Testimone di parte contro la guerra, tutte le guerre
Quando avevo 7 anni è venuto un missionario nella mia scuola, al lido di Venezia. Era un fratello francescano. Non era medico né infermiere ma sull'esempio di S.Francesco accudiva i malati di lebbra in Africa. Entrava nelle loro case, divideva con loro i pasti che lui stesso portava. Ci parlò del suo iniziale ribrezzo, superato solo per amore, fino alla capacità di vivere assieme a loro facendoli nuovamente sentire uomini come tutti gli altri.
Ci impressionò, anche se le sue storie ci parvero inizialmente lontane. Finché, a un certo punto, la PROVOCAZIONE: «Perché voi, bambini, non avete mai letto il Vangelo?». Come dire una frase del genere in un Veneto degli anni '60, bianco fino al 90% dei voti? Noi si protestò, perché non ci sognavamo certo di marinare la messa domenicale, a meno di un anno dalla prima comunione...
Quel missionario, giovane ma con la barba brizzolata, continuò sorridendo la provocazione: «Se aveste veramente letto il Vangelo, verreste tutti in Africa con me».
Le proteste dei miei compagni si alzarono forti rimbombando contro i soffitti troppo alti dell'"Aristide Gabelli". Io rimasi ammutolita. Papà tutte le sere veniva nella nostra stanza, dove noi tre bambine dormivamo tutte assieme (solo la più piccola aveva il diritto di dormire da Mamma e Papà) e ci leggeva un brano del Vangelo. Veramente i primi tempi si trattava di quei testi adattati «il Vangelo spiegato ai ragazzi», ma i bambini non si imbrogliano: durante la messa Gesù diceva alla figlia di Giairo «tabita Ko» e sul libro con le figure colorate quella frase non c'era. Liliana amava la storia della figlia di Giairo, voleva che Papà ce la leggesse spesso. Io che già giocavo al dottore con lo stetoscopio di plastica, ero invece attirata dalla storia della donna che perdeva sangue da anni. Da dove sanguinava? il libro con le figure, discreto, non lo diceva, ma neanche il Vangelo mi chiarì la domanda. Ma le storie sul libro colorato mi sembravano favole, mentre il Vangelo, ne ero certa, non lo era. «Tabita Ko», e mi venne in mente quella frase del fratello francescano. «Papà sai, quando sarò grande, voglio fare medicina e andare in Africa a curare gli ammalati di lebbra ».
C'era nello scaffale quel libro, Wopsy, il nome dell'angelo custode di un bimbo nero, che avevo letto 4 volte. E poi il piccolo Missionario, che arrivava tutti i mesi, con la storia di una ragazzina africana venduta schiava quattro volte e ogni volta la trattavano peggio. Capivo che era una storia vera, non come quelle di Anna sul corrierino. Quella storia certo mi spinse ancor di più ad amare quest'Africa sofferente, torturata, oppressa eppure mai arresasi, come suor Bakhita. Perché dovevo poi, già da adulta, identificare in Suor Bakhita la piccola schiava nera che dopo mille peripezie sbarcava nel nostro Veneto. Erano storie vere, ne ero certa. E già allora sognavo di scrivere la storia della mia vita inventandomela il più spericolata e avventurosa possibile. Mi piaceva sognare ad occhi aperti, alle volte Mamma mi sgridava che ero sempre «trasognata» e dovevano chiamarmi alla realtà (la minestra da finir di mangiare, i compiti di scuola restati a metà).
Mi raccontavo bellissime storie di Chiara medico in Africa. Ma arrivata a 18 anni, nonostante i voti buoni in greco che fecero dubitare la mia insegnante sulla strada che stavo scegliendo... «Farò medicina per curare i malati più poveri, in Africa »
Fu l'amicizia con Gabriele, che abitava qualche piano sopra il nostro, che mi persuase ad avvicinarmi invece al MLAL e all'America Latina. Già al quarto anno di medicina frequentavo la sede di Piazza Paoli e mi imbevevo di Cile, di Brasile, di Nicaragua, di Teologia della Liberazione. Erano anni caldi, in America Latina, gli anni delle dittature sanguinarie e dei «desaparecidos»: i protagonisti si chiamavano Videla in Argentina, Pinochet in Chile, Baby Doc ad Haiti, Somoza in Nicaragua... No, Somoza non più, perchè nel 1979 fu finalmente rovesciato dopo 50 anni di dittatura della sua «dinastia» dalla prima Rivoluzione più cristiana che socialista. Certo fra i Sandinisti c'erano dei «duri» di ferrea ispirazione sovietica. Ma nel governo (purtroppo senza il benestare del Vaticano, che mal digeriva la «teologia della liberazione») c'erano ben 3 sacerdoti: Fernando ed Ernesto Cardenal, ministri rispettivamente dell'educazione e della cultura, protagonisti delle campagne di alfabetizzazione e dell'applicazione del metodo Freire, e Padre Miguel d'Escoto, della congregazione cattolica statunitense «Mary Knoll», padronanza di 7 lingue, il miglior ministro degli esteri possibile per far fronte alla paranoia reaganiana che portò all'aggressione e in seguito alla caduta del governo della giovane Rivoluzione del Nicaragua.
Il tribunale internazionale dell'Aia condannò la «guerra segreta» di Ronald Reagan contro i Sandinisti, ma per chi l'aggressione la visse in prima linea curando i feriti di guerra, come mi toccò purtroppo di fare a causa della mia decisione di schierarmi a fianco degli ultimi, si trattò di lettera morta. E in prima linea più di altri compresi che il mio sogno di adolescente era crudele e non romantico. Erano gli anni in cui anche la mia fede in Dio vacillò, perché stentavo a credere nell'uomo.
Fu Pierre per primo a farmi capire che anche per chi come me viveva e vive di sogni, la vita non è un gioco ed occorre saper sognare con i piedi saldamente ancorati per terra.
Me lo avevano presentato come «il medico francese che ha paura». «Lui non è qui per la Rivoluzione» mi aveva spiegato Zeno «è anzi critico di fronte agli eccessi e ai fanatismi che rischiano di dare adito, secondo lui, a veri abusi di potere. Lui è qui per una ricerca sulla Leishmanina, un reattivo per intradermoreazione che lui stesso ha messo a punto all'Istituto Pasteur di Parigi. Ma non è disposto ad esporre la sua vita a rischio: per questo a Rancho Grande lui non ci andrà, dicono che a Rancho Grande c'è la Contra... Mi sta insegnando a me come iniettare la Leishmanina, lui con noi non verrà».
Pierre mi sedeva davanti in silenzio, quella sera del marzo di 26 anni fa, chi avrebbe detto allora che avrei celebrato a Kimbau i miei 25 anni di vita missionaria? Ero in Nicaragua da soli 25 giorni, parlavo un pessimo spagnolo ma fremevo dalla voglia di comunicare agli altri il mio entusiasmo perché il sogno finalmente si concretizzava, cercando di capire se i miei compagni di viaggio erano stati spinti dal medesimo sogno. Quella sera avevo cucinato io, avevo preparato una frittata, e dato che in cucina sono sempre stata un disastro, avevo messo tanto di quel sale che Zeno e gli altri avevano classificato il tutto come « immangiabile ». Solo Pierre mi aveva detto gentilmente che gli avevo ricordato le omelettes francesi che gli preparava sua mamma. Con una vena evidente di nostalgia e forse di rimpianto nella voce.
A quel punto non potevo mancare di «intervistarlo» nel mio stentato spagnolo come facevo praticamente con tutti i volontari stranieri che erano in Nicaragua da un tempo sufficiente per capire le analogie e le differenze fra sogni romantici e crude realtà... e per capire se la voglia di restare era più forte o no della voglia di scappare. Del resto, è una vita che lo sto domandando ogni giorno a me stessa. « Pierre, quando conti di tornare in Francia all'Istituto Pasteur? » Pierre mi guardò con uno strano sorriso. La risposta, scandita lentamente fu totalmente inattesa: «Io in Francia non tornerò più ». « Pierre, perché dici così? » Pierre non mi rispose, ma continuò a guardarmi con quello stesso strano sorriso.
La partenza il giorno dopo era prima dell'alba, e solo al mio risveglio venni a sapere che Pierre era partito assieme a Zeno, a Felicia e agli altri. Tutto il resto lo seppi in seguito dai giornali, e poi negli anni successivi anche da Zeno, certo ancor più di me marcato indelebilmente da quei giorni di tragedia e di paura.
L'équipe di ricerca era partita a Rancho Grande e aveva lavorato tutto il giorno con i «promotores de salud» iniettando Leishmanina nelle braccia dei campesinos. Poi la sera si erano ritrovati tutti in una di quelle feste improvvisate che poi ho visto celebrare ovunque in Nicaragua come in Congo, in piena guerra, alle volte durante il coprifuoco, per esorcizzare la paura. E mi raccontò in seguito Zeno che durante la danza aveva stuzzicato Pierre «Pierre, porque tiene miedo? este es un pueblito tranquilo!» (Pierre, perché hai paura, questo è un villaggio tranquillo!)
Fu prima dell'alba che gli abitanti di quel villaggio «tranquilo» di mille capanne vennero ridestati dai colpi di un mortaio. Tutti si stesero sul pavimento, come ben presto anch'io avrei imparato a fare. Lo fecero anche Zeno e Pierre. Ma quel giorno impararono (e anche io l'avrei imparato in seguito, in Nicaragua ma poi anche a Kenge) che è inutile sdraiarsi sul pavimento se gli aggressori dirigono deliberatamente il fuoco dall'alto verso il basso, per poter uccidere meglio. Fu così a Ranche Grande il 23 marzo del 1983, fu così di nuovo a Kenge il 5 maggio 1997, fu e temo sarà ancora così finché esisteranno le guerre e la loro logica che stravolge l'essenza stessa dell'uomo, che anziché immagine di Dio diventa belva. Angeli e bestie, direbbe Pascal, e di questa ambivalenza sono da sempre testimone di parte. Dalla parte delle vittime ma, paradossalmente, misericordiosa con gli aggressori, perché vittime anch'essi di una logica imposta dall'alto. Pierre fu solo una delle vittime: quello stesso giorno arrivarono a decine i feriti nell'Ospedale di Matagalpa, donne, vecchi, bambini, a un bimbo di 5 anni dovettero amputare la gamba, mentre a Rancho Grande si piangevano i morti. Fra i morti Pierre, che una scheggia aveva colpito al cervello, mentre gridava a Zeno « pueblito tranquilo, verdad? » Furono le sue ultime parole. In Francia Pierre non tornò più: non fu che il suo corpo, la sua bara coperta da una bandiera francese che si potè restituire a quella mamma sconosciuta che preparava le omelette.
Fino a tarda notte Pierre e Zeno avevano danzato.
Dopo la tragedia rimase un grande punto interrogativo. Perché la logica di una guerra sporca aveva colpito, fra i tanti, proprio il più innocente, il più estraneo al conflitto? E perché Pierre non diede ascolto alle sue paure, che erano in realtà premonizione, ed aveva accettato la sfida e forse ceduto all'insistenza di chi un poco lo derideva per le sue paure? L'amore per la sua missione era stato più forte della sua paura e dei suoi dubbi sulla rivoluzione. Ma in realtà sarei presuntuosa se dicessi che seppi dare una spiegazione al perché di quel cambiamento di opinione. «L'amore perfetto vince la paura». Non so se questa frase è di Sant'Agostino o se io stessa l'ho sentita rimbombare in me nei momenti in cui temo di cedere al panico. Non si è eroi senza macchia e senza paura. Semplicemente si ama.
Anche il Dr Richard aveva tanta paura, presentiva la sua morte con una lucidità analoga a quella di Pierre e che come avevo fatto a suo tempo per Pierre per me, per noi fu più facile negare anche solo come eventualità: lui solo sapeva che sarebbe morto, e come Cristo nell'orto degli olivi, come per Pierre in quella prima-ultima cena, lo guardai negli occhi e vidi la paura nei suoi occhi quando me lo fecero passare davanti, prigioniero, le mani legate dietro la schiena. Il solo testimone, Emmanuel Lamika, mi disse che anche quando gli spararono nel cervello e buttarono il suo corpo nel fiume aveva le mani legate dietro la schiena. Cosa si può concepire di più vigliacco dello sparare a un uomo con le mani legate dietro la schiena? Forse che quest'uomo abbia più di 60 anni, e che nella sua vita non si sia dedicato ad altro che a curare gratuitamente malati nullatenenti in una missione protestante in un villaggio sperduto della savana!
Il Dr Richard aveva tanta paura: me lo riferì Victorine quando venne in ospedale a cercare per lui il diazepam, e me lo ripeté lei stessa terrorizzata quando lo vide assumere una dose un po' troppo elevata in un colpo solo, dicendole «non voglio che me lo trovino addosso». Al momento fui molto preoccupata anzi forse terrorizzata (in quei giorni vivevamo nel terrore) per il surdosaggio del sedativo, che gli provocò solo un sonno prolungato che diversamente mai avrebbe ricuperato: ero terrorizzata ma in cuor mio, come medico, speravo che avrebbe sopportato quella dose, come infatti la sopportò, e si risveglio da quel torpore e chiese un prete... Sapeva che sarebbe morto, che l'avrebbero ucciso, mentre io preferivo continuare a negare. Mi era più comodo così, aver paura per troppo diazepam e non per quello che gli sarebbe successo pochi giorni dopo, a Kenge. Del resto (a posteriori) mi chiedo che senso avesse la mia paura di medico per le conseguenze di un iperdosaggio sulla salute di un condannato a morte. Ma io allora ancora non volevo credere che l'avrebbero ucciso, mentre lui non diversamente dal Dr Pierre aveva già dentro di sé la premonizione della sua fine. Da medico, scelse lui stesso di calmare l'angoscia di morte con un farmaco che sapeva essere efficace e con un buon margine terapeutico.
Non so perché non ho mai voluto scrivere che il Dr Richard, benché ottimo medico, abilissimo chirurgo, insegnante di tutto rispetto, alle volte faceva uso di sedativi per riuscire a dormire o eccedeva nel bere. In realtà non lo fece mai in mia presenza, per rispetto verso di me ma anche perché per lui bere era un modo di combattere la solitudine di chi non ha più nessuno al mondo, e quando eravamo insieme lui non sentiva più la solitudine. Molte volte entrando in casa sua mi ero detta «è una casa in cui manca una donna», anche semplicemente una donna amica come lo fui io, ma solo per brevi momenti. E adesso che l'ho perduto per sempre, rimpiango di non avergli concesso dei momenti di scambio ideale più intensi e prolungati. Un rapporto affettivo fra un uomo e una donna maturi non è necessariamente sesso, ma quel completarsi vicendevolmente nelle reciproche angosce, che entrambi in quegli anni di sangue coltivavamo.
Capisco solo oggi che l'ho perduto per sempre, che forse lui da me si aspettava qualcosa di più di quegli incontri fugaci: la sala operatoria, il pasto frugale e poi la partenza. Fu mio torto di non essermi mai domandata il perché quando era troppo solo beveva, ma quando io andavo a Moanza per le urgenze o per i corsi della scuola infermieri, lui era sempre sobrio e lucidissimo. Che certe volte indulgeva nel vino (ma era solo vino di palma!) me lo riferì soprattutto della gente malevola che cercava di aggirarne il rigore amministrativo producendo firme false a nome suo. Gente che lo sentiva scomodo e che in qualche modo fu complice del suo assassinio. Ma a dirmelo fu anche gente che come me gli volle bene e che con me pianse per il suo assassinio.
Quando raccontai la storia dell'assassinio del Dr Richard tacqui su questa sua umana debolezza. Come del resto tacqui sul fatto che Pierre fosse tutt'altro che «rivoluzionario». Tacendo questi dettagli, volevo inconsciamente evitare di lasciare delle «macchie» sulla loro memoria. Parlando di loro ancora inseguivo il mito dell'eroe senza macchia e senza paura. E' solo a distanza di anni, acquisendo maggiore maturità nel «vivere di sogni», e soprattutto nei momenti in cui (come in questo periodo) faccio i conti con le mie paure e le mie angosce, nei momenti in cui mi pongo di nuovo la questione se la «voglia di restare» sia tuttora più forte della «voglia di scappare», è analizzando il mio vissuto pieno di paure e di cedimenti che arrivo a comprendere che le cosi dette «macchie» sono in realtà una parte irrinunciabile della nostra essenza missionaria. Perché per imparare a perdonare gli altri (anche gli assassini di Pierre che spararono contro donne e bambini sdraiati sul pavimento, anche gli assassini del dr Richard che spararono su un vecchio con le mani legate dietro la schiena) ho dovuto imparare a perdonare me stessa, le mie umane debolezze. La chiave giusta di lettura me la diede un amico musulmano, che mi disse un giorno in Mali «tu hai la forza della tua debolezza». E se chiedo a Lui nel Padre Nostro il suo perdono perchè ho perdonato agli altri, devo concludere con un «liberaci dalla perfezione», perché la smania di perfezione rende duri, porta ad emettere giudizi. Mentre se Dio è amore, anche noi saremo giudicati sull'amore e non su altro. Dio perdona perché è amore, se anche noi abbiamo perdonato per amore. «Le sono perdonati i suoi peccati perché ha molto amato». Lui lo disse di Maddalena, condannando l'ipocrisia dei farisei, incapaci di perdonare. La grandezza di Pierre, di Richard è proprio nella loro debolezza e nella loro paura. E nel perdono che doveva concludere la loro esistenza.
Un missionario non è un eroe romantico « senza macchia e senza paura », ma siamo noi Richard, Pierre, Chiara, che abbiamo tanta paura, ma però restiamo.
Perché ho tanta paura, tanta voglia di scappare, ma però resto? E' a causa proprio di Pierre e di Richard: quando vidi sul giornale lo stesso strano sorriso di Pierre nella foto che lo ritraeva ancora vivo, scattò per me una spinta irreversibile a vivere l'essenza della missione come cammino comune e quindi eterno di credenti nella costruzione del Regno di Dio su questa terra.
Non fraintendetemi: se parlo di credenti, non voglio significare che si debba necessariamente credere in Dio, per costruire il Regno di Dio basta credere nell'uomo, e nella liberazione dell'uomo dalla miseria, dall'ingiustizia, dalla violenza, dagli abusi di potere.
Pierre del resto non era «credente» nel senso letterale, e Richard forse credeva ma a modo suo. Entrambi credevano nel senso più pieno nel termine perché «non c'è amore più grande di chi dà la vita per coloro che ama».
Pierre e Richard continuano a vivere nell'eternità dell'amore: non è solo S.Paolo a dirlo, che l'amore non muore mai. Da noi in Africa esistono due forme di esseri viventi: quelli in carne ed ossa (i «muntu», al plurale «bantu») e coloro che hanno vissuto nel servizio dei propri fratelli («nos semblantes» mi ha scritto il Dr Richard in una delle sue ultime lettere) e che continuano a vivere anche dopo la morte nell'eternità del cammino, che è eternità dell'amore.
Partendo fisicamente da questa terra con il loro martirio, Pierre e Richard mi hanno consegnato il loro viatico di amore che seppe essere ancora più forte della loro paura, spingendomi a divenire partecipe a questo cammino di eternità nel quale anche loro continuano a vivere nella misura in cui io nel mio piccolo, nella mia debolezza e nelle mie paure ho però accettato di assumere su me stessa la loro eredità d'amore. E continuo a farlo anche se talvolta, come stanotte, sento che mi pesa e vorrei scappare...
Fu per amore e per rispetto alla memoria di Pierre che nonostante la paura decisi di andare ad operare a Waslala, «fiume d'argento» dove però secondo un detto locale che data dagli anni della dittatura di Somoza «la vida no vale nada». Quando gli dissi che avevo deciso di andare a lavorare a Waslala, un amico mi accusò di star inseguendo «eroismi borghesi». Ma Pierre aveva liberato i miei sogni dai futili romanticismi e li aveva trasformati in «sogni d'amore» come era stato il suo. Andavo a Waslala per inseguire il sogno di Pierre che la contra a Rancho Grande aveva solo in apparenza interrotto.
Fu un sogno pieno di crudezza: io che da ostetrica avevo imparato ad utilizzare le mie manine e il bisturi per aiutare donne come me a vivere la gioia immensa di « mettere al mondo un uomo », io che nel studiare e anche nell'impegno politico avevo sempre compiuto scelte di vita e per la vita... mi trovai a utilizzare il bisturi per mutilare! Mi portavano quelle creature umane (militari i primi tempi, in seguito sempre più spesso civili, vecchi, donne, bambini) dagli arti smembrati, spappolati dalle mine anti-uomo, e resi fetidi da ore, spesso giorni di trasporto su barelle improvvisate. Non so quanti morissero per strada. Quelli che arrivavano vivi avevano negli occhi, oltre alla sofferenza, il terrore della morte che vedevano tremendamente vicina. Vivevamo nel terrore, eppure rimasi. Piangevo disperata dopo ogni amputazione, singhiozzavo «non è per questo che ho studiato», eppure rimasi.
Ricordo per tutti quel primo paziente da me amputato, un ragazzo di 18 anni (adesso, se è come spero ancora vivo, ne ha almeno 40, ma per me ne ha sempre 18) che era stato trasportato a Waslala perché una mina anti-uomo gli aveva maciullato il piede destro. Quando me lo portarono dopo più di 24 ore dall'esplosione, il piede, ridotto a brandelli di carne bruciata, puzzava terribilmente. Fu la prima volta che mi affidai a Narciso per l'anestesia, e fu un bene, perché pur capendo che dovevo amputare sotto la coscia per far fronte alla gangrena troppo avanzata, il primo colpo di bisturi lo diedi a livello del polpaccio. L'odore fetido e il sangue nerastro, il crepitio della gangrena mi fecero capire che dovevo tagliare molto più in alto. E lo feci con falsa freddezza, legai metodicamente i vasi, segai l'osso... alla fine consegnai la gamba a un inserviente, perché la interrasse. Fu allora che cedetti e scoppiai in lacrime.
Piansi di nuovo all'alba del giorno dopo: mi toccò entrare nella sua stanza e dirglielo. Lo trovai che guardava nel vuoto di quel lenzuolo sollevato da un solo piede. Allora gli dissi dolcemente: Pedro, ti sei accorto che ti abbiamo tagliato la gamba? Lui rispose con una serenità che mi lascio sgomenta «ya me dì cuenta» sì, me ne sono accorto ma... che importanza può avere, sembrava dirmi, di fronte alla fine di un'estrema sofferenza che mi fa capire la grandezza del dono della vita?
Ma questa frase l'ho aggiunta al suo sorriso inesplicabile solo 10 anni dopo, quando, per uno scherzo del destino (ma dopo 18 anni mi sento di gridare che era un disegno di Dio) è capitato anche a me...
Per me non fu un una mina antiuomo, ma un incidente provocato dal nostro folle tentativo di fuggire a un agguato di coloro che negli ultimi anni del Mobutismo chiamavamo i «militari travestiti da banditi o viceversa». Li avevamo già incontrati nel viaggio di andata, ci avevano portato via quel poco che avevamo, e malmenato un ragazzo che non voleva cedere quel gruzzoletto con cui doveva pagare le tasse universitarie.
Al ritorno li avevamo seminati: l'autista vedendoli di lontano aveva accelerato invece di fermarsi. Ma mentre l'applaudivamo, ormai fuori pericolo, lui perse il controllo del veicolo, sbandò, si capovolse dal lato destro cadendomi addosso e spingendomi fuori dal finestrino aperto. Misi fuori istintivamente il braccio, che rimase imprigionato fra l'asfalto sudicio di fango e la jeep, che proseguiva per inerzia la sua folle corsa stritolando il braccio per oltre venti metri. Non fu una mina, ma era eguale l'aspetto di quel moncherino nero e informe, di quel sangue nerastro. Capii istantaneamente che era perduto e che dovevo recuperare qualcosa di estremamente più importante di un braccio: la mia stessa vita! Come se non si trattasse di me, come a Waslala, diedi ordini per la posizione anti-shock, per fermare l'emorragia.
Furono 7 terribili ore in cui mordevo le labbra per non gridare il dolore e il desiderio che quello strazio finisse. Finché finalmente l'ANESTESIA, la fine del dolore e poi il risveglio. La gioia incommensurabile di sentirmi VIVA, su questa terra ... la vita è un dono meraviglioso!
E mentre controllavo fino a dove mi avevano amputato, sono stati bravi mi hanno lasciato metà dell'omero, disarticolare una spalla già semi-staccata era più facile. Una suora mi vide toccare il moncherino «nge me mona bo me zenga diboko (hai già constatato che ti hanno tagliato il braccio?» «mu me mona ntama (si, da tempo, dal tempo interminabile di quelle sette ore)! »
No, non mi resi conto subito che avevo utilizzato le stesse parole del ragazzo Pedro 10 anni prima. Per capire che la mia storia era uno straordinario Disegno di Dio in cui nulla stava succedendo per caso, ho dovuto leggere una poesia stupenda di un profeta del nostro tempo, Don Tonino Bello, che sembra che sia stata scritta per me dato che comincia con una frase che sento mia «ti ringrazio Dio del dono della vita» e senza che riesca a citare alla lettera continua dicendo «ho letto da qualche parte che Dio creò gli uomini angeli con un ala soltanto, e per volare devono farlo abbracciati».
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