Bolivia: i primi 100 giorni del governo di Evo Morales
Manca ormai poco al taglio dei primi 100 giorni del governo di Evo Morales e Alvaro Garcia Linera, eletto a valanga il 18 dicembre e entrato in carica il 22 gennaio scorsi. Sono stati cento giorni difficili e, considerata la situazione della Bolivia e le attese suscitate dall'elezione a presidente della repubblica del primo indio, non poteva essere altrimenti. Evo ha sollevato, dentro e fuori il paese, speranze (e, dall'altra parte del tavolo, timori) enormi. Il suo impegno a «rifondare» la Bolivia e ad avviare una «rivoluzione culturale e democratica» richiedono ben più di 100 giorni, dopo 200 anni di apartheid anti-india e di saccheggio neo-coloniale. Il gas boliviano, l'ultima delle ricchezze rimaste al paese, è un piatto troppo succulento per pensare che potesse essere offerto (o mollato) dalle grandi compagnie transnazionali su un vassoio d'argento. Nel suo ufficio nel Palacio Quemado di La Paz dove entra ogni mattina prima delle 6, Evo ha appeso un ritratto del Che Guevara, ma lui stesso in una recente intervista ha dovuto riconoscere che lì dentro si sente «prigioniero delle leggi neo-liberiste».
La lunga attesa di cambi radicali provocano impazienze inevitabili da una parte e tentativi di destabilizzazione dall'altra, sopratutto dell'oligarchia bianca e del business internazionale.
Le proteste e gli scioperi sono cominciati presto. I primi, in febbraio, dei cocaleros (anche se non quelli del sindacato di cui Evo era il leader) che esigevano di piantare coca in una zona proibita; poi le micro-imprese tessili e i venditori di abbigliamento usato proveniente dagli Usa che si scontrano gli uni contro gli altri, ed entrambi contro il governo, a El Alto; i piloti della compagnia aerea Lab, privatizzata nei precedenti governi neo-liberisti; gli autisti degli autobus e i lavoratori della sanità... Poi le grandi compagnie, come la Repsol spagnola-argentina, che in attesa della inevitabile ma prevedibilmente prudente nuova legge di «ri-nazionalizzazione» delle risorse (soprattutto il gas), non si capacitano di non poter più fare, come hanno sempre fatto, i comodacci loro; ovvero gli organismi finanziari internazionali, come la Banca Inter-americana di sviluppo, a cui Evo è andato a chiedere la cancellazione di «una parte» del miliardo e mezzo di dollari che la Bolivia le deve ma che - udite, udite - a nome di Brasile e Messico, ha espresso le sue «riserve».
Evo, che ha il dono della pazienza e della persuasione, cerca di trattare ma già più volte è sbottato usando parole dure: «sabotaggio» a proposito dei maneggi delle multinazionali, «cospirazione» a proposito delle manovre degli «autonomisti» (o secessionisti) di Santa Cruz e delle pulsioni «avventuriste» dei settori popolari più radicali. Come il leader sindacale della Cob, Jaime Solares, che ha indetto uno sciopero generale a tempo indefinito a partire da domani contro «le inadempienze» del governo. L'obiettivo finale è convergente: la «destabilizzazione».
L'esempio più recente, che non sarà l'ultimo, è quello di Puerto Suarez, sperduta città dell'oriente boliviano nel dipartimento di Santa Cruz, proprio sul confine con il Brasile (Corumbà, nel Mato Grosso do sul, è subito di fronte), porto fluviale che dovrebbe essere lo snodo di un sempre sognato «canale bi-oceanico» connesso al sistema idrografico dei fiumi Paranà-Paraguay. A Puerto Suarez, 650 km da Santa Cruz, nel mezzo di quel miracolo ecologico a rischio che è il Pantanal e delle terre degli indios chiquitanos, da mesi una compagnia brasiliana, la MMX, e la sua filiale-fantasma cruceña, la EBX, stanno costruendo un grande impianto siderurgico fregandosene delle leggi a protezione dell'ambiente e anche della costituzione boliviana, che proibisce agli stranieri di acquisire proprietà in una fascia di 50 km dai confini. Mercoledì a Puerto Suarez sono arrivati tre ministri di Evo - Carlos Villegas, pianificazione; Celinda Sosa, sviluppo economico; Walter Villaroel, miniere - per rendersi conto de visu della situazione. Dopo insulti e spintoni, sono stati sequestrati dai facinorosi dei Comitati Civici di Puerto Suarez e di Santa Cruz che esigono dal governo l'immediata concessione dei permessi di costruzione. I tre ministri sono stati liberati all'alba di ieri da un blitz di 100 militari, mentre il vicepresidente Garcia Linera definiva il sostegno «popolare» dei cruceños alla MXX-EBX «economicamente insostenibile e politicamente immorale».
Tre mesi dopo l'insediamento e tre mesi prima del voto per la Costituente che dovrà «rifondare» la Bolivia, lo scontro si fa duro e la polirazzione incalza. Chissà se a difendere il processo iniziato il 18 dicembre basterà la riesumazione del vecchio Estado mayor del pueblo e la creazione dei nuovi Comités de defensa de la democracia.
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