1960 Moise Ciombe, il leader del Conakat, proclamò la secessione della provincia del Katanga, ricchissima di giacimenti minerari.
La nuova amministrazione guidata da Lumumba non era in grado di riportare l’ordine nella capitale e impedire gli ammutinamenti. All’inesperienza di governo si aggiungeva una vera e propria trappola istituzionale creata ad arte dai giuristi belgi, che avevano collaborato a redigere la Costituzione della repubblica indipendente del Congo: la distribuzione dei poteri tra primo ministro e presidente, infatti, in assenza di una struttura amministrativa funzionante, paralizzava completamente il meccanismo decisionale del paese.
I belgi non avevano accettato di buon grado il processo di decolonizzazione e, per costringere l’ex colonia a rimanere legata alla madrepatria, si erano riservati uno spazio di intervento, anche armato, se i presidenti delle province lo avessero richiesto. Questo è uno dei tanti non detti che hanno fatto dell’Africa una regione instabile.
Lumumba questo lo aveva capito: rifiutò decisamente un intervento militare belga per riportare l’ordine, si rivolse al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite perché inviassero i Caschi blu e accusò il governo di Bruxelles di aver fomentato la rivolta secessionista del Katanga.
Secondo il leader della giungla, come lo chiamavano con disprezzo i telegiornali dell’epoca, i belgi avevano appoggiato il governatore separatista katanghese, Moise Ciombe, per destabilizzare il paese e avere una giustificazione per riprenderselo. Secondo i risultati delle indagini della commissione parlamentare belga, i sospetti di Lumumba non erano infondati. Ciombe infatti non disponeva di forze armate. I belgi le costituirono ad hoc servendosi di mercenari e militari belgi, operazione per la quale erano stati stanziati 50 milioni di franchi dell’epoca (circa 7 milioni di euro di oggi), prelevati appositamente dai fondi segreti di Bruxelles.
I disordini raggiunsero una gravità tale che la stessa popolazione bianca iniziò a fuggire in massa con ogni mezzo disponibile. I pochi occidentali che rimasero nel paese furono vittime di brutali aggressioni che comportarono la morte di decine di donne e bambini.
Al Consiglio di Sicurezza, l’ambasciatore belga respinse tutte le accuse rivolgendosi ai rappresentanti congolesi come un precettore redarguirebbe dei bambini. «Signori, se noi avessimo preparato complotti e aggressioni nei vostri confronti - disse con fare scocciato il diplomatico europeo - avremmo tradito le nostre mogli, i nostri figli e le nostre figliolette. Dovremmo essere proprio privi di onore per lasciarli in un inferno del genere».
Anche le Nazioni Unite abbandonarono il giovane governo congolese e Lumumba, ormai alla disperazione, si rivolse all’allora presidente statunitense Dwight Eisenhower, il quale su consiglio del potentissimo direttore della Cia, Allen Dulles, rifiutò perfino di incontrarlo.
NEL MIRINO DELLA CIA
Washington aveva appena inaugurato la cosiddetta politica del new look, la strategia del potenziamento nucleare e del contenimento preventivo del nemico: l’Ungheria era stata invasa dai carri armati sovietici e i dissapori con gli europei sulla questione di Suez avevano messo a rischio l’alleanza anticomunista che stava iniziando ad accomunare l’Occidente. Né Eisenhower né Dulles erano disposti a lasciare nelle mani di un africano, potenzialmente comunista, il paese da cui avevano estratto l’uranio usato per costruire le bombe atomiche che rasero al suolo Hiroshima e Nagasaki e che facevano da deterrente contro i piani dell’Urss.
Al ritorno dal suo viaggio nella capitale statunitense, alla fine di luglio del 1960, Lumumba fece il suo secondo e ultimo errore diplomatico, firmando la sua condanna a morte. Abbandonato da tutti, si rivolse al presidente sovietico Nikita Kruscev perché l’armata rossa intervenisse direttamente nella regione dei Grandi Laghi per riportare l’ordine nel paese.
«Ci mettemmo d’accordo con Devlin - racconta il colonnello dei servizi segreti belgi, Louis Marlière, che diventerà il consigliere strategico del dittatore Mobutu - per piazzare diverse microspie nell’ufficio di Lumumba. Il materiale fu inviato dalla Cia insieme alle istruzioni per eliminare il presidente congolese. Inizialmente Devlin mi aveva parlato di un misterioso agente della Cia, noto come Joe di Parigi, che avrebbe dovuto coordinare le operazioni, ma alla fine intervenimmo personalmente per ucciderlo».
«Ricevetti un cablogramma che preannunciava l’arrivo di un ufficiale superiore con istruzioni particolari - conferma Devlin - e questo mi stupì. Non capivo perché non si limitassero a inviare semplicemente le istruzioni come sempre e si prendessero il disturbo di mandare un uomo. L’ordine arrivava direttamente da Eisenhower».
I messaggi precedenti, infatti, insistevano solo sulla necessità di eliminare Lumumba e non parlavano di ulteriori interventi esterni.
«Abbiamo raggiunto la conclusione - recita il cablogramma inviato a Devlin dal quartier generale della Cia il 26 agosto del 1960 - che se (Lumumba) continuerà a mantenere alti incarichi, il risultato inevitabile sarà il caos o addirittura l’apertura nei confronti del comunismo con conseguenze disastrose per il prestigio delle Nazioni Unite e per gli interessi del mondo libero in generale. Concludiamo, quindi, che la sua rimozione è un obiettivo urgente e primario e che nelle attuali condizioni dovrebbe essere una priorità delle nostre azioni segrete».
Il motivo del ritardo tra la decisione di eliminare Lumumba e la sua effettiva esecuzione è dovuta al fatto che operazioni del genere necessitavano l’approvazione del direttore del dipartimento per le attività illegali della Cia, Richard Bissell, che però nei giorni del caos congolese era in vacanza ed era irraggiungibile.
Dalle testimonianze emerge che Dulles assicurò a Eisenhower che si sarebbe occupato personalmente della questione di concerto con il vice di Bissell, Richard Helms, che individuò nel capo del dipartimento di chimica della Cia, il dottor Sidney Gottlieb (ebreo ungherese nato Joseph Schneider) l’uomo ideale per coordinare le operazioni. Fu Gottlieb (il Joe sopra menzionato) a proporre la pasta dentifricia avvelenata e l’acido delle batterie delle automobili; e fu sempre lui a spiegare a Devlin come contattare i militari belgi perché facessero il lavoro finale.
L’arrivo di alcuni consiglieri militari sovietici nel Katanga sciolse ogni indugio: la Cia infatti era profondamente convinta che si trattasse di un’avanguardia e a Washington avevano iniziato a temere sul serio un’invasione russa della regione dei Grandi Laghi.
RESISTENZA DISPERATA
Nel frattempo, Lumumba cercò senza successo il consenso dell’opinione pubblica internazionale perché facesse pressione sui governi coinvolti, indicendo numerose conferenze stampa con i giornalisti europei. Tuttavia, la stampa belga mise in atto una vera e propria campagna diffamatoria per dipingere il leader africano come un pericolo e per addossargli tutta la colpa dei disordini e delle violenze subite dalla popolazione europea dopo l’indipendenza. «Lumumba è un barbaro mefistofelico, con gli occhi che roteano da dietro gli occhiali - disse un giornalista -. C’è qualcosa di terrificante in quest’uomo: ha la testa di un Lenin africano».
Il 5 settembre 1960, sotto le pressioni di Washington e Bruxelles, il presidente Kasavubu destituì Lumumba dal suo incarico di primo ministro per metterlo agli arresti domiciliari. Tuttavia, Lumumba riuscì a fuggire a Stanleyville (ora Kisangani), città strategicamente importante per il controllo dell’intero paese, perché centro nevralgico delle comunicazioni, e a organizzare diversi incontri di piazza per invitare la popolazione a sollevarsi contro i «politici congolesi venduti all’Occidente».
Il 29 dello stesso mese, il posto di primo ministro fu occupato, con un colpo di stato, dal ministro della Difesa e capo di stato maggiore dell’esercito Joseph Desiré Mobutu, che diede vita a un governo provvisorio, subito riconosciuto dal presidente Kasavubu, felice di mettere il ministro destituito definitivamente fuori gioco.
Il 2 dicembre i soldati di Mobutu rapirono Lumumba che, invece di essere imprigionato a Léopoldville, fu portato a Elisabethville (ora Lubumbashi) e consegnato ai militari belgi che combattevano a fianco di Ciombe, i quali lo torturarono e lo fucilarono. Quello che successe dopo lo sappiamo già.
Lumumba aveva 36 anni e le circostanze della sua morte sono rimaste avvolte nel mistero fino a qualche anno fa: quando ormai i suoi assassini erano morti o troppo anziani per essere processati da un tribunale regolare. «Con la morte di Lumumba - commenta un attivista dei diritti umani - statunitensi e belgi si sono comportati come quelli stessi ufficiali nazisti, contro i quali avevano combattuto qualche anno prima in Europa in nome della libertà».
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