Latina

Colombia: una accompagnante spagnola racconta come ha vissuto l'ultimo attacco alla comunità di pace Colombiana di S.Josè de Apartadò.

24 novembre 2005

LSuor C mi aveva detto che a San Josesito nessun giorno era uguale a un altro, e quel giovedì ho potuto verificare – non me lo dimenticherò mai – che aveva ragione.
Alle otto in punto abbiamo iniziato le lezioni, la risposta dei bambini e delle bambine all’appello è stata molto buona, il mercoledì avevano partecipato una trentina di alunni, e giovedì erano già quasi cinquanta, ero soddisfatta. Nel corso della mattinata, verso le 11.15, i bambini hanno sentito il rumore dell’elicottero che passava vicino a San Josesito; io ho guardato fuori dallo spazio coperto dove c’era la scuola e li ho visti passare; un po’ più tardi abbiamo sentito le prime raffiche e abbiamo visto le colonne di fumo che si levavano sulle montagne, lontano dal villaggio, secondo alcuni provenivano dalla frazione di Las Nievas.

Quel giorno abbiamo fatto una partita di calcio dopo lezione, bambine contro bambini, e abbiamo anche giocato a sognare, a pensare a quello che ci sarebbe piaciuto avere e che non potevamo fare. Verso l’una del pomeriggio sono andata a pranzare con suor C, quelli di Medici senza Frontiere di Monteria stavano ancora facendo visite mediche, come già avevano fatto il giorno precedente, e perciò la bodega comunitaria era strapiena di gente; ma è stato piacevole, abbiamo discusso dell’elicottero, delle raffiche, da dove potevano provenire, che cosa poteva essere successo. Poi è arrivato G, che aveva ricevuto una chiamata dalla frazione di Arenas Altas, c’erano stati degli scontri in mezzo alle abitazioni della zona umanitaria, e c’era un ferito. Erano quasi le due del pomeriggio.

Siamo rimasti in attesa di qualche telefonata, ma non siamo riusciti a saperne di più, allora G ha preso la decisione di creare una gruppo di uomini che andassero a cercare il ferito fino al suo appezzamento, poco più in là di Arenas Altas.

Rapidamente si è formato il gruppo, e mi hanno chiesto di accompagnarli, in quel momento non erano presenti nella comunità né le Peace Brigades International, né FOR [il Movimento di Riconciliazione, un’altra Ong internazionale che fa normalmente presenza nella comunità di pace di San José], quel mattino era passato ACNUR [l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati], per presentare il suo nuovo direttore, una madrilena di nome Nuria, ma se n’erano già andati. Dovevo prendere una decisione, e per dire la verità non ci ho pensato molto, ho deciso di accompagnarli. Loro hanno chiamato anche il Difensore Comunitario, e suor C è rimasta ad attenderlo: avrebbero fatto parte di un secondo gruppo.

Così abbiamo iniziato il cammino verso Arenas Altas alle due di pomeriggio, di buon passo, G andava davanti, eravamo una decina, io avevo iniziato con molta determinazione, però quanto più procedevamo più iniziavo a sentirmi stanca, eravamo partiti così di fretta che non ci era neppure venuto in mente di prendere un po’ d’acqua, e il sole picchiava.

Lungo il cammino, dopo un’ora di strada pianeggiante e dopo una salita bella dura in cima a una collina, abbiamo incontrato della gente di Arenas Altas che stava fuggendo, una donna piangeva, teneva in braccio un neonato, e ci ha detto che aveva lasciato indietro altri quattro figli, che per favore li portassimo via… a quel punto mi sono resa conto di quello che stava succedendo veramente.

Poco dopo abbiamo incontrato un gruppo che veniva dalla frazione di La Uniòn, tra cui R, ci siamo fermati per discutere se proseguire o meno, vedevamo già i soldati nei pressi del cartellone che dichiara che Arenas Altas è parte della Comunità di Pace di San José de Apartadò. G era ancora determinato, sì, avremmo dovuto continuare, mentre quelli della Uniòn sembravano più cauti; ma gli uomini di San Josesito hanno deciso di proseguire: io ero rimasta un po’ indietro e così mi è toccato quasi scendere di corsa la collina.

Siamo arrivati alla casa di un certo Alberto Rodriguez quasi contemporaneamente ai soldati, un’avanguardia di cinque uomini che ci si è avvicinata sparando al suolo, insultandoci e obbligandoci a sederci, e costringendo gli uomini a gettare i machete. mi sono spaventata moltissimo, a sentire il primo sparo ero così terrorizzata che mi si sono piegate le ginocchia, ho guardato G, e, vedendo che non si sedeva, neppure io l’ho fatto. lui ha cominciato a chiarire che eravamo popolazione civile che andava a cercare un ferito, ma i soldati non volevano sentir ragione, continuavano a puntarci le armi addosso dicendo che anche i guerriglieri con cui si erano scontrati tutta la mattina erano vestiti da civili, e che non c’era nessun ferito.

Noi abbiamo continuato a spiegare chi eravamo, e a dire che andavamo a Arenas Altas, ma non ci ascoltavano, si vedeva che erano stanchi e anche impauriti, l’elicottero continuava a volteggiare sopra le nostre teste, e io ho iniziato a temere che potesse spararci addosso.

Allora G ha detto a uno dei soldati che io ero spagnola e che li stavo accompagnando, gli animi si sono calmati, e io che fino a quel momento ero rimasta zitta, mi sono azzardata a parlare e ho chiesto a uno di loro di dirmi il suo nome, però lui non ha voluto, un altro invece me l’ha dato, dicendo che non aveva nulla da nascondere, che ci stavano solo chiedendo di aspettare che arrivasse il comandante con il resto della truppa, che trasportavano una guerrigliera morta, e inoltre ci hanno consigliato di aspettare che arrivasse il Difensore Comunitario. ma noi invece abbiamo deciso di proseguire fino a un torrente, dove ci siamo imbattuti nel comandante con il resto della truppa, e questi totalmente fuori di sé ci ha detto di tornare indietro alla casa e di retare là, non c’era modo di dialogare con lui, sembrava molto alterato, così abbiamo fatto come diceva, mentre vari soldati ci tenevano sotto tiro con le armi, e l’elicottero continuava a proteggerli dall’alto. Nel frattempo sono passati molti soldati, e un mulo che trasportava la guerrigliera morta avvolta in un lenzuolo, noi sotto la tettoia della casa che non osavamo neppure aprire bocca. dopo 15 minuti, vedendo che non c’erano più soldati, né persone armate, abbiamo ripreso la marcia verso Arenas Altas, erano ormai le cinque e un quarto e sapevamo che la notte ci avrebbe sorpreso lungo il cammino.

Nel fango si potevano scorgere tracce di sangue e moltissime cartucce, tutte dell’esercito; nella truppa c’erano sicuramente soldati di tutti e tre i battaglioni della diciassettesima Brigata, Voltigeros, Velez e Bejeranos, erano tutti armati pesantemente, due o tre fucili ciascuno, e tra loro c’erano ex guerriglieri reinseriti, che la gente di San José conosceva.

Siamo arrivati al villaggio di Arenas, e tutti erano fuori, spaventati, gli avevano sparato addosso, e c’era anche un ferito: Luis Hernando, con un proiettile conficcato nella spalla. i soldati avevano aperto il fuoco contro la scuola con la scusa che da lì gli stavano sparando contro, ma nella scuola c’era soltanto il maestro con sei alunni, e il maestro continuava a ripetere che la sua unica arma erano i gessetti, la cosa mi ha impressionato molto.

Là ci hanno informati che il contadino che credevamo ferito ormai era morto, gli avevano sparato una granata mentre era nel campo di mais, G è venuto con me fino a un’antenna, collegandoci alla quale potevamo chiamare La Uniòn con il cellulare, e quelli della Uniòn gli hanno detto che stava arrivando altra gente, e che prendesse la decisione di andare a recuperare il cadavere. Quando siamo tornati dal resto della gente era sopraggiunto anche il Difensore, Rubén, che ha raccomandato di lasciare il cadavere dov’era, avremmo dovuto aspettare che arrivassero i magistrati, che magari sarebbero arrivati anche il giorno dopo; G ha detto che la Comunità si assumeva la responsabilità, e il Difensore ha risposto che li avrebbe accompagnati, ma declinava qualunque responsabilità nella decisione

Così ci siamo di nuovo messi in cammino, a notte fonda e praticamente senza luci, in mezzo al fango, e quando siamo arrivati a una casa, a circa mezz’ora di strada, ormai in prossimità del campo di mais dove c’era il cadavere di Arlen Salas, non ce l’ho più fatta, e ho deciso di restare là, aspettando che tornassero, e in quella stessa casa c’era la vedova di Arlen, una ragazza molto giovane.

Gli altri sono tornati circa un’ora e mezza più tardi, trasportavano il corpo di Arlen in un’amaca, la vedova ha iniziato a piangere sconsolata, ma non siamo rimasti lì a lungo, abbiamo fatto ritorno a Arenas Altas, dove nel frattempo era arrivato il gruppo di quelli della Uniòn, tra cui W, e rapidamente, quasi alle nove di sera, abbiamo iniziato la discesa, l’amaca la portavano due uomini che si davano il cambio, il ferito andava su un mulo, e così il Difensore, suor C e io.

Il ritorno è stato triste, molto triste, quasi nessuno parlava, eravamo molto, più di cinquanta persone, siamo arrivati a San Josesito a mezzanotte, ci stava aspettando tutta le gente del villaggio, bambini compresi, il Difensore ha trasportato il cadavere di Arlenas in macchina fino a Apartadò, insieme al ferito, accompagnato da Amy di FOR.

Nonostante fosse stata una giornata lunga, siamo rimasti a parlare fino all’alba, in quei momenti non sentivo la stanchezza, G è rimasto con me e suor C nella bodega, diceva che non voleva andare a casa, che cominciava ad avere paura, e io lo capivo, ripassavo mentalmente gli avvenimenti e mi rendevo conto di quello che era successo, dell’enormità della cosa, mi sono ricordata della donna con il neonato che diceva che i suoi figli erano rimasti indietro, e ho provato pena, rabbia, impotenza, mi sono ricordata del maestro che aveva sofferto per i suoi alunni, e per se stesso, mi sono ricordata della mia stessa paura al vedere i soldati, mi sono ricordata anche delle loro facce stanche e alterate, dell’immagine del morto, con la faccia bruciata e varie ferite nel corpo, nonostante questo ho dormito qualche ora, ma sentivo che il villaggio era in veglia.

Venerdì siamo andati a Apartadò a vedere il ferito, ci siamo trovati con quelli di Peace Brigades, c’erano soldati che stavano facendo troppe domande riguardo al ferito nell’ospedale.

Il pomeriggio del venerdì si è tenuta la veglia per Arlen, nello spazio coperto del villaggio, e anche quello di una bambina, morta sempre la notte precedente, hanno chiamato la famiglia che viveva a Medellin, e abbiamo continuato a ripercorrere tutto l’accaduto, lo ho raccontato un sacco di volte, mi facevano domande, poi di colpo è arrivata la stanchezza, non ce la facevo più, così sono andata a letto presto, adesso sono a Medellin, avevo bisogno di staccare, per cercare di riposare.

La situazione a San Josesito è troppo tesa, oggi, mercoledì 23 novembre, ho parlato con suor C, la gente di Arenas Altas ha preferito abbandonare il villaggio, gli scontri continuano, e la Fiscalia ha annunciato che domani entrerà a San Josesito, mi sento un po’ impotente qui a Medellin, ma oggi sono arrivate due donne della Comunità per partecipare alla Ruta Pacifica de Mujeres, e anche questo mi sembra importante, è la lotta, la resistenza della gente di San José.

Carla Mariani, della Rete Italiana di Solidarietà, mi ha raccontato un aneddoto, di quando Luis Eduardo è andato in Italia, per partecipare alla Marcia per la Pace Perugia Assisi: durante il cammino Luis Eduardo si era seduto per riposare, e Carla per prenderlo in giro gli aveva detto: un contadino stanco, eh, e Luis Eduardo aveva risposto: stanco sì, ma non sconfitto.

Note: traduzione di Luigi Cojazzi

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