Latina

Ecuador: come l'Eni, non volendo, ha cacciato Lucio Gutierrez

La compagnia petrolifera italiana con la sua politica di rapina in Ecuador ha provocato forti reazioni popolari
23 aprile 2005
Giuseppe Di Marzo
Fonte: Il Manifesto


«La sfida della crescita»: questa la linea guida tracciata dal neo amministratore delegato dell'Eni, Vittorio Mincato. Sfida basata sull'acquisizione di altre società e sulla conquista di nuovi mercati. Nonostante le buone intenzioni, diffuse con milionarie operazioni di marketing, il cane a sei zampe è ormai tra i principali esportatori di un modello economico basato sull'impoverimento dei popoli del sud del mondo e sulla distruzione dell'ambiente. L'Ecuador è uno dei teatri preferiti dall'Eni nella rappresentazione di quello che significa la tanto sbandierata «Eni's way». Proprio alla fine del 1999 l'Eni è divenuta titolare unica di un'intera regione dell'Amazzonia ecuadoriana chiamata «Blocco 10», all'interno della quale porta avanti attività di sfruttamento petrolifero. Dal pozzo chiamato «Villano1», l'Eni estrae attualmente 15000 barili giornalieri mentre le riserve dell'area sono stimate in 190 milioni di barili di greggio. Per aumentare lo sfruttamento portandolo a circa 40.000 barili giornalieri, l'Eni ha giustificato la sua partecipazione, insieme alle altre «sorelle», alla costruzione dell'oleodotto privato Ocp: un serpente di 513 km che ha spaccato in due il paese, distrutto gran parte delle foreste ancora rimaste e violato i diritti delle comunità vicine al tubo.

La realizzazione del mega-oleodotto, al cui finanziamento la Banca mondiale si era sottratta in quanto non rispettava gli standard minimi di sicurezza e di tutela ambientale richiesti, era stata fortemente voluta dal Fmi con lo scopo di trattenere circa il 70% delle entrate (molto esigue) spettanti al paese per pagare gli interessi sul debito estero. Le operazioni di questi anni compiute dall'Eni in Ecuador se da un lato hanno garantito enormi profitti alla multinazionale, dall'altro sono state disastrose per un intero paese. Le attività nel «Blocco 10» hanno provocato un fortissimo impatto ambientale nel fragile sistema amazzonico, la deforestazione di oltre mille ettari di boschi primari (incluso il taglio di 372.320 alberi), lo scarico diretto di residui tossici nei fiumi e nel suolo, un alto livello di inquinamento che ha causato la perdita di una gran parte della straordinaria biodiversità presente. A questo va aggiunto l'impatto sociale e culturale sulle popolazione contadine ed indigene che da millenni abitano la zona, le divisioni ed i conflitti scientificamente provocati fra le comunità, la militarizzazione dell'area, i danni alla salute e la firma di accordi capestro con i nativi.

Impossibile dimenticare il contratto firmato con le impronte digitale degli indigeni Huaorani con il quale l'Eni scaricava qualsiasi sua responsabilità derivante dallo sfruttamento del territorio a cambio di pochi dollari e di un fischietto, due palloni da calcio, una bandiera dell'Ecuador, qualche secchio di burro e di sale e un po' di piatti e posate. Contratto che sembrava provenire dagli archivi dei tempi della conquista ma che purtroppo rappresenta la summa dell'atteggiamento arrogante e violento delle principali multinazionali petrolifere. Che a farlo sia stata un'impresa italiana poco conta e poco cambia; la sostanza per le comunità ecuadoriane è identica: loro pagano il prezzo della sicurezza energetica dell'occidente, oltre che i favolosi stipendi a molti zeri di manager a caccia di grandi profitti.

Il mantra della crescita e del progresso in nome di qualche sacrificio non solo non regge più, ma stona davanti all'evidenza dei disastri economici e sociali provocati. Moltissimi sono stati anche i lavoratori morti ai quali venivano appaltate le difficilissime operazioni di costruzione dei progetti come l'oleodotto Ocp. Lavoratori con contratti giornalieri, senza garanzie di nessun tipo, morti per circa 4 dollari al giorno. E' così che le grandi multinazionali come l'Eni fanno profitto, delocalizzando le attività e scaricando le loro responsabilità verso imprese create appositamente per appaltare gran parte del lavoro sporco. L'ingerenza nella sovranità di un paese appare in tutta la sua evidenza. Sono le richieste delle multinazionali che spingono per le privatizzazioni, per gli accordi di libero scambio, per ridurre le garanzie sindacali e ambientali all'interno degli accordi commerciali, a provocare quell'impoverimento della popolazione che si è tradotto in questi giorni in un sentimento di indignazione popolare. «Que se vayan todos», è il grido di rabbia che riecheggia in questi giorni a Quito, riferito ormai non più e non solo a Gutierrez ma ai veri responsabili della miseria dell'Ecuador. La lotta contro l'accordo di libero commercio con gli Stati uniti, che avrebbe garantito favolosi profitti alle multinazionali, non a caso è stato il collante che ha consentito in questi ultimi due anni di riorganizzare la mobilitazione popolare. La sospensione dei negoziati per il Tlc e la chiusura della base militare di Manta ceduta agli Usa (una sorta di appendice ecuadoriana del Plan Colombia), sono fra i primi punti a cui dovrà mettere mano il nuovo presidente Palacio

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