Fare formazione permanente in un contesto sanitario di emergenza: contraddizioni e sfide
Nell'offrire il mio contributo voglio innanzitutto presentarmi: appena laureata ho cominciato (non per scelta, ma per disegno di Dio nel mio scegliere di lavorare per gli ultimi) a lavorare in contesti di emergenza. Ciononostante e pur nutrendo la massima stima e un grandissimo rispetto per il modo di operare di ONG come Medici senza Frontiere o Emergency, ho sempre rifiutato di lavorare in progetti "di emergenza": a molti sembrerebbe una contraddizione, eppure per me è solo così che mi sento di tirare avanti dove tutti i Diritti sono calpestati, salvo il Diritto di Sognare.
Per questo ho optato per un inserimento profondo nelle realtà in cui opero, e ciò mi ha portato a condividere la precarietà e l'insicurezza con tutte le conseguenze psicologiche che ciò comporta. Si lavora ogni giorno senza sapere cosa ti prepara il futuro, eppure si implora una stabilità su cui si sogna di costruire il PROPRIO futuro.
In questo contesto molti stentano a investire: ecco perché in Paesi come la Repubblica Democratica del Congo si fanno solo "programmi di Emergenza" e non programmi di Sviluppo. Eppure la "Lampadina per Kimbau" è anche la storia di un progetto-sogno che oggi si sta realizzando contro tutte le logiche dell'umana ragionevolezza. Perché se Dio continua ad aiutarci alla fine dell'anno accenderemo davvero una Lampadina nell'Ospedale di Kimbau. E apriremo il rubinetto per veder uscire l'acqua. Eppure chi mi aveva sentito sognare, in piena guerra, l'acqua pulita che sgorga dal rubinetto, mi aveva presa per matta: non era meglio ampliare la superficie di raccolta delle cisterne? Ma le cisterne, in quattro mesi di stagione secca, contengono solo acqua sporca. E noi sognavamo acqua pulita.
Fino a un po' più di due anni fa (ossia fino al marzo 2003 data di arrivo di PaoloMoro) tutto ciò non era che uno splendido SOGNO, a cui però ci siamo ancorati con caparbietà fino a riuscire a realizzarlo.
Il contesto formativo non è molto diverso: si è tentati, in situazioni di emergenza e di bassa scolarità di base, di promuovere programmi di formazione di agenti sanitari di villaggi e di levatrici empiriche. Questo per rispondere in modo immediato ai bisogni sanitari della gente. Ma è una risposta per una "medicina di guerra" che comunque implica l'accettazione di un principio: i poveri non hanno diritto a una medicina di alto livello di competenza. Il Diritto alla Salute in Africa non è incondizionato come in Europa. L'importante è salvare vite umane, anche se avrai un'elevata mortalità "residua". E' il concetto dell'emergenza S.O.S., si salvi chi può e gli altri crepano.
E' a questo concetto che mi oppongo: pur promuovendo progetti di formazione che danno risposta immediata ai bisogni sanitari della gente, cerco di garantire ai miei infermieri una formazione a più livelli di competenza, che mantenendo aperto a tutti l'accesso all'Educazione Medica (anche all'infermiere sulla sedia a rotelle, anche all'ex drogato-alcoolista) permette a chi ne ha le capacità intellettuali di raggiungere, gradualmente, i massimi livelli di competenza, l'eccellenza.
Mi spiego meglio: quando ho cominciato, tredici anni fa, a lavorare a Kimbau, i miei infermieri erano o empirici, o del livello più basso di competenza: A3 (2 anni di corso dopo 2 anni di secondaria). Non avevo né A2 (=infermiere professionale, con un corso di 4 anni dopo il 4° anno di secondaria) né
A1 (Infermiere Dirigente: 3 anni di corso dopo l'esame di Stato o dopo il diploma di A2). Tredici anni dopo posso contare su 10 A2 e 6 A1, e ben presto non avrò più nemmeno un A3 né alcun empirico. Eppure nessuno è morto o è stato licenziato, e il salto di qualità è avvenuto senza assumere nuovi quadri: sono gli stessi infermieri con cui lavoravo nel 1991 che si sono iscritti nelle tre scuole infermieri volute, create e gestite dalla Diocesi nell'ultimo decennio (2 ITM per formare A2 di cui uno a Kenge e uno a Kimbau; un ISTM per formare A1 a Kenge) e sono divenuti, da semplici empirici, dei quadri. Grazie a borse di studio finanziate da "genitori adottivi" Italiani, prima fra tutte, la prof.ssa Rita Levi Montalcini che qui tutti chiamano "Mia Mamma Rita"
E questo salto di qualità è stato ottenuto continuando a far funzionare l'Ospedale: con sacrificio e notti insonni, siamo riusciti a professionalizzare chi lavora nel nostro ospedale di savana. E per gli anni a venire, ci proponiamo di farlo per gli infermieri dei Centri e Posti di Salute Periferici. Senza smetterlo di farlo per il personale dell'ospedale.
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