Quella maledetta terra boliviana
18 dicembre: leggo sul quotidiano boliviano el Potosì che le proteste
sociali - sempre vive in un paese fatto da gente magnifica ma segnato da
recenti dittature militari, repressione e povertà - stanno imperversando in
uno dei distretti più poveri della Bolivia.
Le comunità indios Quechua hanno eretto blocchi stradali contro l'impegno
disatteso da parte del governo riguardo la costruzione di infrastrutture in
quella zona: ponti e strade come opere strategiche alla necessaria
pacificazione di una regione teatro di scontri per il possesso della terra.
Al momento il blocco ha tagliato le comunicazioni fra Potosì, Tarija e Sucre.
A questa delicata situazione va ad aggiungersi o, meglio, a sovrapporsi lo
scontro politico tra Jorge Quiroga ed Evo Morales: entrambi candidati alle
presidenziali, il primo è leader del partito di destra Podemos mentre il
secondo è capo del Movimiento al Socialismo (MAS) e appoggiato da quasi
tutti i movimenti popolari boliviani.
Evo Morales - indio aymara ed anche per questo temuto dalle forze politiche
conservatrici («Non si deve permettere che un indio vinca le elezioni», ha
professato Jorge Quiroga) - nel recente passato è stato oggetto di pesanti
accuse, non ultima quella di essere un "narcotrafficante" per il suo
impegno in difesa dei cocaleros.
La forza politica di Morales, nata come spontanea reazione dei movimenti
indigeni e contadini al predominio dei mercati e alle privatizzazioni di
acqua e gas, ha da sempre sostenuto le lotte sociali dei coltivatori di
coca (i cocaleros appunto) contro i piani di eradicazione totale della
pianta. Al lettore chiedo la cortesia di evitare i facili tranelli e le
poco intelligenti uguaglianze.
Primo: la coca è un arbusto (Erytroxylon Coca) e non è sinonimo di droga.
Secondo: la foglia di coca - mi ripeto: non è droga - è il simbolo delle
comunità contadine boliviane e viene storicamente masticata senza provacare
alcun effetto allucinogeno.
Il cloridrato di cocaina (questa, sì, una droga) può essere ricavato solo
da una considerevole quantità di foglie: a questo servono le piantagioni
clandestine di coca su larga scala dei narcotrafficanti, non certo
coincidenti con i campi da 50 metri quadrati dei cocaleros.
Terzo: i cocaleros hanno sempre richiesto al governo la legalizzazione
della coltura di coca per l'uso in bevande, alimenti, farmaci e prodotti di
bellezza tanto cari alla nostra società piena di brutture.
Cosa un po' diversa dall'uguaglianza contadini-uguale-narcotrafficanti,
cavalcata dagli stolti sulla base della legge boliviana del 1988: una
uguaglianza che significa 200 cocaleros uccisi e 1.500 feriti durante
manifestazioni di protesta.
La guerra contro le droghe, voluta da quel paese con il vizietto
dell'invasione in tutte le forme, in quasi vent'anni ha prodotto la
crescita del narcotraffico ed un giro d'affari che coinvolge spesso
(parlano le cronache) governi e banche internazionali quali punti di
riferimento per il riciclaggio di danaro sporco, quando non per il
finanzimento: la riedizione del tanto caro proibizionismo anni '20 che
alimentò il commercio di bevande alcoliche da parte della Mafia esportata.
Nel reportage di Danilo de Marco per Carta si legge un'evocativa citazione
di Basilio, cocalero: «[...] Mi domando perchè invece di venire qui a
sradicare la coca che esiste da millenni i nordamericani non si sradicano
le loro narici? Sono loro che hanno bisogno della cocaina».
Ben inteso, la lotta al narcotraffico è sacrosanta quanto necessaria. Gli
scontri armati nelle zone calde dell'America Latina tra gruppi paramilitari
governativi e forze armate divise per sigla ma unite dal sangue, indicano
una contesa tra i narcos delle grandi e clandestine coltivazioni di coca.
Le piantagioni in mano ai narcotrafficanti, il vero problema.
La lotta arbitraria ai cocaleros boliviani (fatta di pallottole negli arti
come in fronte, pestaggi e abusi sessuali) non può che essere il velo
necessario ad alimentare un odioso traffico che fa gola a molti.
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