Don Lush Gjergji - LA RICONCILIAZIONE DOPO LA GUERRA - VITINA, 21 maggio 2000
D. Credo tu sappia che la nostra organizzazione ora si chiama "Campagna
Kossovo per la nonviolenza e la riconciliazione". Tu che conosci il nostro lavoro
da quando nel 1993 abbiamo cominciato ad occuparci del problema del Kossovo,
e che hai lavorato con Anton Cetta per il movimento che negli anni 90 ha portato
tante famiglie kossovare a riconciliarsi tra di loro, potresti dirci se è
possibile, e come è possibile lavorare attualmente per la riconciliazione?.
La guerra ha infatti esarcerbato gli odi interetnici ed ogni giorno ci sono
episodi piu’ o meno violenti di manifestazione di questi odi. Cosa e’ possibile
fare, secondo te, per superare questi episodi?
R. Credo che per cominciare il processo lungo e faticoso della riconciliazione innanzi tutto dobbiamo conoscere concretamente la realtà del popolo e delle famiglie che ci stanno attorno; quindi conoscere da vicino quello che è successo loro prima e durante la guerra.
Questa conoscenza diretta dà la possibilità di creare una fiducia, una reciprocità, ed aiuta soprattutto ad essere coinvolti nell’esperienza diretta della gente. In altro modo risulterebbe come un’esperienza esterna, non condivisa, come un desiderio, un ordine, un insegnamento che non nasce dalla conoscenza, dall’esigenza, dall’amicizia e dal coinvolgimento.
Indispensabilmente dobbiamo quindi conoscere la sofferenza della gente, farla parlare di essa, parlare delle frustrazioni che hanno subito, elementi che creano quell’aggressività che pone la gente nell’impossibilità di controllarsi, relegandoli in una sensazione di solitudine ed abbandono, di chiusura. Chiusura nella loro sofferenza dovuta alla mancanza di tante persone a loro care che sono state massacrate, uccise, che sono scomparse senza lasciare segnale e di altre che si trovano ancora nelle carceri serbe.
Il percorso di conoscenza ci aiuta a diventare amici e condividere questo dolore,
perdita, vuoto... allora si può andare avanti chiedendo "permettetemi
di divenire un membro della vostra famiglia, di partecipare al vostro dolore,
di aiutarvi a portare insieme questo peso".
Questo problema non riguarda solo il singolo l’individuo, esso riguarda l’intero
popolo; è il popolo che deve prendere in mano il peso comune del dolore,
attraverso l’unità e l’integrazione di gioia e dolore.
Questo atteggiamento deve creare il punto di partenza per l’apertura della gente perché, come si sa, nel dolore, nella sofferenza c’è la tendenza alla chiusura, c’è la tendenza ad allontanare gli altri evitando di parlare, di comunicare, per non aprire le ferite laceranti. la frustrazione è talmente grande che fa scattare un meccanismo di difesa "Non voglio raccontare a nessuno ciò che mi è successo" e si tende a considerare il problema come se fosse personale.
E’ solo instaurando un rapporto di vera amicizia che si apre la possibilità
di parlare e condividere con altri affinché essi capiscano. Questo però
è un processo graduale che coinvolge non solo la mente ma soprattutto
il cuore di quanti vogliano condividere questo peso. E’ importante dare segnali
concreti: "Io ci sono, voglio capire il vostro dramma, voglio condividere il
vostro dolore, voglio aiutarvi ad uscirne, insieme dobbiamo e possiamo andare
avanti" per dare un senso al dolore, per dare un senso alla perdita delle persone
e delle cose, non materiali, attraverso la condivisione di questa esperienza
toccante. Poi piano piano quest’amicizia deve diventare sempre più concreta,
conoscendosi, incontrandosi, frequentandosi. In questo modo mi sono trovato
a far parte della loro vita quotidiana inserendomi pian piano nella realtà
di questa famiglia e comunità.
Ho fatto quest’esperienza nella mia parrocchia e in questo comune composto da
44 villaggi di 60.000 abitanti. C’erano circa 10.000 serbi, adesso non saprei
il numero esatto perché vengono e vanno dalla Serbia qui e da qui in
Serbia, però la configurazione, grazie a Dio, è rimasta uguale.
La prima domanda che mi sono posto è stata: "Cosa è successo?" allora ho indagato ed ho appreso che 21 giovani sono stati uccisi come membri dell’UCK, come gente che ha combattuto cercando di difendere la propria dignità, la propria famiglia, la propria nazione, il proprio territorio, in estremis con le armi, non trovando più altra strada per sopravvivere.
Ho radunato la gente, sono stato a trovarli, ho visto le famiglie delle persone uccise, ho visto le case distrutte, saccheggiate. Nel nostro piccolo territorio, che è stato poco colpito, ci sono circa 1200 case non più abitabili e questo ci fa capire quanto possa essere disastrosa la situazione in altri luoghi che sono stati colpiti più fortemente da questa guerra. Il primo incontro che ho fatto con le famiglie delle vittime è stato in questo salone della nostra parrocchia ed ho detto semplicemente: "Esprimo il mio cordoglio con partecipazione e vorrei divenire un membro della vostra famiglia. Permettetemi di partecipare alla vostra sofferenza ed al vuoto che ha creato la mancanza dei vostri cari", tutti mi conoscevano di nome e pochi mi conoscevano personalmente. Il primo incontro è stato molto difficile, la gente era tesa, non riusciva a parlare. Io non ho sforzato.
Era il 24 giugno, subito dopo il ritiro della polizia serba. La gente si era ritirata nel suo dolore, non si conoscevano fra di loro ed io ho chiesto di fare questo primo passo. Se non avete la forza di raccontare cosa è successo, cosa avete visto, cosa avete sentito e chi avete perso, almeno presentate ai presenti la vostra famiglia. Così piano piano alcuni hanno trovato la forza di reagire ed hanno cominciato a raccontare e condividere, all’inizio con me ma io chiedevo che lo facessero con la comunità. Abbiamo trascorso una mezza giornata insieme, ho chiesto quanti malati e reduci ci fossero, ho dato cibo e farmaci a chi ne avesse bisogno. Ho sentito questa gente come la mia famiglia con cui condividere ciò che avevo.
Dopo questo incontro si è percepito nella gente un certo sollievo. Da li il lavoro è continuato, la gente ha iniziato a frequentarsi più spesso e questo stimolo ha favorito gli scambi e l’amicizia fra loro, la gente si è riconosciuta nel dolore, nella reciprocità. Questo continua sia fra loro sia con me. Secondo il loro desiderio abbiamo istituito un incontro ogni primo sabato del mese dalle 9.00 alle 13.00, secondo le possibilità e necessità. Ad oggi abbiamo avuto 10 incontri, stiamo insieme, ci raccontiamo, progettiamo. Ho invitato alcuni volontari della Caritas della mia parrocchia e ad altri amici che si trovano in sintonia con questa proposta. Attraverso questi incontri collettivi abbiamo raggiunto dei risultati che all'inizio potevo solo desiderare e percepire. La gente trova sollievo, aiuto, solidarietà e condivisione nel dolore, ed attraverso la comunità, sperimenta nuove dimensioni.
Ad esempio siamo potuti entrare anche in una tradizione locale. Secondo questa
tradizione, quando la donna resta vedova, viene invitata a uscire dalla famiglia
del marito e tornare dai propri genitori. Questo la porta a lasciare figli e
affetti per affrontare un disagio inesplicabile. Nonostante questa situazione
di disagio, essa può venire spinta ad affrontare un nuovo matrimonio
con un uomo sconosciuto (e non necessariamente pronto a capire ed accogliere
il suo stato). Attraverso il dialogo noi svolgiamo un lavoro interdisciplinare
che ha molteplici dimensioni. Quella fondamentale, nel caso delle giovani donne
vedove è soprattutto di aiutarle a ritrovare se stesse, a trovare la
forza ed il coraggio per continuare la propria vita senza dover tornare alla
casa dei genitori. Attraverso il dialogo cerchiamo di invitare la comunità
e le famiglie dei defunti mariti ad accogliere le vedove e, grazie a Dio, fino
ad ora nessuna di loro è stata respinta dalla famiglia del marito morto,
né è stata costretta ad abbandonare i propri figli e risposarsi.
D. Sei aiutato da qualche organizzazione non governativa in questo
lavoro di ricostruzione dei rapporti sociali?
R. Assolutamente no. Sono solo e solitario in questa azione. Cerco di rendermi utile ed aiutare questa gente. La cosa bella che è nata da questa conoscenza, amicizia e condivisione totale è la fiducia che la gente mi esprime quotidianamente telefonandomi e cercandomi anche per le piccole cose. Mi parlano delle cose più intime ed a volte non vogliono prendere decisioni senza averne prima parlato con me.
Direttamente non ho mai parlato del perdono come tale, ma ho parlato del male che abbiamo sperimentato attraverso la schiavitù dalla dittatura. La libertà non è immediata al ritiro delle forze serbe, la libertà è una conquista per tutta la vita. La libertà scaturisce dalla conoscenza della verità, dalla ricerca della pace e della giustizia, e dal faticoso cammino quotidiano per vivere nel perdono e nell’amore. I due punti di guida fondamentali sono la verità con la carità e con l’amore.
Analizzando queste situazioni, piano piano, le persone stesse sono arrivate a riconoscere: "Finalmente non ho più il peso tremendo dell’odio addosso, non odio più nessuno, non desidero vendetta..." Questa per me è stata un’enorme conquista. La gente dice che, attraverso la mia presenza, finalmente sente la presenza di Dio e non desidera più fare del male per vendicarsi. Questo è uno stato indegno per l’essere umano, per la famiglia, per la società e per il popolo. Questo mio cammino ha convalidato ciò che già pensavo a seguito dell’esperienza del 1990. Noi dobbiamo trovare delle persone che si associno con noi che siano stati protagonisti del perdono.
Questo è già successo nel 1990, quando una persona trovava la forza per il perdono si associava al nostro gruppo e ci aiutava a spiegare alla gente la sua esperienza, raccontava chi fosse e cosa avesse fatto e come si sentisse dopo aver perdonato. Sappiamo che questa guerra ha lasciato 12.500 morti con nome e cognome. Basta poco per ipotizzare che esistano almeno 125.000 persone che vivono nel dolore, che vivono nel nonsenso, per la perdita dei propri cari. Esse non possono essere aiutate materialmente, spesso soffrono di disagi quali la perdita della casa, del lavoro, di una sistemazione. Ma esse soprattutto hanno perso il senso della vita. Sta a noi aiutarle concretamente, attraverso una reale partecipazione, a dare un senso alla perdita dei familiari, a dare un senso al dolore, a trovare il senso dell’esistenza.
Ho sperimentato che quando cresce il dolore cresce anche la sensibilità, la gente ti guarda negli occhi e capisce, attraverso uno sguardo o una stretta di mano, se tu veramente partecipi, se tu vivi il loro dolore. Tante volte vengono qui, parliamo per un po’, ed alla fine mi dicono: "Ti ringrazio perché sono rinato, ti ringrazio perché ho capito che c’è qualcuno che pensa a me, a noi, ti ringrazio perché questo conforto mi apre una speranza, ti ringrazio perché questa è la prima esperienza positiva che ho provato dopo la scomparsa dei miei cari". Quindi ritengo che bastino piccole cose fatte con attenzione, con entusiasmo, con partecipazione, con amore per entrare nel profondo dell’essere umano toccando la realtà e dando una valenza diversa alla sofferenza ed al dolore.
Vorrei che queste persone diventassero partecipi e collaboratori del processo della riconciliazione e del perdono, vorrei che essi fossero artefici della cultura della vita e dell’amore. Attraverso la mia esperienza posso asserire che questo è possibile. Anzi, è una realtà così bella e così ricca che quanto io ho ricevuto da queste persone è molto più di quello che ho dato loro. Ho iniziato, diciamo così, questo gioco di entrare dentro questa realtà e giorno dopo giorno sono sempre più dentro e più coinvolto. Tanti bambini, dai cinque anni in su, mi chiamano zio, mi chiamano amico, fratello, padre (nel senso religioso). Mi chiamano per telefono e mi chiedono: "Cosa stai facendo?" Io magari rispondo che sto scrivendo o leggendo e qualcuno mi dice: "E se io venissi a trovarti tu continueresti a scrivere oppure staresti con me?" ed io rispondo "ma certo che starei con te e giocherei!".
Per la festa musulmana ho regalato ad ogni bambino qualche soldo e tutti loro sono rimasti molto contenti che un prete cattolico si ricordasse di questa festa. Questi bambini sono creature meravigliose. Vorrei dire che di modalità ce ne sono tante ma l’approccio deve essere interpersonale ed inter-familiare, cioè cercare non di accentrare su di me ma di creare questa grande famiglia che si riconosce nel dolore e che si riconosce soprattutto nella prospettiva di superare questo dolore e di poter dare un nuovo senso alla vita.
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