La scommessa mortale di Marcos
La marcia è lunga sotto il sole, dal monumento all'indipendenza fino al grande Zocalo, la piazza centrale. Marcos cammina in mezzo a un cordone sanitario di zapatisti. Conversa con i più vicini, è muto con la stampa, supera boschetti di telecamere a ogni incrocio. Qualche slogan ( Ni Pan ni Pri ni Prd), un pugno di micidiali giovani universitari armati di bombolette (Non voto ma mi organizzo, scrivono sui muri) e la marcia zapatista arriva a destinazione.
Un atto forte, prendersi la piazza nel giorno delle elezioni. Nel 2001 Marcos aveva riempito come un uovo il Zocalo, le strade vicine e tutte le terrazze dalle quali è costume messicano munirsi di tequilae osservare con distaccata partecipazione le rivoluzioni al piano di sotto. Oggi in piazza ci sono forse diecimila persone, una macchia che si perde sull'enorme selciato. A cento metri dal Subcomandante operai lavorano allegramente al montaggio di un palco gigantesco: «E' per stasera, è per la vittoria di Lopez Obrador», dice un uomo in tuta. Lopez Obrador, «l'uovo del serpente».
Era un anno fa, e il capo zapatista uscì con un lunghissimo articolo a puntate. Sosteneva che la globalizzazione sta cercando di ricostruire gli stati-nazione in crisi, come strumenti definitivi di oppressione dei più poveri, degli indigeni, di ogni inconforme del paese e anche più in là. E tra i candidati alle presidenziali, quello di centrosinistra Andres Manuel Lopez Obrador era pericoloso come gli altri, era l' «uovo del serpente».
Fu la rottura con il centrosinistra, e una rottura brutale. Mentre pacchi di attivisti e intellettuali - tra i quali molti simpatizzanti dell'Esercito zapatista - si univano alla campagna di Lopez Obrador, Marcos non perdeva occasione di criticarlo con durezza. Domenica, la grande piazza di Città del Messico ha visualizzato il saldo di questo anno di tremenda campagna elettorale: accanto all'uomo col passamontagna sono rimaste poche migliaia di persone. Venti, trenta, cinquanta volte meno di quella grande marcia che contro ogni previsione rilanciò l'Ezln e il suo uomo-simbolo.
«Questa ristrutturazione degli stati nazione, tutta nel quadro della globalizzazione, è la minaccia più importante per i movimenti sociali e ribelli in generale, insieme alla voracità delle grandi imprese transnazionali. Questo nuovo stato è un iceberg con due punte: il Brasile di Lula e la proposta di sinistra parlamentare e istituzionale di Lopez Obrador». A due settimane dalle elezioni Sergio Rodriguez, il direttore del giornale zapatista Rebeldia, firma una lunga intervista a Marcos. In cui Amlo diventa «il» nemico.
L'intervista pianifica, articola, spiega. La via di fuga dalla trappola statal-globale? «L'organizzazione. Unire tutti quelli che la pensano come noi. Non è la "nostra" opportunità, ma è l'ultima opportunità che abiamo tutti quanti». Gli intellettuali che stanno con Lopez Obrador? «Chiedono che il potere faccia loro caso, e si accontentano di molto poco». I rapporti di forze? «Me cago en la correlacion de fuerzas», me ne fotto. E avanti così, mantenendo lo sfruttamento della forza-lavoro come centro del modello (molto marxista classico, ma solo in questo) e giocando una scommessa: mettere insieme tutto ciò che resta fuori dalla proposta del centrosinistra ufficiale.
E' una scommessa per la vita e per la morte. In questo anno tremendo gli zapatisti hanno girato il Messico stato per stato, proprio come Lopez Obrador (con altri mezzi, naturalmente). Venti dei 32 stati messicani sono stati percorsi dalla « otra campaña» mettendo insieme indigeni vessati, operai delle maquiladoras, maestri infuriati, studenti, femministe, omosessuali. Hanno ottenuto copertura (non appoggio) solo dal quotidiano La Jornadache è come il manifestoma tre o quattro volte più grande. E hanno rimediato una manica di fischi da tutta l'intellighenzia progressista che stava saldamente con gli zapatisti ma ha votato Lopez Obrador per questioni di speranza, rapporti di forza, possibilità, anche opportunismo. Scrittori, docenti universitari, giornalisti, in molti hanno fatto le valigie.
E Marcos resta con un pugno di sigle e di organizzazioni. Ciò che rimane del partito comunista gli porta in piazza inquietanti bandieroni di Stalin. Ciò che rimane della Quarta internazionale si è praticamente sciolto nel movimento zapatista. Della sua gigantesca piazza non resiste altro che un manipolo di uomini e donne, i resistenti di una intifadaindigena che Marcos ha scoperto per primo, ma che altrove ha ormai prodotto governi e presidenti. Gli ultimi zapatisti sono combattivi, generosi, marginali, ma almeno ora possiedono l'embrione di un'organizzazione in buona parte del paese. Scommettono sul naufragio di Lopez Obrador, soprattutto se sarà presidente. Se fallirà, vorrà dire che il Messico non avrà avuto un decente governo di centrosinistra, oppure avrà subìto un normale, rapace governo di destra. E l'unico che se ne era accorto sarà stato Marcos.
Non è la prima scommessa mortale del Subcomandante. Ma forse è l'ultima.
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