Testimonianza di Chiara Castellani, medico nella savana
"Non cambierei la mia vita per tutto l'oro del mondo". È una donna felice, Chiara Castellani, e non ne fa mistero. Lo dice sottovoce, quasi abbassando lo sguardo, due occhi penetranti e dolci su un volto scavato, qualche capello bianco a farla più vecchia dei suoi 47 anni.
Ma non c'è traccia di spocchia in lei.
E sono parole che ti arrivano dritte al cuore, se solo pensi che a pronunciarle è una missionaria laica nell'Africa dei dimenticati.
Medico, unico medico per 100 mila abitanti in una zona di 5 mila chilometri quadrati, da una decina d'anni Chiara è a capo di uno sperduto ospedaletto nella savana del Congo, dove mancano acqua e luce elettrica. Un medico speciale, che fa i cesarei con la mano sinistra, aiutata da infermieri locali. Perché al posto del braccio destro ha una protesi, da quando - era il 6 dicembre 1992 - la jeep su cui viaggiava si è capovolta e il braccio è finito stritolato dal peso del veicolo: inevitabile l'amputazione. Da medico a paziente ("dall'altra parte del bisturi", come dice lei) in un batter di ciglio.
Ma Chiara resta una donna felice. La disperazione non sa dove stia di casa. "Nzambi, il mio Dio in kikongo, ha pensato bene di salvarmi perché continuassi a sognare insieme con lui e con chi ha una sola speranza, quella di essere amato dal Padre degli ultimi e degli oppressi".
Non tace la sua fede, Chiara. Ma non è una che ami sbandierare la sua ostinata fiducia in Dio ("Non è un abbandonarmi passivo il mio - dice - ma un affidarmi"). Indossa un tau francescano di legno, e tuttavia ripete: "La croce non è di chi la porta al collo, ma di quelli che ci crepano sopra".
Testimonianza come la sua - fatte più di gesti umili e di silenzi che di proclami roboanti o solenni documenti - fanno piazza pulita in un solo colpo di tante disquisizioni bizantine su evangelizzazione e promozione umana e via sdottorando.
È una donna felice, Chiara Castellani. Eppure agli occhi del mondo è una fallita e la sua vita una sequenza di sconfitte che ne fanno un'inguaribile "perdente". Ha studiato ginecologia ("mi piaceva l'idea di far nascere bambini") e si è dovuta riconvertire, suo malgrado, in chirurgo di guerra chiamato ad amputare, estrarre pallottole, ricomporre cadaveri.
Carica di ideali e di entusiasmo come può esserlo una neolaureata al Gemelli che, fin da quando aveva sette anni, sognava andare in Africa per far qualcosa di buono per e con i poveri, Chiara parte invece per l'America Latina negli anni Ottanta insieme col marito: un compagno di vita e di sogni che alcuni anni dopo la abbandonerà per un'altra donna. Un colpo durissimo per Chiara, che passa mesi di angoscia e incertezza. Un colpo che metterebbe "ko" chiunque: per Chiara si traduce nella possibilità concreta (per quanto non cercata) di condividere nel vivo della carne la condizione di solitudine e dolore delle mujeres solteras (le mogli sole, lasciate dal coniuge) che trova sulla sua strada in Nicaragua.
Non è finita. Sognava di aiutare gli altri e si ritrova "passero con un'ala sola", a mezzo servizio. Eppure, citando don Tonino Bello, Chiara ricorda che "Dio ha creato gli angeli con un'ala soltanto perché volassero abbracciati. Così è capitato a me: da quando sono mutilata ho trovato intorno a me una serie di persone che mi hanno aiutata e sono diventati i miei angeli". Nell'ospedale di Kimbau - pur "sgarruppato" com'è - lavorano sei persone handicappate, di cui due mentali e un ex ubriacone prescrive le ricette.
A ogni tornante del suo singolarissimo itinerario, la vita l'ha segnata nel fisico e in volto. È una "fedeltà a caro prezzo" quella che Dio lungo gli anni le ha chiesto: Chiara ha visto via via i suoi compagni di strada finire sotto i colpi dei contras in Centramerica oppure uccisi dai mercenari congolesi, come il dottor Richard. Al suo arresto Chiara prova a opporsi "con l'unica arma da sempre disponibile a noi donne: le lacrime" (poi gli farà avere una Bibbia nel luogo della sua reclusione). È davvero arduo - qualcosa di molto simile a un martirio grigio, del quotidiano - restare fedeli a un Dio così. Tant'è che nel marzo 1985 Chiara dal Nicaragua scrive: "Io non credo in Dio. Spero solo che esista, che non mi abbia preso in giro anche lui!".
Eppure tutto questo non ha spento il suo sorriso. Scommettendo su Nzambi e un manipolo di fedelissimi amici e compagni di battaglia, Chiara ricomincia puntualmente la sua esistenza, esattamente laddove sembrava essersi tramutata in tomba dei sogni.
Perché se c'è una cosa cui Chiara non sa rinunciare è la sete di futuro, la voglia di costruirne uno migliore in nome del Vangelo.
"Potete toglierci tutto, privarci di qualsiasi diritto - dice, e sembra che lo dica a nome di un popolo, con la sua voce che alterna sussurri e frasi sferzanti - ma non potete toglierci il diritto di sognare. E in Africa ho visto con i miei occhi che i sogni, anche quelli più arditi, si realizzano".
Nel suo piccolo, un sogno - a lungo accarezzato da lei e da coloro, tantissimi, che possono contare su quell'ospedaletto abbandonato dai belgi nel profondo della foresta - Chiara lo sta realizzando: accendere una lampadina a Kimbau. Per questo nei mesi scorsi ha affrontato un tour de force per l'Italia, sottoponendosi a un fuoco di fila di interviste e incontri, lei che pure, per storia e formazione, preferisce parlare con i fatti.
Che si trovi tra le mura amiche dell'Associazione italiana "Amici di Raoul Follereau" (Aifo, che l'appoggia nel suo lavoro a Kimbau) o sotto i riflettori di Canale 5, Chiara non si sottrae al suo imperativo di dar voce ai poveri, a costo di lanciare accuse roventi: punta il dito contro "il diritto alla salute negato in Africa dalle logiche commerciali", chiama sepolcri imbiancati "quei politici che ricevono l'Eucaristia e con le stesse mani hanno dato il loro voto alla guerra", denuncia le pesanti complicità dei media nel silenzio sui mille orrori compiuti in Africa.
Quel che colpisce è lo stile con cui Chiara si muove: quando l'ascolti attaccare la Banca mondiale percepisci di avere davanti non un'attivista generica, ma una persona che ha giocato la sua vita. E non se ne pente. Perciò, se pure è radicale nelle sue posizioni, appare lontana anni luce dagli "arrabbiati col sistema". Di lei l'insospettabile Foglio di Ferrara ha scritto: "è una donna di fede che non si è mai rassegnata a una fede qualsiasi".
Ostinata nella sua dolcezza, Chiara sta per vedere la realizzazione di uno dei suoi sogni: a inizio 2005 (o a fine anno, per i più ottimisti) acqua ed energia elettrica non saranno più un miraggio a Kimbau.
Per un sogno che si va concretizzando, un altro va prendendo forma nella sua diocesi, Kenge: istituire un percorso di formazione ai diritti umani per educare le giovani generazioni del Congo al protagonismo e alla responsabilità. Un sogno che Chiara condivide fortemente con il vescovo mons. Gaspard Mudiso, nelle cui mani il 25 agosto 2002 si è consegnata dicendo: "Prometto di vivere nella povertà e nell'obbedienza, per poter servire il popolo di Dio. Tu, Dio mio, aiutami. Io ho riposto la mia speranza nella tua grazia, aiutami a identificare la mia vita con la vita di Gesù Cristo".
Un voto di obbedienza che le dev'essere costato. Chiara è agli antipodi della cattolica mansueta, quel tipo umano cui, non di rado, la gerarchia fa ricorso come a manovalanza docile, ma senza personalità. Chiara è di un'altra pasta: cresciuta bazzicando don Franzoni negli anni Settanta, di sé ama dire: "Sono sempre stata una disobbediente alla don Milani". Quando si è trattato di scommettere la vita, l'ha fatto per il Vangelo e i poveri. Senza misure.
Vent'anni prima aveva giurato eterna fedeltà a un uomo che poi l'ha tradita (e verso il quale, ancor oggi, conserva parole di insospettabile tenerezza). Ora ha scelto di consegnarsi alla comunità di Kenge e al suo vescovo. Perché? "Per il desiderio di appartenere in modo più completo ai poveri. Voglio obbedire al mio vescovo per poter disobbedire ai potenti".
Chiara Castellani
Nata a Parma nel 1956, Chiara Castellani si laurea in medicina al Gemelli di Roma con specializzazione in ginecologia. A 26 anni, parte come medico volontario per il Nicaragua, dove ben presto scoppia il conflitto civile tra sandinisti e contras. Si ritrova così, suo malgrado, a fare il chirurgo di guerra, a curare feriti e mutilati, rifuggendo ogni tentazione di fuga.
Nel 1991, l'Associazione italiana "Amici di Raoul Follereau" (Aifo) la invia in Congo, dove le affida un piccolo ospedale abbandonato dai belgi nella regione del Bandundu. Sono anni faticosi, ma anche entusiasmanti, di scoperta dell'Africa e della sua gente e di lotta contro la povertà, le malattie, gli abusi del potere. Fino al 1996, quando si scontra nuovamente con la guerra. Prima la ribellione di Kabila, contro il maresciallo Mobutu, poi i movimenti ribelli e le schiere di mercenari contro Kabila, ma soprattutto contro la popolazione civile, vittima delle peggiori violenze e vendette.
Nonostante la perdita del braccio destro, in un incidente stradale nel '92, Chiara Castellani continua la sua strenua e infaticabile lotta per il suo ospedale e la sua gente.
È possibile avvicinarsi a questa donna straordinaria attraverso le pagine del suo libro, "Una lampadina per Kimbau", curato da Mariapia Bonanate per Mondadori. Una raccolta di lettere che spaziano nell'arco di vent'anni di missione. Dedicata ai suoi "angeli custodi" che hanno percorso con minor fortuna il suo stesso cammino.
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