Cafta, l'annessione del Centramerica
Da ieri è in vigore l'Accordo di libero commercio fra gli Stati uniti e i paesi del Centramerica, fortemente voluto da Bush. La nuova strategia Usa dopo la morte dell'Alca
Se l'Alca, il Trattato di libero commercio delle Americhe, è morto e, come non si stanca di ripetere il presidente venezuelano Hugo Chavez, «è sepolto a Mar del Plata» - la località argentina dove nel novembre scorso il presidente George Bush andò a sbattere i denti contro il no secco dei principali paesi dell'America latina -, la strategia degli Stati uniti ha deciso di battere altre vie nella sua (interessata) guerra per «il libero commercio». E' la strada degli accordi-capestro bilaterali, paese per paese, o per blocchi regionali. I paesi e i blocchi più deboli, incapaci o impossibilitati a resistere alle avances (e alle briciole) del grande fratello del nord e generalmente retti da vassalli. E' il caso del Perù del presidente Toledo, che ha avuto mil suo Tlc nel dicembre scorso, è il caso della Colombia di Uribe, che l'ha firmato lunedì. E' il caso del derelitto e assoggettato Centramerica. Da ieri, primo marzo, è entrato in vigore il Cafta, sigla inglese che sta per Trattato di libero commercio del Centramerica. Ossia fra i paesi del Centramerica - El Salvador, Nicaragua, Guatemala, Honduras, Costa Rica - più la Repubblica Dominicana con gli Stati uniti.
A rigore da ieri vige solo il Tlc con El Salvador del presidente Tony Saca, una creatura di Washington al pari dei suoi colleghi della regione, che ha parlato di «un giorno storico».
Per gli altri paesi ci vorrà un po' più di tempo o perché, per quanto i rispettivi parlamenti l'abbiano ratificato, non hanno ancora introdotto i cambiamenti necessari nel loro sistema legale o perché, nel caso del Costa Rica, non è ancora passato dalla ratifica parlamentare.
Ma il dado è tratto. I governi regionali - Saca in El Salvador, Bolaños in Nicaragua, Berger in Guatemala, Maduro in Honduras, Pacheco in Costa Rica e Fernandez a Santo Domingo - sono tutti fervorosi fan del Cafta, firmato a Washington il 6 agosto del 2004, e giurano che consoliderà le deboli strutture democratiche e favorirà lo sviluppo di economie asfittiche.
Ma buona o gran parte dell'opinione pubblica, e dell'opposizione politica e sociale, non la pensa così, ha protestato nelle strade e ha cercato di mobilitarsi. Martedì migliaia di venditori ambulanti, sindacalisti e studenti salvadoregni hanno marciato contro il Cafta per le strade di El Salvador. Venerdì scorso idem a Città del Guatemala. Nel novembre passato migliaia di oppositori costaricani del Cafta hanno sfilato per le strade di San José per ascoltare l'ex presidente Rodrigo Carrazo, che non è un comunista, dire che il Cafta «rappresenta, puramente e semplicemente, una forma di annessione» (le stesse parole usate dal brasiliano Lula, nella sua campagna elettorale del 2002, rispetto all'Alca).
Ma non c'è da farsi illusioni: il prossimo presidente del Costa Rica, il «socialdemocratico» Oscar Arias, vincitore di un soffio delle elezioni del 5 febbraio, ha impostato la sua campagna proprio sul Cafta e corre voce che a finanziarla siano stati i settori favorevoli al trattato.
Con il Cafta cadono imposte e tariffe doganali per le esportazioni centramericane verso gli Stati uniti e statunitensi verso il Centramerica. I suoi fans, come sempre, assicurano che si creeranno più posti di lavoro e si attireranno pià investimenti stranieri (cioè Usa). Gli oppositori ribattono che il libero commercio fra paesi ed economie tanto asimmetriche non porteranno ad altro che, oltre alla solita ondata di privatizzazione di quello che non è stato ancora privatizzato, all'aumento dell'economia sommersa e delle disparità sociali già scandalose. Poi all'ulteriore sfruttamento di una mano d'opera centramericana che passerà sotto le grandi compagnie Usa attratte dai bassi salari, dall'assenza di diritti e di regole ambientali. Com'è accaduto in Messico dopo un decennio di Nafta. Oltretutto l'interscambio Usa-Centramerica - sui 50 miliardi di dollari l'anno - non sembrerebbe giustificare tanta ostinazione da parte di Bush nell'imporre, anche al Congresso di Washington, l'accordo. Perché allora? La risposta è in quella parola: annessione.
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