Un anno fa, alla vigilia delle bombe...
C'è un angolo a Pristina, un piccolo spazio unico nel suo genere, nascosto tra le case del viale principale, dove una trentina di giovani tra albanesi e serbi si incontrano, organizzano mostre, concerti e navigano in Internet. E' il circolo dei Postpessimists, aperto a tutti, voluto e finanziato da Norwegian's People's Aid. Sembra un centro occupato: murales alle pareti, un tavolo centrale, una stanza per i computer, una cucina, una camera per la pittura e la scultura. Alle pareti una bandiera colorata con sopra la scritta "pace", fotografie della capitale in bianco e nero e a colori: "Per quelle", racconta Drin, 15 anni, albanese, "la polizia ci ha fermato e trattenuto in caserma ore e ore. Non gliene fregava niente se era per una mostra". Parla tormentandosi i capelli duri di gel: "Il centro è nato per favorire l'integrazione a lavorare per la pace. Anche se poi le divisioni tra i due gruppi ci sono ugualmente". Così nette da far escludere ai due ragazzi l'eventualità di una love story "mista": "Forse prima, ma ora è impensabile; se nascono dei bambini vengono riassorbiti dai serbi. E poi succederebbe come in Bosnia, separazione una dietro l'altra", dice Vigan. Nessun modo di aggiustarla neanche tra teenager: "Quando al club ci sono i serbi non ci sentiamo a nostro agio", specifica Drin, già deciso a iscriversi alla facoltà di Informatica dopo le superiori, forse in Canada dove il padre vuole mandarlo in salvo. "Se poi parliamo di quanto sta succedendo finisce che litighiamo. Un esempio? Dicono che se la Nato bombarda ci massacrano dal primo all'ultimo, ma noi siamo il 90 per cento e tutti per l'Uck". Drin parla, parla e racconta di come gli sia capitato di giocare a Risiko col gruppo dei Serbi riproducendo la realtà.
No, non è facile dialogare, quando tutto intorno è pronto ad esplodere in un'escalation di violenza: "Abito in un condominio e uno degli inquilini, un serbo, va in giro dicendo che se scoppia la guerra ucciderà i suoi vicini albanesi come è successo in Bosnia. I serbi sono pericolosi, non c'è da fidarsi anche quando c'è un'amicizia di vecchia data. Loro se la prendono con i civili, mentre l'Uck lo fa solo con le persone in divisa". Affermazione discutibile, ma Drin e Vigan ne sono convinti e, soprattutto, vogliono "pari opportunità", scuole come si deve, titoli di studio validi ai fini del lavoro. E il "diritto" alla giovinezza, compreso quello di uscire di casa senza dover rispettare il "coprifuoco": "Prima era diverso, ora anche gli orari dividono la città in due parti". Nenad, Serbo, 20 anni, studente di storia dell'arte e direttore della rivista serba dei Postpessimists (ce n'è anche una in albanese) scuote la testa alle parole dei coetanei. Lui, sottolinea, non ha problemi a legare con gli albanesi: "Molta gente non è disposta a farlo, io invece me ne frego. I miei amici sanno che ho amici albanesi, qualcuno è venuto anche al circolo, a me sembra una cosa così naturale". Così normale che in principio i genitori di Nenad, giornalista part time presso una tivù, pensavano avesse aderito a una setta: "poi hanno visto cosa facciamo e si sono calmati. Mio padre pensa che la guerra non ci sarà e nemmeno i raid aerei, è pieno di speranza al contrario di me. Lavorando alla tivù sento solo cattive notizie, so che combatteremo con gli albanesi, ma non ucciderò mai qualcuno del circolo". Un lungo sospiro e la conclusione: "Comunque vada sarà sempre il mio paese, certo spero si finisca con l'avere un Kosovo serbo e uno albanese, così si potrà andare avanti".
Leonora, albanese, 17 anni, canta e dipinge, e ha messo nero su bianco un progetto culturale "misto" da realizzare in Italia: "Bisognerebbe usare tutto, comprese l'arte e la musica per cercare di uscire da questo enorme guaio. Odio la politica, è uno schifo, ci mette in testa idee e in bocca parole che non sono nostre, ci impedisce di pensare", esordisce. "Sì, è vero, quando salta fuori l'Uck si litiga, ma siamo comunque qui a cercare di fare qualcosa insieme. Siamo ragazzi, il futuro è nelle nostre mani, purtroppo non solo nelle nostre, ci sono decisioni, indipendenti dalla nostra volontà, che siamo costretti a subire". Soluzioni? "C'è bisogno di un cambiamento culturale, ci vorrà tempo, forse nemmeno lo vedremo. Non sarà certo un accordo a capovolgere da un giorno all'altro una realtà come questa. Se le due etnie non riusciranno a convivere in armonia non potremo essere liberi nè interiormente nè nella quotidianità".
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