Nuvole e Messico
Il delirio comincia alle otto della sera, quando il presidente dell'Istituto federale elettorale Ugalde concede ufficialmente ai mezzi di comunicazione di trasmettere proiezioni e exit poll. I seggi sono chiusi da poco, nell'ovest del paese si vota ancora. Ma salta in aria tutto.
Le due grandi televisioni Televisae Tv Aztecae il giornale El Universalparlano di «pareggio tecnico». Il primo a forzare è il portale internet di Reforma, il giornale (e progetto politico) conservatore: otto punti di vantaggio per Felipe Calderon del Pan nelle prime proiezioni, un'enormità. L'istituto di sondaggi del Prd trasmette un exit pollcon tre punti a favore del suo candidato Andres Manuel Lopez Obrador. Il candidato priistaRoberto Madrazo appare il tv con un atroce sorriso surgelato sul volto mentre il presidente del suo partito liquida i sondaggi e intima all'Istituto elettorale di non giocare con i dati, di aspettare fino a mercoledì - e chi se ne frega della borsa e dei titoli di stato. E' quasi un ordine, quello del vecchio capo del Pri. Il partito che ha fatto il Messico sa di aver perso, ma si propone come ago della bilancia. Intanto il capo della missione di osservatori della Ue Josè Salafranca si precipita alla Cnna giurare che le elezioni si sono svolte correttamente.
Sono passati solo 55 minuti e Jesus Ortega, coordinatore di campagna di Amlo, cala brutalmente l'asso di bastoni: «La maggioranza delle inchieste danno in vantaggio Lopez Obrador, invito tutti al Zocalo per le undici a festeggiare». Un altro minuto e rispondono le tv, amiche del panista: con mille seggi su 130mila, Calderon sta sette punti sopra Lopez Obrador. Con duemila seggi, sei punti e qualcosa. Con cinquemila seggi, sei punti. E avanti, ma col trucco: l'Istituto elettorale fa passare prima i seggi del nord del paese, serbatoio della destra, drogando i risultati. La sinistra riempie di sostenitori la grande piazza della capitale, la destra riempie di proiezioni favorevoli i teleschermi di tutto il Messico. E' un braccio di ferro che può diventare pericoloso.
Già non è più una questione di conteggio dei voti: è cominciato il negoziato tra i grandi, grandissimi elettori. Volano certamente milioni di pesose poltrone presenti e future, nella frenetica notte messicana. Grandi capitali, porpore, organizzazioni di massa fanno sentire il proprio peso. L'Istituto elettorale è un tavolo verde, panisti , priistie perredisti a giocarsi i numeri e la vita. Noi abbiamo vinto, cosa volete per ammetterlo. Noi abbiamo perso, cosa ci date se lo ammettiamo. Per settant'anni il Messico ha conosciuto il vincitore ancora prima di votare. Era il dedazo: il presidente uscente additava il suo successore, le urne una formalità. Questa volta è diverso, ed è uno choc.
Alle undici di sera il presidente dell'Istituto elettorale riappare in tv e scaglia la folgore: «Cifre troppo ravvicinate, non è possibile avere un vincitore, mercoledì cominicheremo i dati ufficiali». Il famoso «conteggio rapido» istituito e maneggiato da cinque scienziati demoscopici, pomposamente annunciato per settimane su tutti i giornali e le televisioni, la madre di tutti i prodotti sondaggistici, in realtà è un rottame inservibile. L'Ife si prende tutti i tre giorni di tempo che la legge gli concede per contare i voti - e concede un oceano di tempo a chi vuole vendere o comprare.
Ma Obrador non ci sta. In pochi minuti esce dalla sua stanza d'albergo, si piazza davanti alle telecamere e tuona: «Abbiamo vinto di almeno mezzo milione di voti, esigo che le istituzioni elettorali rispettino il nostro risultato. Questo risultato è irreversibile. Adesso vado al Zocalo a chiedere al Messico di difendere la sua volontà. Chiederò la costituzione di un patto nazionale che includa imprenditori, chiesa, contadini, operai, intellettuali, artisti, professionisti». Una botta tremenda, metà putsche metà grosse koalition.
Il candidato della destra Calderon, con più calma, recita il rosario delle encuestadorasche lo danno vincente, afferma di aver vinto, annuncia la convocazione di un governo di unità nazionale - pure lui - e giura che rispetterà i risultati ufficiali.
Nel frattempo Lopez Obrador è già in piazza e scalda la folla, la sua specialità: «Non ci ruberanno il risultato. Sorridete, abbiamo vinto». Era il suo slogan elettorale, chiude l'arringa tra applausi e mortaretti.
La notte procede, il Messico naufraga in un feroce scontro post-elettorale. L'Istituto elettorale continua a contare, al mattino i punti di differenza sono meno di tre, a mezzogiorno si arriva al 98% dei seggi scrutinati con un miserabile 0,8% in favore di Calderon, ma ai numeri già non crede più nessuno. La Borsa apre in rialzo, il pesosi rivaluta un po', il piccolo vantaggio di Calderon già distribuisce dividendi.
Il voto della paura ha funzionato. Tutti quegli spot della destra con Lopez Obrador come Chavez, le minacce (false) di tassare le rimesse degli emigranti, la ripetuta definizione di «pericolo per il Messico», la guerra campale dell'associzione degli imprenditori hanno fatto crescere il Pan oltre le aspettative. E il Prd ha scambiato i sogni per la realtà, credendo nei suoi stessi sondaggi. Ha vinto nella capitale, nello stato di Mexico e in quello di Veracruz, i tre stati più grandi del paese, e credeva di avere il Messico in pugno. Non era così. In parlamento il Pan è la prima forza, il Prd la seconda, il vecchio acciaccato ma inossidabile Pri solo la terza, ma è l'ago della bilancia di qualsiasi accordo politico. In Italia si chiamerebbe «politica dei due forni». In Messico, un tantino ruvidamente, si dice la «puta del mejor burdel».
Parte la stagione dei muscoli da mostrare. Non si può ancora chiamare frode, perché ne ha tutte le caratteristiche tranne una: non è detto che vinca quello che ha preso meno voti. Domani l'Istituto elettorale comunicherà un vincitore (probabilmente Calderon) e lo sconfitto deciderà se impugnare o meno il voto. Può darsi che, alla fine di giorni di conflitti, diventi presidente l'uomo che effettivamente ha preso più voti. Ma il prezzo di questa notte impazzita, il Messico lo pagherà per i prossimi sei anni.
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