Kimbau

Guerra, terrorismo, immigrazione, i temi chiave dell'attualità in questa conversazione

Intervista a Chiara Castellani

"Sto scoprendo che questa terra è diventata la mia terra. Ho saputo dell'11 settembre con due giorni di ritardo, perché quel giorno ero in panne in mezzo alla savana".
12 maggio 2005
Gerolamo Fazzini
Fonte: Avvenire, 13 novembre 2004

«Farsi campesino in Nicaragua o africano della brousse non è un processo immediato. Occorre prima aver condiviso un cammino di progressivo avvicinamento e di crescita assieme alla gente. Altrimenti vivere la stessa vita (con un'illusione di povertà) e imitarne i costumi pensando di essere "come loro" diventa un'ipocrisia. Un esempio banale: sono in Congo dal 1991, ma ho messo il pagne [il tessuto che fa da gonna , ndr] per vezzo soltanto nel 1995, mentre è dal 1999 che vesto solo in pagne e sono diventata "maman Chiara"». Comincia così, com'è nello stile diretto dell'interlocutrice, l'intervista con Chiara Castellani, missionaria sui generis nell'Africa dei dimenticati.


- Lei non ha più una famiglia sua, eppure non si sente sola. Come mai?

«Ho dei bambini e delle ragazzine in casa, con cui condivido tutto. Ma ciò non è bastato, a lungo, a compensare la solitudine di cui soffre chi ha lasciato una vera famiglia. Se sono approdata a un'autentica compensazione affettiva, è stato recentemente, dopo aver riletto il brano evangelico in cui Cristo promette il centuplo quaggiù a quanti lo seguiranno. In effetti, sto scoprendo che questa terra è diventata la mia terra, e se non posso dire di avere una vera casa (perché spesso dormo dove mi accolgono) ho trovato una piena realizzazione affettiva nel rapporto con gli amici congolesi con cui condivido gli stessi ideali e, fra di loro, il vescovo, che considero quasi come un padre. Della mia "famiglia allargata" fanno parte tutti quelli che in questi anni hanno condiviso le mie battaglie e i miei ideali. Ho scoperto di avere, dopo molti anni di solitudine, un'appartenenza. Perché in fondo quello che Cristo promette a Pietro è di ritrovare un'appartenenza dovunque ci porta lo Spirito».


- Che cosa accomuna di più gli esseri umani tra loro, al di là delle diversità di lingua e cultura?

«Vivere insieme i momenti di gioia e i momenti di sofferenza. Perché quale sia la lingua, la razza, la cultura, il livello socioeconomico, si ride e si piange tutti nello stesso modo. Comincerò dalla gioia: sono diventata "maman Chiara" a pieno titolo da quando è nato il piccolo Michel. La nascita è il momento di gioia più intenso per chi vi assiste. Ma è con grande serenità che affermo che ancor più ci lega la sofferenza: perché nella mia vita missionaria Dio mi ha messo ripetutamente alla prova, a cominciare da quando, all'inizio del mio cammino in Nicaragua, mio marito ha deciso bruscamente e unilateralmente di porre fine a un legame intenso e profondo che aveva riempito di serenità e pienezza affettiva la mia adolescenza e gli anni bellissimi dell'Università. Eppure sono riuscita ha dare un senso a quella mia profonda sofferenza grazie a un vissuto di condivisione con altre donne rimaste, come me, bruscamente sole. Questa esperienza mi ha aiutato a capire fino in fondo la loro sofferenza. "Ci sono cose che possono vedere solo gli occhi che hanno pianto", scriveva monsignor Christophe Munzihirva, il "Romero d'Africa": aveva ragione».


- In Occidente, la presenza di extracomunitari suscita una diffidenza che a volte diventa preludio all'esclusione, oppure una tolleranza che accetta l'altro senza conoscerlo. Come se ne esce?

«Rileggendo ciò che scrive Pascal: l'uomo non è né angelo né bestia, ma entrambe le cose. Ovunque. Tutti coloro che vivono in carne ed ossa su questa terra, possono essere indispensabili o nocivi alla causa del bene comune. E allora è giusto considerare tutti come delle persone, e dato che ogni essere umano è importante agli occhi di Dio, dobbiamo riuscire a restituire il loro valore a tutti gli esseri umani e perciò considerare europei, africani e tutti coloro che vivono sulla terra mai come bestie, e sempre come immagine di Dio. Quasi degli angeli quindi. Ma per evitare il rischio di idealizzare, "angeli con un'ala soltanto, che per volare devono farlo abbracciati", come scriveva don Tonino Bello. E che se invece si intestardiscono a volare da soli finiranno per ricadere sulla terra, aggiungo io».


- In «Una lampadina per Kimbau» ha condannato tanto il terrorismo quanto la guerra che vorrebbe estirparlo. In qualità di sua ex-lettrice, ha scritto una dura lettera alla Fallaci. Com'è il «conflitto di civiltà» visto da Kimbau?

«Ho saputo dell'11 settembre con due giorni di ritardo, perché quel giorno ero in panne in mezzo alla brousse (1). Un mese dopo a Kinshasa vidi le immagini terrificanti dei due aerei che infilzavano le Torri gemelle. Ma subito dopo sul video apparvero le immagini della guerra all'Afghanistan, e udii un solo commento: Americaines, bantu ya mbi ("Gli americani, gente cattiva"!). Gli studenti di Kinshasa in rivolta contro la guerra inneggiavano a Osama Binladen come se fosse il simbolo di una liberazione dalla nostra povertà e dalla guerra ingiusta subita per anni, i cui moventi sono stati economici. Il vero scontro di civiltà è quest'ingiustizia distributiva che il neo-liberismo ha imposto all'umanità, senza comprendere che più i poveri saranno numerosi e affamati, più la loro rivolta sarà cieca, violenta, inarrestabile. Se l'Africa ce la farà a uscire dall'abisso nel quale sta sprofondando - scrive nel suo libro - lo dovrà alle sue donne, le sole testimoni del mistero della vita, annunciatrici della vittoria della vita sulla morte».

- Perché questa fiducia nella donna come "motore" del riscatto dell'Africa?

«Perché andando controcorrente, in una zona in cui la poligamia riduce le donne a braccianti agricole gratuite alla mercè del loro marito-padrone, sto gestendo un ospedale diretto essenzialmente da donne. Nei posti-chiave ho voluto donne, criticatissima per questo, ma non me ne pento».


- In che modo la fede cristiana l'ha aiutata a leggere nel volto dell'altro quello di un fratello anche quando questo appariva impossibile secondo una logica "normale"?

«Cristo dalla Croce ci ha insegnato: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno". Era in agonia, in preda a una sofferenza fisica terribile provocata dall'estrema crudeltà del supplizio. Nella sua condizione poteva dirlo sottovoce. Invece lo ha gridato perché tutti lo ascoltassero, perché anche noi capissimo il senso più profondo del perdono. Ho imparato dalla vita che se voglio riuscire veramente a perdonare a me stessa e agli altri, devo imparare a ricominciare ogni giorno come se fosse il primo. Il Vangelo dice: "Chi mette mano all'aratro e poi si volge indietro non è degno del regno dei cieli". Se guardiamo al futuro, e non al passato, il perdono riesce più semplice e diventa la chiave della speranza».

Note: (1) savana

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