Colombia: il cammino nonviolento delle comunità di pace
Sono le 11 circa di lunedì 21 novembre,
aeroporto di Malpensa, aspetto d'imbarcarmi sul volo per Bruxelles.
Squilla il cellulare, la voce triste è di Carla:
«l'esercito ha attaccato il villaggio di Arenas
giovedì 17, appena qualche giorno dopo la nostra
partenza dalla Colombia. Hanno ucciso Arlen
Rodrigo Salas David, il coordinatore della
comunità. Credo che tu l'abbia conosciuto con
padre Javier Giraldo, quando siete riusciti a raggiungere Arenas».
Carla Mariani è l'instancabile responsabile
delle relazioni esterne del Comune di Narni,
capofila della Rete italiana di solidarietà con
le Comunità di Pace colombiane dal 2001: in
collegamento continuo con la popolazione della
comunità, diffonde le notizie che li riguardano in tempo reale.
Certo che avevo conosciuto Arlen. Me lo ricordo
bene, eravamo arrivati ad Arenas dopo un giorno
intero di viaggio nella selva, tra il fango, nel
quale sprofondavano i cavalli, e gli alberi, ai
cui piedi sono sepolti i resti dei contadini
massacrati in questa carneficina colombiana che prosegue da anni.
Avevo incontrato Arlen mentre lavorava la terra
nel suo campo, l'avevamo raggiunto fuori dal
villaggio per sentire come stava e per scambiare
qualche impressione sulla situazione della
Comunità in quelle ore. Una contadina di Arenas
ci aveva raccontato che qualche giorno prima
l'esercito era arrivato al villaggio e aveva
pesantemente minacciato Arlen Rodrigo. Era il
coordinatore umanitario della Zona di Arenas,
uno dei tre villaggi, con San Josè e Union, nei quali vive la Comunità di Pace.
Le minacce sono diventate realtà. Noi, a
migliaia di chilometri di distanza, possiamo
solo constatare la nostra rabbia e la nostra
impotenza. Il coordinatore umanitario della zona
di Arenas è stato ammazzato. Un attacco che ho
interpretato anche come una rappresaglia per
l'invito rivolto alla nostra missione europea a
visitare la comunità. Sono state lanciate
granate contro i contadini che stavano lavorando
la terra, contro la scuola elementare mentre i bambini seguivano le lezioni.
Il motivo di quest'azione, così come delle altre
numerose violenze subite dalla comunità, è
l'essenza stessa, la ragione di vita di questa
gente. La Comunità di Pace di San Josè de
Apartadò è infatti composta da 1.300 persone che
si impegnano ogni giorno, in ogni loro gesto
quotidiano, a non partecipare direttamente o
indirettamente alla guerra. Non hanno armi, in
un contesto caratterizzato da un complesso
conflitto che vede protagonisti i potenti
narcotrafficanti, i militari e i gruppi
paramilitari sostenuti dal governo e le
formazioni della guerriglia, le Farc e l'Eln.
Denunciano pubblicamente le violazioni commesse
da parte di tutti gli attori armati. Hanno
impostato la loro vita sul lavoro comunitario,
basato sull'agricoltura e finalizzato all'auto sostentamento.
Tutto ciò non può che risultare scomodo agli
attori armati della guerra civile colombiana.
Per questo le violenze, per questo gli assassini dei loro rappresentanti.
Ora, senza Arlen, Brigida, una dei leader della
Comunità, una donna tra i cinquanta e i
sessant'anni piena di energia, capace di
distribuire speranza e coraggio a chi la
circonda, avrà ancora più da fare. Un altro
lavoro l'attende. Brigida racconta, attraverso i
suoi disegni su cartoni, la memoria storica
della Comunità e le sue vicende più tragiche:
un'altra pagina aspetta di essere dipinta. La
voce di san Josè, Arenas e Union, continuerà a farsi sentire.
I massacri impuniti
Una delegazione della Comunità aveva partecipato
proprio per questo, nel luglio 2004, al Forum
Sociale delle Americhe di Quito, in Ecuador.
Tragicamente profetiche le parole, riportate
all'epoca da molti media, pronunciate al summit
da Luis Eduardo Guerra, un leader della
Comunità: «che senso hanno gli hotel di lusso,
gli esperti delle ONG e tanti intellettuali, che
senso ha tutto ciò, per noi che abbiamo così
bisogno che ci aiutate a non morire».
Una testimonianza che esprimeva una forte
coerenza ma anche una tremenda consapevolezza
dei rischi e delle difficoltà insiti nella
strada intrapresa. Pochi mesi dopo, il 21
febbraio dello scorso anno, reparti
dell'esercito regolare colombiano massacrarono,
nella località di Resbalosa de San Josè de
Apartadò, Luis Eduardo Guerra insieme ad altri
sette contadini. Inclusi sua moglie e quattro
bambini di età compresa tra i 2 e i 17 anni.
Sono stati uccisi nelle loro case, nei loro
campi, senza alcun motivo apparente.
Massacrati. Non uso questo termine a caso, lo
faccio perché si abbia chiaro il quadro
dell'efferatezza imperante, dell'inenarrabile
violenza compiuta ai danni di questa povera,
coraggiosa gente. I loro corpi sono stati fatti
a pezzi con il machete e quindi abbandonati in
una fossa nella selva. Gli abitanti di San Josè
de Apartadò accorsi sul luogo della carneficina
ricordano ancora tutto: i soldati lavarono via
il sangue dai machete nell'acqua di un torrente,
poi, alzando in aria le armi tornate luccicanti,
minacciarono i sopravvissuti, promettendogli una
fine analoga, nel loro prossimo futuro.
«Luis Eduardo Guerra era un importante leader
della comunità, difensore dei diritti umani»
annunciava in un comunicato del 28 febbraio
l'Alto Commissario per i Diritti umani dell'ONU
in Colombia, che, consapevole della propria
impotenza ricordava «che la Corte Interamericana
dei Diritti Umani ha raccomandato al governo di
garantire il rispetto dei diritti umani
verso la Comunità di San Josè de Apartadò e che
la Corte Costituzionale colombiana chiese
protezione effettiva per questa popolazione, nel
marzo del 2004. Queste disposizioni obbligano la
Stato colombiano ad attivare misure speciali di
sicurezza in favore della Comunità e dei suoi
membri. Nel ripudiare questi gravi fatti, si
sollecitano le autorità ad avviare un' inchiesta
veloce ed efficace, che permetta di chiarire
quello che è successo, di giudicare e punire
gli autori di questo crimine crudele».
Luis Eduardo, sostenitore attivo delle pratiche
nonviolente, era il messaggero di pace della
comunità nel mondo, era venuto recentemente
anche in Italia ad incontrare la Rete di solidarietà.
Ad oltre otto mesi di distanza dal massacro, la
nostra missione aveva l'obiettivo di attivare
una pressione internazionale sugli organi di
giustizia per ottenere risposte credibili su quanto accaduto.
Abbiamo incontrato le massime autorità della
Defensoria Nacional del Pueblo (un'istituzione
nazionale a grandi linee paragonabile ai nostri
difensori d'ufficio, che dovrebbe tutelare le
popolazioni povere), della Procuraduria General
de la Nacion (i nostri pubblici ministeri) e
della Fiscalia General (che dovrebbe individuare
e perseguire i reati commessi dai dipendenti
pubblici, compresi quelli compiuti dall'esercito
e dalla polizia), oltre al responsabile del
Programma presidenziale per i Diritti umani
presso la Vicepresidenza della Repubblica.
Abbiamo chiesto notizie delle indagini e dei
provvedimenti presi nei confronti dei
responsabili degli omicidi: nulla. La risposta
non è stata insoddisfacente, più semplicemente,
non è stata una risposta. Abbiamo assistito solo
a qualche vago tentativo, neanche tanto
convinto, di negare le responsabilità
dell'esercito. Discorsi generici sulla presunta
impossibilità di condurre le indagini senza la
collaborazione della Comunità di Pace stessa. Null'altro.
Se non la certezza, ormai esplicitata e palese,
che i colpevoli non saranno individuati. Mai più.
La Corte Interamericana dei Diritti umani, dal
canto suo, ad un mese dal massacro di Resbalosa
ha nuovamente posto sul banco degli imputati lo
stato colombiano e ha nuovamente chiesto
protezione per la Comunità di San Josè. Le
diplomazie internazionali hanno fatto sentire la
propria voce in modo inversamente proporzionale
all'ampiezza dei loro interessi economici: gli
USA sono rimasti zitti, l'UE ha rilasciato
qualche altisonante (ma piuttosto evanescente)
dichiarazione di principio. Tutto è andato
avanti tragicamente, esattamente come prima.
Ci sono i testimoni oculari. Sulle testimonianze
di chi era sul luogo del delitto si basa ogni
processo penale, in tutti i Paesi del mondo. I
testimoni del massacro del 21 febbraio sono più
di uno, ma nessuno si fida a rilasciare
dichiarazioni contro l'esercito, almeno finché a
raccogliere le testimonianze saranno i
magistrati colombiani; ed è difficile dare loro
torto. Infatti molti di coloro che hanno
testimoniato in occasione di precedenti massacri
oggi non possono più raccontarlo, non possono
più testimoniare contro alcunché. Sono stati
uccisi. Questa è stata la sorte di Hilda Ruiz e
Gilha Graciano, testimoni del massacro avvenuto
nel villaggio di Union l'8 luglio 2000 e di
Miguel Osorio, testimone della strage di San
Josè, nel febbraio dello stesso anno.
Ora le donne e gli uomini della Comunità di Pace
ripongono le loro speranze in una commissione
internazionale di avvocati che dia concretamente
il via ad un'indagine su quanto è accaduto.
Allora certo non si tireranno indietro,
troveranno ancora una volta il coraggio di
parlare, di testimoniare. C'è già la
disponibilità di alcune associazioni di giuristi
spagnoli a recarsi direttamente sul luogo per
raccogliere le testimonianze. Speriamo di poter
avere un'eguale disponibilità da parte di
avvocati ed esperti di diritto italiani e francesi.
Terrore di stato
Solo per rendere meglio il clima di impunità nel
quale si svolgono tutti questi episodi, cito
l'incontro che abbiamo avuto nel corso della
nostra visita con il generale Zapata che, a
dispetto del nome che porta, è il responsabile
del XVII battaglione operante nella zona Carepa
Apartadò, dove è situata la Comunità di Pace. Il
militare ricopre questo ruolo da una data
successiva al massacro del 21 febbraio 2005, ma,
come purtroppo documentano i tragici eventi
accaduti in seguito, ha continuato il suo
«lavoro» senza alcun problema, nel solco
tracciato dal suo predecessore, in una
continuità di violenze assolutamente coerente col passato più recente.
Il generale, come i responsabili regionali della
polizia e i colonnelli con i quali abbiamo avuto
un lungo colloquio in un altro incontro, negano
ogni responsabilità degli uomini alle loro
dipendenze in tutti gli assassini verificatisi
in questi ultimi anni, così come ogni connivenza coi gruppi paramilitari.
Ma la stretta collaborazione tra l'esercito, la
polizia e i gruppi paramilitari è più che
evidente. Io stesso ho incrociato, sulla strada
che conduce a San Josè, rappresentanti
dell'esercito in compagnia di capi paramilitari
che i contadini della Comunità di Pace mi hanno
indicato come diretti responsabili di alcuni
degli omicidi avvenuti in questi anni. Siamo
quindi ben oltre uno stato che garantisce
l'impunità a chi uccide degli innocenti.
Per le autorità militari, ma anche per il
governo, in Colombia ufficialmente non siamo di
fronte ad una guerra civile, come invece
sostiene l'Alto Commissariato per i Diritti
Umani dell'ONU, ma ad una lotta dello stato
contro gruppi di terroristi armati. Di
conseguenza chi si rifiuta di prendere parte al
conflitto e non accetta alcuna persona armata
sul proprio territorio viene considerato un
alleato del terrorismo e per tanto un nemico: è
il caso, paradossale, delle Comunità di Pace.
Ma i numeri delle violenze subite dalla
popolazione, che ha scelto la difficile strada
della nonviolenza, non lasciano dubbi: parlano
non di alleati dei terroristi, bensì di vittime dei gruppi armati.
Dal 1997 al 17 novembre 2005 nella Comunità sono
state assassinate 165 persone, 20 uccise dalla
guerriglia e 145 morti per mano dell'esercito e
dei gruppi paramilitari. Gli episodi di
violazione dei diritti umani sono stati circa
500, molti dei quali in forte contrasto con i
trattati internazionali che, formalmente, sono
stati sottoscritti anche dal governo colombiano.
Invece dal 2002, la strategia paramilitare e
militare ha ripreso slancio, dopo una breve
tregua, con bombardamenti indiscriminati,
episodi del così detto «fuoco incrociato» e i
già citati massacri contro la popolazione civile
e la sua organizzazione comunitaria.
La violenza nei confronti di questa gente è
diventata poi una vera persecuzione. Parlo di
depistaggi nei processi realizzati attraverso
l'uso indiscriminato di false testimonianze,
furto del denaro ricavato dalla vendita dei
prodotti agricoli, incendi di abitazioni,
stupri, picchetti paramilitari permanenti nella
via che collega San Josè con il Municipio di
Apartadò, sfollamenti forzati, blocchi
economici, minacce e invasioni della proprietà privata.
L'esito finale della sommatoria di tanti soprusi
è stato un nuovo sfollamento forzato di massa.
La Comunità di Pace di San José, nonostante
tutto, non si è arresa. Sono stati costruiti
spazi per proteggere la popolazione civile e
tutelare il territorio: le «Zone Umanitarie».
Luoghi che purtroppo, come conferma la mia
esperienza diretta in Colombia, continuano ad
essere violati da parte delle truppe armate e dei paramilitari.
Ma mentre le autorità locali e nazionali
continuano a negare di fatto i diritti delle
Comunità di Pace, l'ufficio dell'ONU considera
al contrario legittima la scelta di una comunità
di rifiutarsi di partecipare alla guerra civile
e di rivendicare la propria estraneità al
conflitto e la propria scelta nonviolenta.
Il ruolo del «resto del mondo»
Il giudizio espresso dall'Alto Commissariato ONU
deriva da un' analisi realistica della
situazione che oggi vede, dopo un conflitto che
dura da oltre quarant'anni, una parte del Paese
direttamente controllata dalle Farc e dall'Eln,
i due maggiori gruppi della guerriglia. Si stima
che il primo disponga di circa 20mila persone
armate, il secondo di 5mila. La forza di queste
due organizzazioni ha ripreso ad aumentare dopo
il fallimento del tentativo di trasformare
l?opposizione armata in opposizione legale e
parlamentare. Tale tentativo fallì a metà degli
anni Ottanta, quando la stragrande maggioranza
dei rappresentanti dell'Unione Patriottica,
eletti nelle amministrazioni locali e
parlamentari, furono assassinati dai gruppi
paramilitari e dall'esercito. Il fallimento di
quel tentativo di percorrere una strada
istituzionale spinse molti militanti dell'Unione
Patriottica ad aderire alle formazioni
guerrigliere, nonostante le molteplici e dure
critiche delle quali erano oggetto per le
discutibili pratiche usate, non raramente in
contrasto con gli obiettivi sociali e politici
pubblicamente dichiarati dagli stessi gruppi.
La situazione d'insicurezza e le ripetute
minacce di cui sono vittime i leader
dell'opposizione politica, oltre che il tragico
primato che la Colombia detiene con il maggior
numero di sindacalisti assassinati, rende anche
oggi molto difficile la possibilità di
organizzare un'opposizione politica che possa
misurarsi sul piano elettorale senza rischiare la vita.
Proprio recentemente il governo Uribe ha emanato
la Legge di Giustizia e Pace, con l'obiettivo
ufficiale di facilitare il ritorno alla vita
civile dei comandanti e dei miliziani dei gruppi paramilitari.
Si tratta di un'amnistia totale per i
paramilitari e i narcotrafficanti. Basterà
consegnare un'arma e dichiarare di aver fatto
parte di queste formazioni per poter
riacquistare ogni diritto, inclusa la
possibilità di candidarsi alle elezioni
politiche. Non sarà necessario né ammettere i
delitti commessi, né restituire i terreni e le
ricchezze acquisite con la violenza, né
consegnare l'insieme degli armamenti di cui
dispone ogni formazione paramilitare. Alla
magistratura l'onere di documentare tutto ciò in
sessanta giorni, trascorsi i quali, in assenza
di prove inconfutabili, è garantita l'assoluta impunità.
La legge ha servito su un piatto d'argento anche
ai narcotrafficanti la possibilità di
dichiararsi dirigenti di gruppi paramilitari,
per rifarsi una «verginità», con poco sforzo e
mantenendo intatti i propri affari.
L'opposizione politica, la Chiesa, i sindacati e
l'Alto Commissariato dell'ONU per i Diritti
Umani si sono opposti decisamente a
quest'ennesima truffa chiedendo un intervento
politico di condanna a livello internazionale.
Ma nessuna voce autorevole si è alzata contro la
modifica della Costituzione, voluta da Uribe
per potersi nuovamente candidare alla presidenza
della repubblica, né contro un governo che si
mostra totalmente incapace e non desideroso di
reprimere i gruppi paramilitari e di punire i
responsabili delle stragi di civili commesse
dall'esercito. Anche in questo caso, gli Stati
Uniti, i maggiori sostenitori di Uribe, hanno fatto orecchie da mercante.
In questo contesto, pur se apprezzabile, la
disponibilità offerta da alcune nazioni europee,
tra cui la Svizzera e la Francia, di porsi come
garanti per una ripresa dei colloqui tra le Farc
e il governo, appare come un'iniziativa debole e
dettata più dall'obiettivo di ottenere la
liberazione di alcuni prigionieri, tra cui
Ingrid Betancourt, (ex candidata verde alle
lezioni presidenziali colombiane, in possesso
della cittadinanza francese, sequestrata dal 23
febbraio 2002), detenuti dalle Farc, che come un
vero e proprio tentativo sostenuto dalla volontà
di ricercare realmente una via d'uscita dalla situazione attuale.
L'Unione Europea mantiene una posizione
fortemente ambigua: il Consiglio europeo, ossia
il coordinamento dei governi, in un documento
del 3 ottobre 2005 da un lato ha dichiarato di
ritenere la Legge di Giustizia e Pace un passo
avanti, dall'altro ne ha indicato i limiti
chiedendo una sua modifica, che ovviamente non è stata realizzata.
La posizione dell'UE è particolarmente
importante per il forte sostegno economico che
viene accordato alla Colombia. Molte sono state
le proteste internazionali per il contenuto del
documento del Consiglio, anche perché vi è più
di un generico sospetto che parte dei soldi che
l?UE fornisce al Paese latinoamericano per
realizzare un fantomatico piano di
riconciliazione nazionale finiscano nelle mani
dei gruppi paramilitari. Inoltre, il 15 per
cento, ovvero 24 milioni di euro, del contributo
che l'UE ha destinato alla Colombia per il
2005, dovrebbe andare a favore dei progetti per
le comunità indigene e per gli sfollati. Ma
sull'effettivo uso di queste risorse non vi è alcuna certezza.
A questo proposito ho presentato
un'interrogazione al Consiglio europeo, come
eurodeputato della Sinistra Unitaria Europea, su
sollecitazione dei movimenti colombiani. Nella
risposta fornitami in aula a Strasburgo l'UE si
è impegnata a analizzare nuovamente entro pochi
mesi la situazione colombiana prima di rinnovare
il sostegno economico attualmente fornito.
A febbraio del 2006, poi, si voterà nella
sessione plenaria del Parlamento europeo la
risoluzione concernente la «Clausola dei diritti
dell'uomo e della democrazia negli accordi
dell'Unione europea» sulla quale ho lavorato
come relatore, insieme ad associazioni, ONG,
organizzazioni della società civile impegnate
sul fronte dei diritti umani, civili e sociali.
Si tratta di una clausola inserita in ogni
accordo stipulato dall'UE con i Paesi terzi, che
vincola al rispetto dei principi democratici e
dei diritti umani fondamentali. Il controllo
passa non solo attraverso il monitoraggio della
situazione dei diritti, ma anche per meccanismi
sanzionatori nel caso di violazioni della
suddetta clausola. Mi auguro che anche questo
possa rappresentare un mezzo efficace di tutela
dei diritti umani, attraverso il quale l'Unione
Europea possa cercare di impedire altri soprusi
ai danni delle Comunità di Pace colombiane.
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