Kimbau

Un cosino di due chili, con il cuoricino che ancora batte, ma sta per spegnersi

Una borsa d'acqua calda al posto dell'incubatrice

Per gentile concessione dell'editore Mondatori pubblichiamo il capitolo «Una madonna nera» tratto dal libro di Chiara Castellani «Una lampadina per Kimbau»
10 maggio 2005
Chiara Castellani
Fonte: “Il nostro tempo”, 6 giugno 2004. Pubblicato su http://www.ism-regalita.it/Testi/libro_Castellani.rtf

Mi hanno portato in ospedale, da un villaggio lontano, un bimbo in arresto respiratorio. Un cosino di due chili, con il cuoricino che ancora batte, ma sta per spegnersi. Ho imparato dai tempi di Waslala che si deve lottare fino all'ultimo. Mai arrendersi. Inizio il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. Di colpo sento ancora “quella” forza dentro di me. Coinvolgo in questa battaglia che, sembra senza speranza, l'infermiere Kabuita: «Aminofillina, bicarbonato, atropina». «Adrenalina non ce n'è più», sussurra Kabuita. «Non importa, facciamo senza, andiamo avanti, dobbiamo crederci ancora, dammi la glugosata ipertonica e il dexametasone». Piano, piano il cuore del bimbo sembra farcela da solo. Lo lascio un momento, ma perde nuovamente i battiti. Di nuovo quel cuoricino sotto le mie dita, fra due dita, centoventi battiti perché è così piccolo. Ecco adesso respira da solo, grazie all'aminofillina e a Dio. Ce l'ha fatta. L'ho metto sulla borsa dell'acqua calda perché il corpicino è gelato e non abbiamo incubatrici. Continuiamo a lottare insieme, io, Kabuita, Swana, Kololo; Amissi. La sera il bambino piange e io rido di gioia. Non pensavo che si potesse ridere quando un bambino piange. «La doctoresse vien de résusciter un enfant», corre voce nella Missione. Ma non è vero. Noi uomini non siamo capaci di risuscitare. Possiamo solo essere uno strumento e non cedere mai. Anche se spesso non ce l'abbiamo fatta.
Era una donna giovane, bella come una Madonna nera. È arrivata in ospedale in preda agli spasmi del tetano. Non avevamo siero antitetano, il diazepam era all'ultima scatola e ce ne vuole una fiala ogni ora. Accanto a lei il bambino di tre mesi piangeva di fame e di sete. Mentre lottavo per salvarla ho lasciato che glielo attaccassero al seno: il latte sgorgava ancora. Mi sono chiesta se la tossina tetanica passa nel latte materno. I libri non ne parlano e io non mi ero mai posta il problema. Ma se il piccino in quella situazione rimaneva senza latte materno aveva pochissime probabilità di farcela. La mia Madonna nera è morta la mattina dopo, in silenzio. Il tetano iperacuto non perdona. Era bella anche nella rigidità tetanica che le tirava le labbra nel tremendo Risus sardonicus. Il bambino è ripartito per il villaggio con la nonna. Non l'ho rivisto e temo di non rivederlo mai più.
C'è un'epidemia di meningite, qui a Kimbau. Ogni volta che con la puntura lombare a un bimbo aspiro un liquido torbido, so che ha scarse probabilità di sopravvivere. Ma ci provo ancora. Mi hanno portato un bimbo in coma da due giorni. Arriva anche lui da lontano. La puntura lombare aspira un liquido giallo per il pus presente. Sul corpicino i segni dello shock settico. Ho terminato il dexametasone, lo so, ho finito i soldi per comprarlo. È una settimana che non ho più soldi. Il bimbo respira a tratti. Lo stimolo perché riprenda. «Aminofillina, ancora, ancora, Kabuita. E tu, Kololo, cerca se è rimasta un'ampolla dimenticata di dexametasone alla maternité». Non ce n'è più. Il piccino ha ripreso a respirare. Corro a cercare se ne ho messo un'ampolla nel cassetto. Quasi cado, inciampo negli zoccoli. L'ampolla l'avevo già usata, comunque ormai è tardi, troppo tardi. Piango.
Ho finito tutte le fleboclisi. Non ho quasi più cloramfenicolo. So che non potrei fare molto se arrivano altri casi. Devo assolutamente andare a Kinshasa, so che l'Aifo mi ha mandato quattro milioni di lire, sono sul conto in banca. Sarà difficile tirarli fuori. Le banche non hanno più liquidità, rilasciano soltanto biglietti da 50 mila e 100 mila zaire. Per fare i due miliardi che ci vogliono per comperare tutti i medicinali che urgono dovrei portare un camion. Due miliardi equivalgono a due dollari, cioè niente. I soldi del Congo-Zaire sono lontani, nel nord straricco del mondo,in Svizzera, su tanti conti “segreti” dei tanti ladri che infestano questo povero Paese di affamati troppo deboli per protestare.
Partiamo lo stesso con l'ambulanza che porta la scritta «Hospital de Kimbau». In rosso e bella grande, perché i gendarmi la vedano bene e non ci facciano perdere troppo tempo. Ho con me alcuni malati gravi fra cui un ragazzo con paralisi progressiva ascendente che mi fa tremare di angoscia, potrebbe morire da un momento all'altro. C'è anche un musico scalzo che mi viene sempre in casa a cantare «Chiara ikele munganga a na Kimbao» (Chiara, sii la benvenuta qui a Kimbau) con una specie di chitarra di legno grezzo su cui lui stesso ha tirato delle corde di viscere di capra […].
Otto ore per i primi cento chilometri di viaggio, 40 milioni di carburante e due ruote bucate, venti milioni per ripararle, un'ora per fare uscire dal fango la LandRover che si è impantanata. Ma il ragazzo paralizzato e il musico cantano senza sosta i canti del «Rito Zairese» e «Tata Nzambi». Anch'io canto per dare coraggio a loro e a me stessa. Dopo aver dormito a Kenge, ripartiamo all'alba. Arriviamo oltre il fiume Kwango, dove finalmente la strada diviene percorribile. È allora che li vediamo. Ci fermano e io tremo: «Se è un ambulanza devono esserci soltanto ammalati» dicono. «No, ci siamo anche noi, muganga (il musico) e lo studente. Ecco il nostro ordre de mission, dobbiamo comperare dei medicinali perché li abbiamo finiti».
Fanno scendere tutti. Il ragazzo paralizzato riesce a far capire che lui non può. Io gli rimango accanto, tanto i soldi li ho finiti da una settimana e non posso estorcerli. I gendarmi, sempre con il mitra in mano, chiedono di vedere le fiches (le carte di trasferimento dei malati). Vorrei opportmi perché non ne hanno diritto, ma di fronte alla loro ottusa prepotenza penso che è meglio lasciar perdere, tanto non c'è niente da nascondere. Non so se lo studente ha nascosto nella sua borsa sei mesi di stipendio per poter sopravvivere a Kinshasa finché non ha trovato un lavoro e non vuole darla ai gendarmi perché la perquisiscano, lo malmenano, gli strappano la borsa, gli lacerano la camicia e lo accusano di essere un criminale. «Suora, come si permette di trasportare un criminale nella sua ambulanza?», mi apostrofano pensando che io sia una religiosa per la crocetta che porto sempre al collo, una difesa indispensabile. «Non è un criminale, è uno studente», ribatto ripetutamente. Non vogliono sentire ragioni, siamo fermi da un'ora […].

Note: Per altre informazioni http://www.kimbau.org

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