Latina

Bechtel cede, in Bolivia acqua più libera

La multinazionale Usa chiede due settimane di tempo per decidere se ritirare la denuncia. Oscar Olivera: vogliono trattare con noi. Ma siamo pronti a scendere in piazza
26 novembre 2005
Geraldina Colotti
Fonte: Il Manifesto


«La Bechtel vuole trattare. Ha preso contatto con la nostra Coordinadora», dice l'attivista boliviano Oscar Olivera mostrando la copertina de il manifesto. E per la platea di movimenti e associazioni, presente all'incontro organizzato ieri a Roma all'Atelier occupato Esc, «è una vittoria della solidarietà internazionale». Un primo «bloqueo» posto sulla via giudiziaria alle privatizzazioni. Olivera spiega che il consorzio multinazionale Aguas del Tunari - cui partecipano la Bechtel e l'italiana Edison (27,5%) - ha chiesto due settimane di tempo per decidere se ritirare la denuncia nei confronti del governo boliviano, cui chiede un risarcimento di 25 milioni di dollari per «mancato lucro». Non ci sarebbe, in questo caso, il temuto pronunciamento della Ciadi - una sorta di tribunale della Banca mondiale (direttamente interessata nell'affare) preposto alla soluzione delle vertenze internazionali - che creerebbe un pericoloso precedente giuridico nella «guerra dell'acqua». Per ora, dunque, la lettera che Olivera avrebbe recapitato oggi alla Edison per chiederle di desistere dai suoi propositi giudiziari, resta nel cassetto. Ma gli attivisti che, alla notizia, avevano risposto numerosi, rimangono all'erta: se la Edison non farà marcia indietro - avvertono - «partiranno le mobilitazioni»: in Bolivia, negli Stati uniti, in Spagna - dove ha sede la Abengoa, che sta tentando un analogo procedimento, e in Italia. I leader indigeni - boliviani, colombiani, ecuadoregni, messicani - di ritorno da un giro nelle case occupate dagli attivisti di Action, che ospitano numerosi migranti latinoamericani, invitano a tener desta l'attenzione: «la privatizzazione dei beni comuni - ricordano - colpisce i soggetti deboli in ogni parte del pianeta». Loro, gli indigeni, che da oltre 5 secoli vengono rapinati delle risorse, sono venuti a compiere un'operazione di verità: contro la «doppia morale» dell'Europa e degli organismi internazionali che sostengono governi democratici solo all'apparenza. «Il Plan Colombia o il Plan Panama, che consegnano le nostre risorse nelle mani dei grandi gruppi - dice il colombiano Luis Evelis - non portano democrazia e sviluppo, ma basi militari che, col pretesto di combattere il "terrorismo" impediscono l'accesso all'acqua o la inquinano con le fumigazioni». Gli fa eco l'ecuadoregna Blanca Chancoso: «Impedire l'accesso all'acqua o privatizzarla nei luoghi in cui scarseggia, significa produrre guerre e conflitti. Come si può vivere senz'acqua? Come possiamo pagare bollette altissime se non abbiamo di che vivere? Le grandi imprese dicono che noi indigeni siamo d'ostacolo allo sviluppo, ma se il loro modello portasse più benessere e non disperazione, noi ci faremmo da parte». Lo hanno fatto per oltre 500 anni: «i colonialisti hanno occupato le nostre valli - dice ancora Blanca - e noi ci siamo ritirati sugli altipiani, dove c'erano sorgenti e materie prime. Ma ora vogliono la nostra acqua e la nostra terra, per sopravvivere dobbiamo resistere. E la resistenza - aggiunge - sta cominciando a dare i suoi frutti: l'Ecuador non ha firmato il trattato di libero commercio proposto dagli Usa».

In Italia non si vive al freddo degli altipiani, né si soffre la fame a quel livello, ma la «privatizzazione dei beni comuni» (come si dice oggi), è un tema sentito dal popolo della «globalizzazione dal basso». Contro la «doppia morale» dell'Europa, anche il consigliere comunale Nunzio D'Erme, di ritorno dalla carovana in Bolivia. «Ho visto la povertà in cui vivono le popolazioni indigene degli altipiani - racconta -. Basta uscire dai nostri confini per toccare con mano gli effetti nefasti delle privatizzazioni. Se l'Europa, se il centrosinistra in Italia vuole aiutare davvero il Sud del mondo, segua l'esempio del presidente venezuelano Chavez, che vende il petrolio a basso costo ai poveri del Latinoamerica e di New Orleans».

Dice Giuseppe Di Marzo, portavoce dell'associazione A Sud: «La doppia morale riguarda anche il centrosinistra, che in teoria ha a cuore la giustizia sociale, in pratica dà mano libera alle privatizzazioni dell'acqua. Così, mentre da un lato facciamo campagne contro la Suez-Lyonnaise des eaux, che è stata cacciata da El Alto in Bolivia, dall'altra le diamo i nostri soldi pagando le bollette dell'Acea, un colosso che per il 59% è ancora nelle mani del comune di Roma, ma al 49% è stata venduta e messo sul mercato privato». La Suez ha comprato una quota dell'8%, quota massima prevista dallo statuto dell'Acea. «E' una contraddizione che la sinistra istituzionale deve sciogliere - prosegue Di Marzo - deve decidere se vuole adottare politiche di privatizzazione o tutelare i beni comuni. Non bastano i pronunciamenti, si devono cambiare le regole del gioco».

Su questo tema, gli attivisti del «bene comune» promettono di «mettere alla prova» il programma di un eventuale governo di centrosinistra che succedesse a Berlusconi. Appuntamento oggi alle 17,30 a Rieti, dove la delegazione indigena incontrerà i comitati per il diritto all'acqua.

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