Latina

Brasile: le mani sull`Amazzonia

La situazione è migliorata, ma la distruzione continua. Nel mirino le ong infiltrate nella regione da grandi «potenze»
16 gennaio 2006
Francesco Giappichini
Fonte: Musilbrasil
http://musibrasil.net

Secondo dati dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe) pubblicati lo scorso 5 dicembre, tra agosto 2004 e luglio 2005 altri 18.900 chilometri quadrati di foresta amazzonica sono svaniti. Se questo dato ha, in certa misura, frustrato le aspettative del governo e del ministro dell’Ambiente, va anche detto che si registra un calo del 31 per cento rispetto ai dodici mesi precedenti: tra il 2003 e il 2004 l’area devastata fu equivalente a 27.200 chilometri quadrati.
Deforestazione In Amazzonia


La delusione delle autorità federali, ben mascherata dalla sottolineatura degli aspetti positivi, è frutto delle troppo ottimistiche previsioni dello scorso agosto, secondo cui la deforestazione annuale si sarebbe assestata sotto i sedicimila chilometri quadrati segnando una diminuzione di quasi il 50 per cento.
I numeri dell’Inpe hanno tuttavia rappresentato una salutare boccata d’ossigeno per il governo, visto che si è riusciti ad invertire una preoccupante tendenza negativa: era dal 2001 che l’area disboscata era in continuo e costante aumento. Del resto si ricorderanno le pesanti critiche che gli ecologisti mossero al governo Lula circa un anno fa, quando le immagini catturate dal satellite Landsat convinsero molti della sua scarsa sensibilità ambientale: le aree devastate avevano superato i 27mila chilometri quadrati, facendo registrare un incremento dell’11 per cento rispetto all’anno precedente e dai tempi della tanto criticata gestione del governo Cardoso.

Legittima soddisfazione può quindi trasparire dalle parole del ministro dell’ambiente Marina Silva, secondo cui nel 2004 non c’era stato il tempo sufficiente perché le misure previste nel piano di lotta alla deforestazione producessero effetto: «E’ la prima volta negli ultimi nove anni che il disboscamento ha una riduzione. Dall’aumento del 27 per cento nel 2002, siamo passati ad una diminuzione di oltre il 30 per cento. Ora la nostra sfida» continua il ministro «è ottenere delle riduzioni costanti nei prossimi anni». Dalle analisi dei rilievi satellitari, realizzate grazie al programma Prodes, si evince che le devastazioni sono concentrate soprattutto nel sudest del Pará e nel sud dello stato d’Amazonas, mentre invece i risultati migliori provengono dalle aree ove è stata più forte la presenza dello stato, come il nord del Mato Grosso e la zona nei dintorni della strada Cuiabà – Santarem.

Il “Piano d’azione per la prevenzione e il controllo del disboscamento in Amazzonia”, lanciato nel marzo 2004 dal presidente Luiz Inàcio Lula da Silva, ha quindi dato risultati non disprezzabili, e moderata soddisfazione è stata espressa anche da esponenti di ong (organizzazioni non governative) ambientaliste, in passato molto critiche verso l’operato dell’esecutivo. Paulo Adàrio, che coordina le attività di Greenpeace in Amazzonia, ha parlato di un «passo importante», aggiungendo comunque che si è ancora lontani dal poter cantar vittoria. «Nonostante la riduzione del disboscamento» chiarisce l’ambientalista «non c’è nulla da
festeggiare. Si tratta pur sempre della distruzione di cinque campi di calcio per ogni minuto che passa. Continuiamo a perdere la maggior foresta tropicale del pianeta. Perdiamo la nostra ricca biodiversità. E perdiamo anche l’opportunità unica di conciliare l’attività umana con la protezione ambientale».

Secondo l’analisi di Greenpeace la riduzione dei ritmi di disboscamento è dovuta ad una maggiore presenza dello stato nella regione amazzonica, conseguenza a sua volta di due eventi assolutamente contingenti, quali l’omicidio della missionaria Dorothy Stang e la cosiddetta «Operazione Curupira», con cui le forze di polizia hanno neutralizzato una organizzazione criminale dedita all’abbattimento abusivo di alberi ed al traffico illegale di legname. E i rilievi della combattiva associazione ecologista non paiono infondati, visto che la più forte riduzione della deforestazione è stata registrata proprio nel mese di giugno, ossia all’epoca in cui la suddetta operazione di polizia era in pieno svolgimento. «Tutto ciò ha dimostrato che l’azione di governo funziona e che le azioni di governo non possono aver termine», chiosa con malcelata soddisfazione Paulo Adàrio.
Il collega Carlos Rittl, responsabile per il clima della medesima ong, inquadra invece la questione amazzonica in un’ottica più generale: «Il Brasile è ancora uno dei maggiori emissori mondiali dei gas che provocano l’effetto serra, e ciò soprattutto per via del disboscamento in Amazzonia. E’ fondamentale» continua Rittl «che i paesi sviluppati si prefiggano obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi. Ma anche il Brasile deve fare la sua parte e aprire una discussione più ampia sul proprio contributo per mitigare cause ed effetti del surriscaldamento del pianeta».

Dalla galassia ambientalista provengono generalizzati inviti alla cautela, spesso allarmistici, ma a volte anche molto arguti. Il portale Amazonia.org.br lancia ad esempio un’ironica crociata contro gli entusiastici titoli dei giornali che hanno descritto la riduzione della deforestazione come un successo. Si fa notare che il tasso di disboscamento non può considerarsi alla stregua del tasso di disoccupazione: se quest’ultimo si riduce vuol dire che alcuni disoccupati sono effettivamente riusciti a trovare un lavoro, ma il ridursi del tasso di disboscamento rappresenta pur sempre un’ulteriore devastazione dell’area forestale. Altri pongono l’accento sulle cause della riduzione e sulla loro natura niente affatto strutturale, ma del tutto momentanea: se l’assassinio della suora statunitense Stang non avesse avuto la ripercussione nazionale ed internazionale che invece ha avuto - è il ragionamento - forse non staremmo a celebrare i successi ambientali del governo in carica.

Per la difficile quotidianità dell’amministrazione centrale si tratta comunque di un buon risultato. Utile, se non altro, a riequilibrare la durissima relazione della Fao dello scorso novembre. Vi si leggeva che tra il 2000 ed il 2005 la perdita annuale d’aree boschive ha proceduto alla media di 3,1 milioni di ettari, dato sufficiente per dichiarare che il Brasile è il paese in cui, nell’ultimo quinquennio, si è devastata più foresta. Che qualcosa di buono si stia facendo è poi confermato da altre recentissime rilevazioni satellitari, rispetto a quelle dell’Inpe di portata in ogni caso più limitata, sia sotto il profilo spaziale (si è analizzato solo lo stato d’Amazonas), sia sotto quello temporale (l’arco di riferimento va da giugno ad ottobre scorsi). Ebbene in Amazonas il ritmo di taglio della foresta si sarebbe ridotto di ben il 68 per cento rispetto allo stesso periodo del 2004. Giustificata dunque l’euforia dell’assessore Virgílio Viana: «E’ nella stagione secca che si fanno registrare i ritmi più alti di disboscamento. Ottenere una riduzione in questo periodo è una vittoria ancora maggiore».

L’economista Ronaldo Serôa Motta, dell’Istituto di ricerca economica applicata, ha proposto, per contenere il disboscamento illegale e soprattutto il fenomeno del grilagem, una «distruzione organizzata» dell’Amazzonia. Quasi a contrastare le proposte “proibizioniste” delle ong, Serôa ritiene che solo un sistema di concessione di terre potenzialmente agricole potrebbe frenare la devastazione: insomma un disboscamento “organizzato” e legalizzato attraverso la regolamentazione dei diritti di proprietà. Ma a prescindere dalle più ardite ricette per la sua soluzione, non si può cogliere il conflitto sociale che caratterizza la «questione amazzonica», senza tenere in conto la minaccia di internazionalizzazione della regione ed al contempo il legittimo interesse del mondo intero alla preservazione di questo ecosistema. Va letto sotto questo profilo l’esito della recente Convenzione sul clima delle Nazioni unite: è stata approvata la proposta di un meccanismo che stimola i paesi in via di sviluppo a ridurre la deforestazione. Se la proposta sarà accolta, dal 2008 il Brasile potrà quindi ottenere «incentivi positivi», ossia denaro, per eventuali risultati concreti nella preservazione del proprio patrimonio forestale. Non va infatti dimenticato che solo dal Brasile si innalzano ogni anno verso l’atmosfera circa duecento milioni di tonnellate di carbonio.

La proposta ha senz’altro soddisfatto la delegazione brasiliana («Un vantaggio è rappresentato dai termini, perché questo meccanismo entrerà in funzione già nel 2008, mentre il regime “post – Kyoto” sarà operativo solo dopo il 2012», ha riferito un funzionario), peraltro sempre più strenuamente contraria all’imposizione di mete obbligatorie di riduzione delle emissioni. Il governo sudamericano, infatti, da sempre convinto che il surriscaldamento del pianeta sia un problema causato quasi esclusivamente dai paesi ricchi, è tra i più accaniti difensori del principio delle «responsabilità comuni ma differenziate». Posizione quest’ultima che, e non potrebbe essere altrimenti, non entusiasma affatto le ong ambientaliste, convinte che essa possa rappresentare uno svuotamento del regime post-Kyoto. «Responsabilità comune ma differenziata non significa responsabilità zero», tiene a sottolineare Rubens Born della ong Climate Action Network.

Tuttavia presso i settori ecologisti brasiliani vi è l’assoluta convinzione che più degli incentivi e delle pressioni internazionali, sono le operazioni di polizia a dare un contributo decisivo alla lotta al taglio indiscriminato di alberi secolari. Così l’”esercito” di Greenpeace non si è fatto pregare ed ha raggiunto la ribalta televisiva nazionale svelando un’operazione sotto copertura degna di un servizio segreto. Domenica 18 dicembre il programma `Fantastico` di Tv Globo ha mostrato a milioni di famiglie un carico di 29 metri cubi di legname amazzonico illegale, acquistato in Rondônia dalla stessa Geenpeace per provare i reati di organizzazioni criminali che prosperano grazie alla distruzione dell’unica foresta vergine del mondo. In particolare si voleva richiamare l’attenzione sul fatto che il commercio clandestino di legname amazzonico, più che essere rivolto all’esportazione o destinato ad organizzazioni internazionali, va in realtà a rifornire sopra tutto il mercato interno brasiliano. Gli attivisti hanno consegnato alla sovrintendenza della polizia federale di San Paolo sia il carico, sia i falsi documenti usati per legalizzarlo, sia uno scottante dossier indicante i luoghi interessati ed i nomi delle persone e delle imprese coinvolte nel taglio e nella vendita.

L’operazione di Greenpeace ha dimostrato, se ve ne fosse stato bisogno, che l’attuale sistema di monitoraggio e controllo della foresta ha delle falle che permettono di commerciare legname illegale come fosse legale: «Il nostro principale obiettivo è stato mostrare queste falle, chiedere che il governo vi ponga rimedio e pretendere che gli organi di controllo siano resi più capaci e più forti», chiarisce innanzi alla stampa Rebeca Lerer, tra i registi dell’operazione, che ha richiesto un lavoro di quattro mesi. La militante raccomanda quindi che si adotti un sistema di controllo più centralizzato, in modo che i dati prodotti nel luogo di origine del legname s’incrocino con le informazioni del luogo di destinazione. Il blitz di Greenpeace ha messo nei guai il camionista Sérgio Krammer, che dinanzi a militanti ben camuffati e non sapendo di essere registrato ha fatto chiaramente capire di avere influenza presso le autorità di polizia. Più tardi, presentatosi spontaneamente presso la stazione regionale della polizia civile, ha negato di avere offerto denaro alle autorità, specificando di aver usato certe frasi solo per guadagnarsi la fiducia dei clienti. Per il momento si trova in stato di libertà, ma indagato per calunnia e crimine ambientale.

Le ultime notizie sulla devastazione amazzonica, passibili, come si è visto, di contrapposte interpretazioni, non hanno coinvolto soltanto i media, ma hanno anche interessato il parlamento e più in generale il dibattito politico. In Senato sono infatti riprese le discussioni sul progetto di legge di riassetto forestale che - caso più unico che raro - incontra l’apprezzamento sia di associazioni ecologiste come Greenpeace, sia quello delle imprese esportatrici di legname. Il testo, sponsorizzato dal ministro dell’ambiente Marina Silva, prevede una sorta di cessione in affitto di aree forestali: secondo il suo principio ispiratore, l’unico modo di ridurre le devastazioni e combattere la piaga degli abbattimenti incontrollati è disciplinare il caos fondiario della regione Nord, concedendo vaste aree pubbliche alla gestione privata.

E di fronte ai ritardi con cui procedono i relativi dibattiti parlamentari, diciotto associazioni di varia natura (ambientaliste, indigene, sindacali ed imprenditoriali) hanno pensato bene di inviare al senato una dura lettera aperta, in cui si accusa l’istituzione stessa di considerare questo disegno di legge solo come merce di scambio. «E’ assolutamente inaccettabile» recita la missiva «che il futuro delle foreste brasiliane e principalmente dell’Amazzonia arrivi a dipendere da un ponte in Sergipe, dai fondi stanziati per i Giochi panamericani oppure dalla Commissione parlamentare sul gioco del bingo». E a rincarare la dose è giunto anche un comunicato stampa di Greenpeace, che non risparmia neppure il governo: «E’ molto tempo che il governo dichiara che questo progetto di legge rappresenta una priorità, ma sino ad ora non ci sono chiare indicazioni che ciò corrisponda alla verità. Il governo deve rimboccarsi le maniche ed impegnarsi affinché il Senato acceleri l’approvazione del progetto di legge».

E’ legittimo dunque il dubbio che si siano ormai esauriti gli effetti dirompenti causati da un articolo pubblicato lo scorso ottobre sul `Guardian`, senza dubbio un impulso importante perché si desse il via a un serio tentativo di regolamentare la questione amazzonica. Di certo in Brasile non è stato affatto gradito quanto scritto dal giornalista ed attivista politico Georges Manbiot, secondo cui mangiare carne brasiliana è cento volte più immorale che mangiare quella britannica. Non tralascia la scoperta di nuovi casi di febbre afosa nel Mato Grosso do Sul, ma quando afferma che l’espansione dell’allevamento brasiliano è la causa principale del fatto che «gli ultimi tre anni sono stati i più distruttivi della storia dell’Amazzonia brasiliana» si capisce bene che a stargli più a cuore è la problematica ambientale.

Manbiot incolpa gli allevatori della regione del massacro di 1200 persone e del quintuplicarsi del «lavoro schiavo» in Brasile nell’ultimo decennio, tuttavia continua a vedere Brasilia come prima responsabile di ogni male: «Il governo di un paese che, nonostante i suoi migliori sforzi, non riesce a debellare lavoro schiavo, omicidi e catastrofi ambientali, spera che si creda che i suoi parametri di igiene siano implementati nelle fazendas con lo stesso rigore delle altre nazioni». L’ironico intervento, cui forse non sono estranei neppure più prosaici intenti protezionistici, termina con un’insolita richiesta di aiuto rivolta i lettori, affinché questi gli indichino gli stabilimenti che vendono carne brasiliana, perché a suo dire adesso nessuno, in Gran Bretagna, ammette di commerciare questo prodotto.

Posizioni e interventi di questo tipo sono visti come fumo negli occhi dalle autorità brasiliane, che spesso reagiscono limitando la libertà d’azione alle ong straniere operanti in Amazzonia. E’ dello scorso 17 dicembre la notizia che le forze armate – secondo quanto riferito dal comandante Francisco Albuquerque nel corso di una pubblica audizione innanzi alla commissione Esteri della Camera – stanno investigando l’attività delle associazioni straniere presenti nella zona. L’ufficiale ha riferito che l’esercito brasiliano non è contrario all’attività di questi organismi nell’area, sempre che però ciò non significhi la «denazionalizzazione» della stessa. «I progetti delle organizzazioni non governative nei paesi in via di sviluppo sono una realtà», tiene a chiarire Albuquerque, «e quindi dobbiamo capire che cosa c’è dietro a tutto questo».

Per il comandante non vi è alcun dubbio: «l’Amazzonia è nostra e il Paese lotterà per difenderla ed amministrarla». Il deputato Andrés Costa, del Pdt (Partido democràtico trabalhista), si è detto assolutamente in linea con queste dichiarazioni, auspicando anzi che il controllo delle forze armate si trasformi in una vera e propria politica pubblica nazionale. Ha poi aggiunto che mentre molte organizzazioni hanno buone intenzioni, altre al contrario «agiscono in modo assolutamente cinico, giacché rispondono all’interesse geopolitico di una grande potenza che generalmente finanzia il loro lavoro». Si tratta di ong che «potrebbero avere obiettivi ben diversi rispetto alla cooperazione ed alla solidarietà coi popoli dell’Amazzonia».

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