La politica degli Stati uniti in americalatina: in nome del "destino manifesto"
Il 22 febbraio 1927, anniversario della nascita di George Washington, l'ambasciatore degli Stati uniti a Parigi, Myron Herrick, invita a un banchetto i rappresentanti diplomatici degli stati dell'America latina membri dell'Unione panamericana. «Gli Stati uniti non sono avidi di terra - dichiara nel suo discorso conviviale. Non hanno né il desiderio né il bisogno di nuovi territori. Come sanno tutte le persone ben informate, hanno costantemente e volutamente evitato, nell'ultimo quarantennio, frequenti e facili occasioni per allargare il proprio territorio. Chi ci accusa di mire imperialiste o non conosce la storia o non è sincero (1)». Con la memoria ottenebrata dalle abbondanti libagioni e dagli splendori della Ville Lumière, evidentemente aveva dimenticato qualcosa: il Messico fatto a pezzi, Cuba in catene, Haiti e la Repubblica dominicana sotto controllo, Panama strappata alla Colombia, l'invasione del Nicaragua, l'annessione delle Filippine.
Nel 1823, nel suo messaggio al Congresso, il presidente degli Stati uniti James Monroe lanciò la dottrina che consegnerà il suo nome alla storia. Mentre crolla l'Impero iberico, ridestando le bramosie britanniche, egli rifiuta qualsiasi intervento europeo negli affari delle Americhe. La cosa risponderebbe agli interessi generali se non fosse che, con il pretesto di lottare contro il colonialismo straniero, la politica estera degli Stati uniti non punterà da quel momento a costituire un blocco continentale su cui Washington aspirava già a instaurare il proprio dominio.
Senza peritarsi troppo della credibilità delle loro giustificazioni, gli Usa intervengono manu militari nel 1824 a Porto Rico, nel 1831 in Argentina, nel 1845 e poi nel 1847 in Messico, nel 1857 in Nicaragua, nel 1860 nella provincia di Panama e di nuovo in Nicaragua. Al punto che, nel 1847, i governi di Cile, Bolivia, Ecuador, Nuova Grenada (Colombia) e Perù si riuniscono a Lima per esaminare i problemi posti da questo interventismo Usa. L'anno successivo, nel 1848, la guerra contro il Messico conferma le loro preoccupazioni: dal Texas alla California, gli Stati uniti si annettono metà del territorio del paese vicino.
Una volta conclusa la Guerra di secessione, l'America del Nord diventa consapevole della sua immensa potenza. A partire dal 1880, dopo aver completato anche la conquista dei territori dell'Ovest, si volge decisamente verso Sud. Sotto la presidenza del generale Grant (1869-1877), la teoria del «Destino manifesto» espone senza tanti orpelli il progetto degli Stati uniti: controllare il continente da una costa all'altra.
Certo, hanno sempre molto a cuore la mistica della «difesa della democrazia». Ma la applicano attraverso la politica del big stick e l'invio dei marines. Agli interventi militari specifici si alternano le invasioni seguite dalla istituzione di protettorati.
Rimasta sotto dominio spagnolo mentre le altre colonie d'America ottenevano l'indipendenza, Cuba si ribella. Dal 1895, José Marti vi porta avanti una seconda guerra d'indipendenza. Il 15 febbraio 1898, in condizioni misteriose, la corazzata americana US Maine esplode nel porto dell'Avana. Prendendo a pretesto tale incidente, il presidente McKinley scatena il conflitto contro la Spagna. Riportata una facile vittoria sulle truppe iberiche con una «magnifica piccola guerra», come soleva definirla Theodore Roosevelt, le forze armate americane prendono possesso di Porto Rico (2). Col Trattato di Parigi del 10 dicembre 1898, la Spagna rinunzia anche a Cuba e alle Filippine.
Sotto la pressione dell'occupazione militare, Cuba «liberata» deve accettare di aggiungere un'appendice alla sua Costituzione, l'emendamento Platt, votato dal Senato americano nel 1901. In base a tale emendamento, l'Avana deve accettare un diritto di intervento degli Stati uniti per «conservare l'indipendenza cubana (sic)», e mantenere al potere un governo che protegga «la vita, la proprietà e le libertà individuali».
«Onde porre gli Stati uniti nelle condizioni volute per mantenere l'indipendenza di Cuba e proteggere il suo popolo, così come per la propria difesa - precisa il documento - il governo di Cuba venderà o cederà in prestito agli Stati uniti il territorio necessario a costituire depositi di carbone e stazioni navali in alcuni punti stabiliti (...)». È questo l'atto di nascita della base di Guantanamo (3).
L'isola ha perso l'indipendenza ancor prima di averla conquistata.
Ingerendosi nella sua politica interna, nelle sue istituzioni, nel suo sistema elettorale, nel suo regime fiscale, gli Stati uniti intervengono manu militari nel 1906, 1912 e 1917. Protettorato americano fino al 1934, Cuba successivamente avrà una serie di governi privi di poteri reali.
«Il persistere a comportarsi male, o l'impotenza che porta a un allentamento generale dei vincoli tipici di una società civile, possono rendere necessario alla fine, in America come altrove, l'intervento di qualche paese civile. Nell'emisfero occidentale, l'adesione degli Stati uniti alla dottrina di Monroe può costringerli, in casi flagranti in cui si trovano di fronte a tale cattivo comportamento, o a tale impotenza, ad esercitare un potere internazionale di polizia, per quanto siano riluttanti a farlo». Eletto presidente, Theodore Roosevelt ha lanciato, nel 1903, questo avvertimento «corollario della dottrina di Monroe».
Per obbligare gli stati latino-americani a rispettare i loro «obblighi internazionali» e «la giustizia nei confronti degli stranieri» (vale a dire i crediti delle nascenti multinazionali), per «apportare il progresso» e la «democrazia» ai «popoli arretrati», i marines sbarcano una volta dopo l'altra in Messico, in Guatemala, in Nicaragua, in Colombia, in Ecuador. Meno ipocrita, il presidente Taft dichiara nel 1912: «L'emisfero intero ci apparterrà, così come ci appartiene già moralmente per la superiorità della nostra razza».
Senza alcuna parvenza di conquista territoriale o di dichiarazione di guerra, lo status di una repubblica latina indipendente diventa inferiore a quello di un semplice stato degli Usa, in cui l'intervento del governo federale di Washington si esercita soltanto in casi molto limitati e richiede comunque l'autorizzazione del Congresso federale (4). La difesa della sovranità nazionale si trasforma in una ribellione contro la potenza che si è arrogata il protettorato di queste repubbliche, e viene soffocata nel sangue, a vantaggio di interessi influenti più che della civiltà.
Dopo la prima concessione ottenuta dal Costarica nel 1878, la United Fruit Company (Ufco) si è ritagliata un impero bananiero su misura, sulle coste atlantiche dell'America centrale (così come della Colombia e del Venezuela). I suoi milioni di ettari e le sue proprietà costituiscono veri e propri regni indipendenti. Si tratta di difenderne gli interessi.
Sotto la tutela ispirata di quello che definisce il suo «goodwill», lo zio Sam - gibus enorme, panciotto e pantaloni a stelle e strisce come la bandiera americana - interviene per via diplomatica e militare, motu proprio, senza alcun controllo, nelle questioni interne di queste repubbliche.
Si tratta certo di paesi turbolenti, che spesso vivono in uno stato di anarchia cronica e di disordine finanziario. Ma certi precedenti - l'etnocidio dei Pellerossa e la guerra di secessione - non autorizzano certo il grande vicino del nord ad atteggiarsi a maestro e a modello.
In questa regione, oltre a difendere i propri interessi economici, intende semplicemente assicurarsi il possesso di un futuro canale che colleghi l'Atlantico al Pacifico.
Dato che la Colombia tardava troppo per acconsentire alle condizioni impostele per cedere «per cento anni» questa futura via d'acqua nella provincia di Panama, gli Stati uniti ne favoriscono la secessione nel 1903. In cambio di 10 milioni di dollari, il trattato Hay-Brunau-Varilla del 18 novembre concede loro l'uso perpetuo del canale e di un'area di otto chilometri su ognuna delle due sponde; così come la sovranità assoluta su tutto il complesso. Un trattato d'alleanza concluso nel 1926 aggrava vieppiù tali servitù d'uso. L'articolo 6 conferisce a Washington diritti speciali in tempo di guerra, facendo virtualmente di Panama, dal punto di vista militare, un nuovo stato dell'Unione.
Tuttavia, la «diplomazia del dollaro» rivela il suo aspetto più imperiale e imperioso in Nicaragua. Anche lì si tratta di assicurarsi il possesso del futuro canale interoceanico di cui non si è ancora stabilito il tracciato definitivo. Dopo un primo sbarco nel 1853 per «proteggere la vita e gli interessi dei cittadini americani», i marines tornano nel 1912 per spezzare la resistenza dei liberali, che rifiutavano di negoziare con gli Stati uniti un prestito in base al quale questi ultimi avrebbero ottenuto il controllo finanziario del Nicaragua.
Una volta salito al potere, il presidente Adolfo Diaz contratta il famigerato prestito, fornendo come garanzia le entrate doganali e accettando un controllore generale americano delle dogane, nominato dai banchieri di New York con il beneplacito del Dipartimento di stato. Risale a quei tempi l'insediamento a Managua di una guarnigione americana, che vi è rimasta per ben tredici anni, dal 1912 al 1925.
Nel frattempo, nel 1914, il trattato Bryan-Chamorro ha dato agli Stati uniti i diritti esclusivi di costruzione di questo canale senza fine.
I marines tornano sulla scena nel 1927, dopo che il conservatore Emiliano Chamorro, loro protetto, ha riconquistato il potere con un colpo di forza. Ci vorrà la lunga e impari lotta degli «outlaws» del «piccolo esercito folle» di Augusto Cesar Sandino per convincerli a riprendere la via di casa nel 1932. Durante tale periodo, gli Stati uniti hanno creato una Guardia nazionale il cui jefe director sarà un marine fino al 1932, prima di passare le consegne al generale Anastasio «Tacho» Somoza.
In Honduras, gli Stati uniti sono intervenuti ripetutamente nel 1903, 1905, 1919 e 1924 per «ripristinare l'ordine» (soprattutto quello caro alla United Fruit e alle compagnie create per lo sfruttamento dei territori, delle miniere e delle foreste). Nel 1915, la grande democrazia americana ha soffocato senza dare nell'occhio anche la piccola Repubblica di Haiti. Sbarcato alla testa di una forza di spedizione a Port aux Princes, l'ammiraglio William B. Caperton impose al governo una convenzione le cui clausole, sotto una parvenza di legalità e di volontario consenso, consegnavano agli americani l'amministrazione civile e militare, le finanze, le dogane e la banca di stato (sostituita dalla National City Bank). Per domare la resistenza, l'ammiraglio proclamò la legge marziale su tutto il territorio. Stesso discorso e stessa legge marziale nella Repubblica dominicana, laddove la Convenzione dell'8 febbraio 1907 permette agli invasori di amministrare le dogane e di distribuirne gli introiti ai creditori stranieri.
A questa politica del big stick il presidente democratico Franklin D. Roosevelt sostituisce nel 1934 la politica del «good neighbourhood» (buon vicinato). La Conferenza per il mantenimento della pace (Buenos Aires, 1936) e l'ottava Conferenza degli stati americani (Lima, 1938) riaffermano la sovranità assoluta di ciascun paese. Ma, durante la fase dei protettorati, gli Stati uniti sono riusciti a organizzare regime autoritari stabili, che si appoggiano alle forze armate locali, devote ai loro interessi. La politica di buon vicinato significherà quindi sostenere tutta una serie di dittatori, da Rafael Leonidas Trujillo nella Repubblica dominicana, a Juan Vicente Gomez in Venezuela, Jorge Ubico in Guatemala, Tiburcio Carias in Honduras, Fulgencio Batista a Cuba, e alla dinastia dei Somoza in Nicaragua.
(2) L'isola è sottoposta a un vago regime autonomo sotto l'autorità di un governatore americano. Nel 1917, dopo lunghe e ripetute proteste dei leader portoricani presso il Congresso, viene concessa la cittadinanza a tutti i portoricani che la desiderano. Nel 1952, l'isola ottiene il riconoscimento di stato libero associato, tuttora in vigore.
(3) All'epoca Washington ricevette le basi di Guantanamo e Bahia Honda, ma quest'ultima è stata restituita nel 1912 in cambio dell'ampliamento della base di Guantanamo.
(4) Louis Guillaine, op. cit.
(Traduzione di R. I.)
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