Colombia: Cronaca di una morte annunciata
«Che senso hanno, signori, tante riunioni e tanti eventi mentre ci stanno ammazzando? Che senso hanno gli hotel di lusso, gli esperti delle Ong e tanti intellettuali, che senso ha tutto ciò per noi che abbiamo così bisogno che ci aiutiate a non morire» (dal discorso di Luis Eduardo Guerra al Foro Sociale delle Americhe svoltosi a Quito, nel luglio 2004)
Gli dicono che lo stanno cercando, lo scongiurano di nascondersi. La mattina del 21 febbraio scorso, Luis Eduardo Guerra decide di non sfuggire alla violenza, che l'ha accompagnato fin dalla nascita, trentacinque anni fa. Non vuole abbandonare la sua nuova compagna Bellanira e Deiner, il figlio undicenne che zoppica dall'esplosione, nell'agosto scorso, di una granata abbandonata dall'esercito. E' uno dei leader più riconosciuti di San José de Apartadò. Forse si sente protetto dalla solidarietà ricevuta negli Stati uniti e in vari paesi europei, tra cui l'Italia dagli amici di Narni e degli altri gruppi che formano la Rete di solidarietà con la Comunità di pace. O forse non immagina che vogliano ammazzarlo. Si sbaglia. Luis Eduardo, Bellanira e Deiner vengono intercettati vicino al rio Mulatos, portati sul greto del fiume e squartati con i machete fino ad essere decapitati. Poco lontano un altro gruppo entra sparando nella casa di Alfonso Bolivar, membro della Comunità di pace del suo villaggio. L'uomo riesce a scappare. Scappa anche un contadino di nome Alejandro che sta percorrendo un sentiero vicino: una pallottola lo ferisce alla schiena, viene raggiunto e finito. Alfonso potrebbe salvarsi, ma quando sente le urla della moglie Sandra Milena, che chiede pietà per i suoi figli, torna indietro a morire con la sua famiglia. I machete infieriscono sul suo corpo e quello di Sandra. Nessuna pietà neppure per Natalia di quattro anni e per Santiago di solo 18 mesi. I due massacri hanno dei testimoni, il fratellastro di Luis Eduardo e un vicino di Alfonso.
La risposta dell'esercito
Sono loro che raccontano una verità spaventosa: stavolta i carnefici non sono i tagliateste delle Autodefensas Unidas, i principali protagonisti da vent'anni della macelleria colombiana, ma i militari del 33° battaglione di controguerriglia dell'esercito. Da quattro giorni l'intera regione è sorvolata da elicotteri ed aerei bombardieri e invasa dai reparti della 17° brigata di stanza nella base di Carepa. E' la risposta all'imboscata nella valle della Llorona di una settimana prima del V° fronte delle Farc, costata la vita a sedici soldati. Com'è successo tante altre volte, sono i civili indifesi a fare da vittime sacrificali delle rappresaglie.
Da quando, nel 1997, gli sfollati di San José de Apartadò si sono proclamati Comunità di pace, rifiutandosi di collaborare con tutti i protagonisti della guerra, compreso l'esercito, molti generali li considerano alla stregua dei ribelli. Lo stesso presidente Alvaro Uribe, nel corso di un vertice tenuto nel maggio scorso nella vicina Apartadò, sostenne che San José fosse in realtà un «corridoio» usato dalle Farc. Noncurante delle sentenze della Commissione interamericana dei diritti umani e della stessa corte costituzionale colombiana che hanno, in più occasioni, ingiunto allo stato colombiano di «offrire una protezione speciale» alla Comunità di San José, in quell'occasione, Uribe invitò la polizia ad arrestare, se necessario, i suoi dirigenti e a deportare i volontari che li proteggono, prima di tutti quelli delle Peace Brigades.
Quando a San José si viene a sapere del massacro, partono gli inviti a bloccare la carneficina, gli appelli alle organizzazioni umanitarie in Colombia e nel mondo. Per recuperare i corpi delle vittime viene organizzata una spedizione di quasi duecento persone, accompagnata da sacerdoti, cooperanti internazionali e l'ex sindaca di Apartadò, Gloria Cuartas. La comitiva si dirige a Mulatos, nella fattoria di Alfonso, affollata di vicini che aspettano l'arrivo dei funzionari giudiziari. E' il 25 febbraio. Il giorno dopo ci si fa guidare dai cerchi concentrici degli avvoltoi, per scoprire i cadaveri straziati di Luis Eduardo e dei suoi. All'orrore si aggiunge la rabbia. In zona vagano ancora reparti dei soldati. A differenza di altre volte, il loro atteggiamento è sfrontato. C'è chi, ironizzando sul fetore che satura la zona, sostiene che ci sia «puzza di guerrigliero morto». Qualcun altro accusa il gruppo di essere arrivato fino a lì dietro ordine delle Farc. Vengono prese foto e rivolte minacce ai contadini. Un soldato brandisce come un trofeo un machete trovato sul greto del fiume e, nonostante le proteste, lo pulisce con la sabbia cancellando le tracce di sangue. Più che un'ammissione di colpa, l'atteggiamento dei militari equivale ad una rivendicazione.
Di diverso tono sono ovviamente le risposte che le autorità danno pubblicamente a Gloria Cuartas, agli avvocati della Corporación Jurídica Libertad e al padre gesuita Javier Giraldo che denunciano la responsabilità della XVII° brigata nel massacro: mentre il comandante dell'esercito, Reinaldo Castellanos, definisce queste accuse «temerarie», il ministro della difesa, Jorge Alberto Uribe assicura una certa «tranquillità della forza pubblica, visto la sua estraneità al crimine». Da tutto il mondo piovono proteste indignate contro il governo Uribe che, come minimo, non ha fatto nulla per difendere la Comunità di San José. Oltre all'Onu e l'Organizzazione degli stati americani, gli scrive una dura lettera anche il sindaco di Roma, Walter Veltroni. Da parte del governo di Bogotà inizia l'abituale fuoco di sbarramento, orchestrato dal vice-presidente Francisco Santos, ormai esercitato a recitare, nello staff di Uribe, i ruoli più patetici. Salta fuori il solito guerrigliero pentito, lasciato ovviamente anonimo, che racconta che Luis Eduardo sarebbe stato ammazzato dalle Farc per non avere più voluto che San José continuasse ad essere usato dai ribelli «come luogo di riposo e vacanza». L'assurda tesi viene fatta propria dai mezzi di comunicazione. Il 2 marzo arriva in zona una commissione giudiziaria, che si scontra però con un muro di silenzio: nessuno vuole parlare con i giudici. Neppure Gloria Cuartas che ricorda che «tutte le testimonianze rese negli ultimi otto anni sulle violazioni dei diritti umani sono servite soltanto a criminalizzare le vittime e non i carnefici».
Ancora più dall'insediamento di Uribe, parlare di giustizia, in Colombia è un eufemismo. Sottoposta a minacce e ripulita da quasi tutti gli elementi onesti, la magistratura ha sempre assecondato il sodalizio tra i vertici dell'esercito, comandato negli anni scorsi nella regione di Urabà dal generale Rito Alejo Del Río, detto «El Pacificador» (al quale persino gli Usa avevano negato il visto d'ingresso per avere costituito gruppi paramilitari) e il nucleo centrale delle Auc, a capo dei quali c'erano Carlos Castaño e Salvatore Mancuso. Oltre ad intimidire i testi o ad accumulare inutilmente le loro denunce, i giudici hanno lasciato spesso filtrare le loro generalità, segnalandoli ai killer statali e parastatali.
Un massacro impunito
Dei duemila abitanti di San José, dal 1997 ne sono stati ammazzati 165, una ventina dalle Farc e dell'Eln e il resto da militari e paras. Non a caso, nel centro del villaggio, cresce a dismisura un monumento di mattoni con i nomi delle vittime e, dietro le fila delle baracche, il cimitero. Non solo tutti gli omicidi sono rimasti impuniti: come ricorda padre Javier Giraldo «in molti hanno pagato con la morte la fiducia nella giustizia». Per questo, la Comunità ha deciso di rendere testimonianza del massacro solo alla Commissione interamericana dei diritti umani, riunita il 14 marzo in Costarica. I giudici della Fiscalia lasciano a mani vuote San José. Sulla strada del ritorno sono attaccati a colpi di mortai e lanciarazzi, che uccidono un poliziotto di scorta e ne feriscono altri tre. L'agguato, che governo, esercito e giudici attribuiscono alle Farc, corrobora per i giornali la colpevolezza dei ribelli nell'uccisione di Luis Eduardo e degli altri 8. Da Bogotà Uribe tuona che «non può esserci un solo centimetro del territorio nazionale vietato alla forza pubblica». Considerando la «neutralità» una forma di complicità con la guerriglia, il ministro della difesa annuncia che verrà al più presto sanata l'anomalia di San José e delle altre comunità di pace esistenti, per lo più lungo la costa del Pacifico. Quando, il giorno dopo, l'esercito entra nelle stradine del villaggio, i suoi abitanti minacciano un nuovo esodo, rifiutandosi di «convivere con i loro assassini». E fanno un appello a tutte le voci libere del mondo perché si uniscano nel richiedere il rispetto per la popolazione civile.
Il braccio di ferro tra i contadini di San José e lo Stato colombiano chiede di schierarsi. Impresa non facile, ad esempio, per la chiesa. Per un padre Giraldo che rischia ogni giorno di trovare un sicario sulla sua strada, c'è il vescovo della vicina Apartadò che, in questi giorni, ci tiene a sottolineare il suo «accompagnamento solo pastorale» alla comunità ribelle. Ma l'ultima strage impone anche a Bruxelles e alle diplomazie europee presenti a Bogotà d'intervenire. Per salvare altri innocenti e per valutare che non sia il caso di sistemare nella lista dei «terroristi» colombiani anche gli squartatori e i loro rispettabili mandanti e conniventi.
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