Latina

Brasile: l'uomo che voleva la polizia buona

Il dottor Soares, prima in uno stato, poi nel governo federale di Lula, ha tentato una riforma della sicurezza che avrebbe diminuito violenza emorti nelle favelas. Ma la sua carriera è presto finita
4 marzo 2006
Luca Rossomando
Fonte: Il Manifesto

L'università è un edificio massiccio, color grigio sporco, a poche decine di metri dallo stadio Maracanà. «Da giovane ho studiato qui» - dice l'antropologo Luiz Eduardo Soares. «E' una costruzione della dittatura. Concepita in modo da impedire che la gente possa riunirsi». Dalle finestre del dipartimento di scienze sociali si vede il morro della Mangueira, una delle favelas più antiche di Rio, culla del samba e del carnevale. Soares ha modi gentili, il linguaggio chiaro e articolato, un velo di stanchezza nello sguardo. Da un paio d'anni è tornato a fare il professore, il suo vero mestiere, che lasciò alla fine degli anni '90 per diventare Segretario alla sicurezza dello stato di Rio, e poi del governo federale di Lula. Il suo compito, il suo obiettivo: la riforma della polizia. E ci aveva provato sul serio, dal gennaio del '99 al marzo del 2000, come responsabile per la sicurezza dello stato di Rio, diventando in poco tempo, quasi senza accorgersene, un personaggio pubblico. Appariva spesso in televisione per spiegare i particolari delle riforme; e poi sulla strada, ogni volta che qualcosa andava storto tra la polizia e la popolazione; infine, la mediazione quotidiana con i politici, alla ricerca degli equilibri per tenere in vita il progetto. Fin quando, quasi per contrappasso, dopo tredici mesi, venne destituito in pubblico dal governatore dello stato, che lo licenziò in diretta tv, durante un telegiornale. Nel governo di Lula, qualche anno più tardi, durò ancora meno, dieci mesi appena. Fu costretto a dimettersi a causa di un dossier anonimo, filtrato alla stampa dall'interno dello stesso governo. «Del mio lavoro nello stato di Rio - dice - è rimasto ben poco. Ne restano solo le forme, svuotate di contenuto. Nel governo federale non abbiamo potuto nemmeno cominciare. Si è scelta la politica delle azioni spettacolari, ma i corrotti e i violenti sono ancora al loro posto». All'inizio degli anni '90 Soares aveva coordinato un gruppo di ricercatori per analizzare le cause della violenza urbana, la principale emergenza di Rio a partire dalla fine degli anni '80. Le ricerche confluirono in un volume su «Violenza e politica a Rio». Sulla base di quelle analisi, Soares scrisse un programma per la sicurezza pubblica incentrato sulla riforma della polizia. Le parole d'ordine erano: modernizzazione tecnologica, moralizzazione, controllo da parte della società. «La costituzione del 1988 - spiega - modificò tutte le istituzioni, adeguandole alla realtà democratica. Solo la polizia non venne toccata. La sinistra non aveva proposte. Quella era considerata una materia della destra. Così le lobby dei conservatori bloccarono i cambiamenti». Un intrattenitore radiofonico Nel '98, in vista delle elezioni per la carica di governatore, Anthony Garotinho, un ex intrattenitore radiofonico salito alla ribalta politica grazie all'appoggio delle chiese evangeliche, mise le tesi di Soares al centro della sua campagna. Garotinho era a capo di uno strano schieramento, che comprendeva tra gli altri il partito dei lavoratori, tradizionalmente debole a Rio. E così, mentre gli altri candidati cercavano di evitare ad ogni costo il tema della violenza, Garotinho decise di giocare in contropiede, sostenendo nei suoi comizi di aver trovato la soluzione: se l'avessero eletto, avrebbe applicato le riforme del professor Soares. A sorpresa, Garotinho vinse le elezioni e il professore entrò nel suo governo. Da quel momento, insieme ai collaboratori che lo accompagnarono, Soares si diede da fare per realizzare quel che aveva scritto nel programma. «Ci trovammo di fronte diversi tipi di oppositori - racconta - innanzitutto i corrotti e i violenti, che agiscono come una fazione criminale all'interno della polizia; poi i conservatori, che non sono necessariamente corrotti ma che concepiscono la polizia come uno strumento di dominio, di imposizione dell'ordine razzista, omofobico e misogino. Si creò una tacita alleanza tra i corrotti, i conservatori e il resto dei poliziotti, che non erano nessuna delle due cose ma non riuscivano a comprendere il potenziale della riforma e le sue esigenze». Nuovi commissariati Nei tredici mesi al governo, destreggiandosi tra minacce, ricatti e pressioni politiche, Soares e i suoi avviarono il programma Delegacia legal, che prevedeva la costruzione di nuovi commissariati, una nuova divisione del lavoro e l'introduzione di una banca dati centrale, oltre a strumenti di valutazione e di controllo esterno. «Le polizie funzionano per inerzia - dice Soares - reagiscono davanti a fatti consumati, oppure sotto la pressione dei mezzi di comunicazione, che danno visibilità solo alla domanda dei settori dominanti. Non c'è prevenzione, i problemi si ripetono ma l'istituzione non sa interpretarli ed è destinata a ripetere gli errori». L'inefficienza della polizia era dovuta anche alla sua frammentazione: ogni commissariato era un'isola. L'estrema autonomia permetteva la formazione di feudi che definivano a piacimento priorità e metodi di lavoro, creando le condizioni per la corruzione e la brutalità. L'organizzazione dei dati avrebbe ridotto il margine di manovra dei corrotti. Per la prima volta, durante quei tredici mesi, i rappresentanti delle associazioni antirazziste, delle donne, degli omosessuali e molti abitanti delle favelas entrarono nei commissariati senza il timore di subire vessazioni, ma per parlare davanti a centinaia di agenti, ai quali offrivano la loro collaborazione per ridurre gli abusi di cui erano vittime. La riforma più popolare di quel periodo, avviata a titolo sperimentale in due favelas di Rio, fu il progetto Mutirão pela paz. L'idea era di sostituire il modello repressivo vigente - quello delle incursioni armate nelle favelas - con una presenza permanente, non solo della polizia ma di tutti i servizi pubblici fondamentali, esattamente come negli altri quartieri della città. Senza trasformarsi in assistenti sociali, i poliziotti dovevano diventare catalizzatori di domande e risposte, mediatori tra la popolazione e gli altri settori istituzionali. Il modello cominciò a diffondersi e a orientare il nuovo trattamento della favela nei battaglioni della polizia militare. «Nel '99 - spiega Soares - si registrò nello stato di Rio il minor numero di morti dovute ad azioni di polizia negli ultimi 15 anni. Un intervento politicamente molto rigoroso e il filo diretto con i rappresentanti delle comunità condussero a questo risultato; non ancora positivo, perché ci furono quasi trecento morti, un numero altissimo, terribile, ma comunque più basso». Un operato eccellente Dopo un anno alla guida dello stato, i sondaggi annunciarono che l'85% dei cittadini considerava l'operato del governatore come «buono » o «eccellente». Fu così che Garotinho decise di candidarsi alla presidenza della repubblica. Per preparare la nuova campagna modificò il suo piano di lavoro e la fedeltà ai programmi elettorali. La candidatura implicava nuove alleanze, molto più a destra. Garotinho doveva coinvolgere i gruppi tradizionali e, nella polizia, privilegiare il settore più conservatore, che manifestava quotidianamente il proprio scontento per le riforme del professore. Quando la tensione tra le opposte tendenze arrivò al culmine, il governatore fece la sua scelta, congedando Soares in diretta tv. Nel 2000 i morti per mano della polizia crebbero del 60%, molti con caratteristiche di esecuzioni sommarie. Il governo tornò rapidamente al modello delle incursioni belliche nelle favelas. Il Mutirão fu sostituito da un intervento assistenziale che non prevedeva l'integrazione della polizia. Negli anni successivi la violenza nello stato aumentò, fino a raggiungere le 1195 vittime nel 2003. Il giorno dopo l'uscita dal governo, per sottrarsi alle minacce che l'avevano accompagnato durante tutto il mandato, Soares partì con la famiglia per gli Stati uniti. La fondazione Ford gli offriva una borsa di studio alla Columbia University. «Era una borsa che si dava ai tempi della dittatura - spiega - per aiutare le persone in pericolo a lasciare il paese. Non ne avevano più concesse da allora». Quando rientrò in Brasile, Soares fu chiamato a elaborare il piano nazionale di sicurezza per la campagna elettorale di Lula. Era uno dei quattro coordinatori di una struttura che coinvolgeva 1500 persone. Il piano fu presentato ufficialmente al congresso dei deputati a Brasilia, nel febbraio del 2002. Lula lo espose e poi lo difese durante la campagna elettorale. Quando venne eletto, invitò Soares a diventare il primo segretario. «Il presupposto del piano - racconta Soares - era che ogni stato doveva poter decidere il proprio modello di polizia. Il Brasile è molto grande, gli stati devono fronteggiare tipi di criminalità molto diversi tra loro. Non si può imporre un sistema valido per tutti». Costruire consenso politico Per realizzare quel modello bisognava agire su due fronti: costruire il consenso politico e promuovere alcune modifiche costituzionali. Soares visitò i 27 governatori degli stati e gli spiegò che non si trattava di un'imposizione, ma di una necessità nazionale. Era un momento propizio. Lula godeva di grande consenso in tutti i settori della società. I governatori firmarono un documento in cui si impegnavano ad applicare il piano. Si crearono 27 gabinetti con rappresentanti delle amministrazioni locali, delle istituzioni giudiziarie, penitenziarie, socio-educative e della polizia. I gabinetti furono inaugurati. Lula convocò un incontro con i governatori, per celebrare il patto e per incamminare verso il congresso il progetto di modifica costituzionale. «Eravamo felici - dice Soares - ma anche molto ansiosi. Una volta compiuto quel passo, sarebbe stato impossibile fermare la riforma ». Il primo incontro fu rinviato. Ne venne fissato un altro, ma saltò anche questo. Qualche giorno dopo, Soares uscì dal governo. Tre poliziotti che lavoravano nella segreteria nazionale mandarono ai giornali un dossier anonimo, che conteneva gravi accuse di nepotismo e corruzione. «Sarebbe stato facile difendersi - racconta adesso Soares - ma c'era qualcosa di più. I tre poliziotti erano militanti del partito dei lavoratori. Capii che qualcuno nel governo li stava manovrando. Quando seppi che il dossier era stato inviato dal ministero della giustizia, rassegnai subito le dimissioni. Il nucleo duro del governo aveva deciso che era meglio lasciare la sicurezza ai governatori. Mettersi a capo della riforma avrebbe significato un'esposizione troppo rischiosa. 'I cadaveri dell'insicurezza pubblica si accumulerebbero nell'anticamera del gabinetto presidenziale' - aveva detto un ministro». E aggiunge: «La sofferenza, la sensazione della sconfitta è più drammatica non quando si perde, ma quando si vince e la mancanza di volontà politica fa sprecare un'opportunità storica». Il piano fu messo nel cassetto. I politici non lo nominarono più. Anche i mezzi di comunicazione, che ne avevano accompagnato le tappe durante quei dieci mesi, lo dimenticarono immediatamente. I poliziotti che avevano preparato il dossier vennero promossi qualche mese dopo. VITA DI FAVELA A Rio de Janeiro il mercato della droga è installato nelle favelas, enclaves di povertà all'interno dei quartieri più ricchi, da cui proviene la maggior parte dei consumatori. Trascurate dal potere pubblico, le favelas sorgono di solito sulle colline, da cui è agevole controllare i dintorni. I trafficanti si armano per difendere i punti di vendita, le bocas-de-fumo, dalle incursioni delle fazioni nemiche e della polizia, ma anche per imporre la propria presenza alla comunità. Le favelas, infatti, sono insediamenti popolosi: a Rio sono 1.200.000 persone, almeno la metà delle quali è esposta al duplice terrore dei trafficanti e dei poliziotti corrotti, che impongono la propria legge in forma altrettanto arbitraria e cruenta. I trafficanti investono in armi: i diversi gruppi cominciano lottare tra loro e spesso i gruppi originari di una favela cedono il posto a gruppi invasori, colonizzatori, che non hanno alcun legame familiare, di amicizia o di lealtà con la comunità; questo aumenta il grado di arbitrio e violenza. Inoltre i trafficanti affittano le armi che non utilizzano, per massimizzarne la rendita. In questo modo si intensifica la violenza di tutte le pratiche criminali. Qualsiasi crimine, anche il più futile, viene praticato con le armi. Le armi trasformano il problema della droga in un problema di sicurezza pubblica. Nelle favelas avviene il reclutamento, l'armamento e le morti quotidiane dei giovani, di solito neri e di famiglia povera. Ma il traffico internazionale viene gestito da chi conosce le lingue e le dinamiche economiche. I giovani delle favelas, sebbene i più esposti, occupano in realtà gli ultimi gradini nella gerarchia del narcotraffico. Le loro vite spesso si interrompono prima dei 25 anni. «In Brasile - dice Luiz Eduardo Soares - ci sono 45mila vittime l'anno della violenza criminale, 27 ogni centomila abitanti; se restringiamo ai maschi giovani da 15 a 24 anni arriviamo quasi a 100 vittime ogni centomila abitanti; in alcune aree povere si arriva a 250, 300». A morire sono soprattutto i giovani neri, abitanti delle aree più povere; in quella fascia d'età esiste un deficit nella struttura demografica brasiliana che si verifica solo nelle società in guerra.

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