La ola latinamericana arriva in Messico? Lopez Obrador prova
È arrivato il giorno, el pejesi affaccia sul gigantesco Zocalo, la piazza principale di Città del Messico che è grande come dieci campi di calcio e saluta la folla. Si chiude la campagna elettorale, domenica Andres Manuel Lopez Obrador ha un appuntamento con la storia. L'ondata di sinistra che di elezione in elezione sta conquistando l'America latina bussa alla porta del Messico ed è la decima economia del mondo quella che deve scegliere tra lui, il leader carismatico di una sinistra moderata ma pur sempre sinistra, e Felipe Calderon Hinojosa, da anni vicepresidente dell'Internazionale democristiana, l'erede dell'uomo della Coca Cola in Messico Vicente Fox, uno di destra come i latini di destra possono essere.
Lo chiamano Amlo come le sue iniziali, oppure «il pesce» perché è di Tabasco e là ce n'è tanto e strano. E' un leader carismatico appunto, un oratore. Ha fatto il sindaco di Città del Messico che è un mostruoso e meraviglioso conglomerato di milioni di anime, muri storti e pezzi di storia del paese e del mondo, e ne è uscito vivo, vegeto e con fama di buon amministratore. E' passato attraverso tutte le forche caudine della politica messicana. Ha rischiato la galera per un affare di concessioni edilizie montato ad arte dagli avversari del chiapas, ha combattuto con i grandi gruppi televisivi che lo hanno boicottato senza risparmiarsi la vergogna di una legge-regalo firmata dal presidente Fox in chiusura di mandato, ha resistito alle inchieste fantasma che apparivano e scomparivano dando letteralmente i numeri con sondaggi inesistenti ma ben pubblicizzati, ha incrociato i ferri con la Confindustria messicana che ancora adesso vuole la sua testa, è stato definito «un pericolo per il Messico» dal suo rivale Calderon e non ha ceduto un millimetro alla campagna della paura praticata dal Pan. Ed è lì a un passo dalla presidenza, da Los Pinos, quel palazzo da cui si fa e si disfa il paese.
La biografia non aiuta granchè. 53 anni, 7 tra fratelli e sorelle - di cui uno morto bambino per una pistolettata mentre giocava proprio con lui -, vedovo da 3 anni, una laurea in scienze politiche. La carriera politica dice già di più: è stato tra i fondatori del Prd, il Partido de la revolucion democratica, il primo vero tentativo di dare vita in Messico a qualcosa di diverso dall'eterno Pri, il partito che detiene il record mondiale di permanenza al potere: oltre 70 anni ininterrotti. Accadde alla fine degli anni 80, una corrente del Pri chiamata Corriente democraticalasciò il partito per provare una nuova strada. Il loro capo era Cuauhtemoc Cardenas, il figlio del generale di sinistra Lazaro Cardenas, che da presidente in divisa nazionalizzò il petrolio e salvò il paese per il successivo mezzo secolo - negli anni 90 arrivò il cosiddetto effetto tequila, la crisi finanziaria e la svalutazione del peso: solo i proventi del petrolio nazionalizzato permisero al Messico di negoziare un superprestito con gli Stati uniti. Cuauthemoc e compagni misero in piedi il Pdr, e mentre il figlio del generale iniziava una tremenda serie di elezioni presidenziali perse (tre consecutive, la prima delle quali manifestamente rubata dal corrotto priista Salinas de Gortari), «el peje»lottava nel natio stato di Tabasco, perdendo a sua volta un paio di gare per il posto di governatore. Nel 1994, mentre gli zapatisti si sollevavano in Chiapas, Lopez Obrador perse proprio contro uno dei suoi attuali sfidanti, il priista Roberto Madrazo, e la sconfitta puzzava di frode. Perché carte alla mano il tenace Amlo fece causa e andò fino a Città del Messico a dimostrare che Madrazo aveva violato ogni tetto legale di spesa (in Messico, civile paese, esistono tetti di spesa), spendendo più di quanto aveva speso un certo Bill Clinton per farsi eleggere presidente degli Stati uniti. Non servì, naturalmente. Ma Lopez Obrador era arrivato a Città del Messico e ci rimase. Come presidente del partito prima, e come sindaco di Città del Messico poi, succedendo proprio a Cuauthemoc Cardenas.
Il resto è storia recente. Cuauthemoc che cerca una quarta nomination ma non la trova e si ritira pieno di sdegno, Lopez Obrador che sconfigge tutti alle primarie, si dimette da sindaco e diventa il candidato presidente. « Coalicion por el bien de todos»è il suo cartello elettorale, « primero cumplir»,mantenere innanzitutto, il suo slogan di campagna elettorale. Uno slogan a cui stanno credendo in tanti. Classe media, delusa dal mancato cambiamento - « cambio» era lo slogan del presidente uscente Fox: poco è cambiato nel suo sessennato. Poveri, che erano già tanti ma ora sono di più. Lavoratori organizzati: una lista di 30 sindacati ha annunciato l'appoggio al pejea pochi giorni dalle elezioni, e il sindacato era una tradizionale cinghia di trasmissione del Pri. E l'economia è un buon terreno di differenze con i rivali. Per Lopez Obrador la globalizzazione è di natura politica, per i suoi sfidanti una legge economica. Amlo vuole una «globalità alternativa», dei controlli sui flussi di capitali ed è per la Tobin tax, i suoi rivali si limitano a chiedere una «migliore ripartizione» dei vantaggi del mondo globale. «Bisogna togliere il governo dalle mani di una minoranza rapace», ha detto all'ultimo comizio, prima di dirigersi verso la capitale per la chiusura della sua campagna.
Fino a qui le note buone o quasi buone. Poi ci sono quelle cattive. La prima: il Prd è diventato rapidamente una rampa di lancio per priisti riciclati. Per cercare di indebolire il vecchio partito-stato, il Prd (con l'assenso dei suoi capi, compreso Lopez Obrador) ha cominciato a reclutare transfughi a man bassa e ha avuto fin troppo successo. Deputati, senatori, governatori: tra i fuggiaschi dell'un tempo onnipotente Pri, molti sono andati a ingrassare le file del Prd, tra questi c'è anche gente che non ha le mani pulite e avrà un seggio in parlamento o uno stato da mungere ma questa volta con i colori del sole nascente, il simbolo perredista.
Secondo, Marcos. Il Subcomandante non ha mai nascosto la sua ostilità a Lopez Obrador. E' l'ostilità della prima formazione latinoamericana a intercettare quella che si è poi rivelata una intifada indigena, una sollevazione di nativi latinoamericani che ha incendiato il continente, cominciando col rovesciare governi e finendo col produrre presidenti come il boliviano Morales. Ebbene gli zapatisti, i primi a mettersi alla guida (sebbene sub, da sotto) delle rivendicazioni indigene, in Messico sono rimasti a bocca abbastanza asciutta. Niente leggi indigene, traditi o decaffeinati gli accordi firmati, svuotata la spinta della grande marcia che anni fa scese dalle selve del Chiapas fino al Zocalo capitalino, la stessa gigantesca piazza che ieri ha celebrato Andres Manuel Lopez Obrador. Nel mezzo della campagna elettorale, Marcos ha lanciato «la otra campaña», la «sua» campagna elettorale. In cui imputa a Lopez Obrador di essere il migliore dei peggiori, di praticare un realismo che a volte confina col cinismo, di tenere in scarsa considerazione le istanze di milioni di messicani poveri ma puntare su quel po' di classe media che potrebbe incrementare i consumi e con essi il prodotto interno lordo. Ce l'ha con gli intellettuali, Marcos, che in buona misura appoggiano Amlo, ma per il subcomandante sono «gente gommosa» che preferisce adottare il ruolo di firma in calce - a un appello, a un candidato, al meno peggio - piuttosto che spendersi in prima persona, «con una codardia mascherata da indolenza». Dice Sergio Rodriguez Lascano, direttore dello zapatistissimo Rebeldiae nome di riferimento del'entourage zapatista: «La otra campañaha fatto alzare la testa a moltissima gente che ormai nutre risentimento, a volte persino odio, contro i titolari di ogni potere in questo paese. Se Lopez Obrador dovesse vincere e non mantenere le promesse, o magari annacquarle, ci sono tutti gli ingredienti perché questo risentimento esploda». Non sembra che la otra campañaabbia fatto breccia nella gente, e in ogni caso molti zapatisti voteranno Lopez Obrador. Ma non si sa mai: Marcos e compagni sono già stati dati per finiti un paio di volte, e sono ancora lì.
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