Latina

Haiti: «les jeux sont faits»

Con pazienza e allegria, e con «solo» quattro morti, si è consumato il rito dell'urna, voluto dalla comunità internazionale. Risultati definitivi tra 7-10 giorni. Solo allora si saprà se il favorito, René Préval, avrà vinto al primo colpo
10 febbraio 2006
Maurizio Matteuzzi
Fonte: Il Manifesto


Et voilà, les jeux sont faits. Come in Iraq, con le debite proporzioni e distinzioni, le elezioni si son fatte, la gente ha votato con entusiasmo (e pazienza e allegria caraibiche), in apparenza non ci sono state frodi rilevanti, ci sono stati solo 3 o 4 morti e non si è verificato il bagno di sangue di altre volte, l'Onu e la «comunità internazionale» già si rallegrano felicitando il «valoroso popolo haitiano» in attesa dei primi risultati provvisori, «entro tre giorni», e definitivi, «fra 7 e 10 giorni». Si saprà allora se, e di quanto, ha vinto, come tutto lascia credere, René Préval. L'uomo che incarna le speranze di riscatto delle masse povere che si riconoscevano (e in qualche misura si riconoscono ancora) nel presidente Jean-Bertrand Aristide, cacciato nel febbraio 2004 da un golpe teleguidato da Washington. E forse suo malgrado divenuto anche il candidato della «comunità internazionale» e della comunità degli affari haitiana, che vedono in lui l'unico capace di stabilizzare una situazione che la Missione Onu per la stabilizzazione di Haiti, la Minustah, non è stata in grado di governare in questi due anni di protettorato.

Si saprà anche, di qui a qualche giorno, se Prèval avrà vinto al primo turno o dovrà andare al ballottaggio del 19 marzo e con chi: se, stando ai pronostici, con Leslie Manigat, vecchio arnese del duvalierismo riciclato al neo-liberismo american-style, o Charles Henri Baker, un industriale bianco - anche se lui dice di essere mulatto per cercare di aumentare le sue chances elettoriali - il cui slogan di campagna è «lod, disiplin, travay», ordine, disciplina e lavoro, in creolo.

L'infernale Città del Sole

E si saprà infine anche la reale partecipazione al voto di domenica scorsa. Che a occhio nudo è apparsa massiccia e che se fosse del 60% sarebbe considerata un successo. Senza dimenticare tuttavia un dato significativo. Haiti ha intorno agli 8.5 milioni di abitanti, che tolto il milione e mezzo della diaspora haitiana negli Usa, in Canadà e in Europa (che non può votare all'estero), fanno circa 7 milioni. Come si conviene ai paesi poveri e alla sensualità caraibica, i figli sono molti anche se in questo che è il più povero muoiono presto e in tanti (la mortalità infantile è del 123 per mille, contro il 5 per mille in Italia e... a Cuba), e anche gli adulti muoiono presto e in tanti (l'aspettativa di vita a Haiti è di 52 anni). Detto questo, però, i 3.4 milioni di haitiani sopra i 18 anni che ufficialmente costituivano il totale della popolazione con diritto di voto domenica, sono troppo pochi. E il sospetto, fondato, è che quelli che non si sono registrati non siano solo gente disinteressata al voto ma coscientemente esclusa dal processo elettorale. Gente degli strati più poveri e indocili, per usare un eufemismo, che con ogni probabilità avrebbe votato in massa per Aristide e quindi per il suo surrogato Préval.

A Cité Soleil, per esempio. In quell'infernale Città del Sole, stretta fra il mare e la Route nationale numéro 1, su non più di 5 km quadrati sopravvivono fra le 250 e le 300 mila persone. Lì non entra nessun estraneo che non sia un kamikaze o gli eroici samaritani dell'ospedale gestito da Médicins sans Frontières. Non la Police Nationale Haitienne e neanche i caschi blu della Minustah che preferiscono tenerla costantemente sotto tiro dai check-point sulla Route n.1 e quando sparano usano le mitragliatrici pesanti come fossero in guerra, spazzando via tutto: le baracche e i loro abitanti. Cité Soleil è il regno della povertà assoluta, senza legge che non sia quella della giungla, e quindi della criminalità piccola e grande, delle armi e della droga. Il regno delle gang che a volte fanno incursioni sanguinose fuori dai suoi confini e delle "Chimères", i gruppi d'urto che guerreggiavano senza far prigionieri con le altre bande armate, legali e no, e sostenevano a morte Aristide, la cui piccola chiesa salesiana di San Giovanni Bosco - anzi i suoi resti distrutti e bruciati dopo un attacco degli «altri» - è lontana solo poche centinaia di metri.

A Cité Soleil gli iscritti al voto di domenica erano non più di 60 mila eppure in quella formicolante bidonville non c'era nessuno degli 804 centres de vote aperti nel paese. Chi, di quei 60 mila ha voluto votare, ha dovuto camminare e andare a cercarsi il suo bureau de vote 4 o 5 chilometri lontano, spesso non trovando il suo nome e la sua foto sulla lista elettorale e sentendosi dire che doveva riprovare chissà dove.

E' innegabile tuttavia che il voto di domenica sia stato, e possa essere vantato, come un «successo». Sia per gli haitiani, che hanno voluto rimarcare «la dignità di un popolo libero e fiero», sia per la «comunità internazionale», che ha voluto fare di queste elezioni il solito simbolo (fasullo) della stabilizzazione e ridemocratizzazione di un paese perduto, pagando prezzi politici ancora difficili da quantificare e prezzi economici quantificabili in almeno 60 milioni di dollari (16 milioni il Canada, 20 milioni l'Unione europea, 17 milioni gli Stati uniti, un milione il Brasile...). Probabilmente le elezioni più care del mondo.

Domenica sera, chiuse le urne, lo stato maggiore nazionale e internazionale si è presentato alla stampa all'Hotel Montana - dalle cui terrazze sulle colline di Pétionville Port au Prince e Cité soleil laggiù in basso sembrano un altro mondo - e ha cantato vittoria. «Giornata storica» e «Viva le elezioni, viva Haiti» per Max Mathurin, l'haitiano presidente del Consiglio elettorale provvisorio; «Processo ammirabile» per il cileno Juan Gabriel Valdés, il capo civile della Minustah; «Tutto sostanzialmente ok» per l'altro cileno Miguel Insulza, segretario generale dell'Osa, l'Organizzazione degli Stati americani; «Clima tranquillo, pazienza e responsabilità degli elettori», per l'euro-deputato belga Johan Van Hecke, capo del centinaio fra esperti e osservatori della Ue. Congratulazioni al popolo e a sé stessi che non sono state smosse dalle insistenti domande critiche poste soprattutto dai giornalisti haitiani («ritardi nell'apertura dei seggi», «disfunzioni», «troppa gente che non ha potuto votare»...).

La scelta degli organizzatori di concentrare i 9200 seggi in soli 800 centri elettorali ha provocato fin da prima dell'alba file apocalittiche, che con l'andare della giornata si sono fatte insopportabili sotto il sole ma che sono state sopportate con entusiasmo, pazienza e perfino allegria dagli haitiani. Al Lycée National Alexandre Pétion, nel quartiere popolare e fino a poco tempo fa problematico di Bel Air, intorno alla cattedrale cattolica di Nôtre Dame e alla cattedrale episcopale della Sainte Trinité, i seggi erano 35 e a metà mattina il serpente di gente in attesa era lungo chilometri, sorvegliato dal basso e dai tetti dai soldati del contingente brasiliano.

Peggio che nelle favelas di Rio

Gli elettori lottavano per cercare di trovare il loro seggio e una volta dentro dovevano cercare se il loro nome e, per i tanti analfabeti, la loro foto compariva nella lista. Poi dovevano districarsi, nel «segreto» di un'urna rappresentata da un foglio di cartone, fra le tre schede-«lenzuoli» con i nomi e le foto dei più di 30 candidati presidenziali e dei candidati dei 47 partiti alla Camera e al senato. Stessa scena al Logement 2004, un grande alveare abitativo costruito in occasione del bicentenario dell'indipendenza di due anni fa, che sorge in mezzo alla sterpaia deserta del vecchio aeroporto: lì dentro, a piano terra, erano sistemati 40 seggi ed era diffuso un certo timore perché quello era uno dei luoghi dove doveva andare a votare la gente di Cité Soleil. A osservare, oltre a qualche giornalista americano che sudava come un cavallo sotto il giubbotto anti-proiettile, c'erano i caschi blu brasiliani con i blindati bianchi dell'Onu e le mitragliatrici pesanti puntate sulla folla chiassosa. Prima di venire per i loro sei mesi di servizio a Haiti i militari brasiliani sono stati addestrati nelle favelas di Rio, dove si pensava che l'ambiente fosse più o meno quelle che avrebbero trovato a Port au Prince: peggio qui o alla Rocinha di Rio, chiedo a un soldatino carioca: «Não, qui è molto, molto peggio...».

Ma neanche lì è successo niente come, sembra, nel resto del paese, a parte qualche episodio di violenza minore.

Il rito delle elezioni è stato celebrato, secondo il cliché imposto a ogni costo dall'America e dalla «comunità internazionale». Come in Afghanistan e in Iraq, anche a Haiti si è cominciato dalla fine della catena della democratizzazione anziché dall'inizio. Però al contrario che a Kabul e Baghdad, a Port au Prince forse non hanno (ancora?) trovato il Karzhai e l'Allawi haitiano. Per questo forse si dovranno accontentare di Préval. Che potrebbe riservare sorprese spiacevoli (per loro) e speranze buone per gli haitiani e i latino-americani. Loro - gli americani, i francesi, l'Onu... - e i loro referenti haitiani - i Reginald Boulos, il presidente della Camera di Commercio e il padrone di mezza Haiti, gli Andrés Apad, il portavoce del Gruppo dei 184 e il padrone dell'altra metà - confidano di poter stringere René Préval, se sarà lui a vincere, nella vecchia morsa: se soumettre ou se démettre. Una trappola che finora ha sempre funzionato. Ma che potrebbe non funzionare più, ora che in giro ci sono i Lula, i Kirchner, i Morales e soprattutto un certo Chávez. Con il suo petrolio e i suoi dollari.


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