L’ombra della strage di Tlatelolco sulle elezioni messicane
Un burocrate accusato di genocidio. Per la prima volta nella storia del Messico un ex presidente della repubblica è stato arrestato. Luis Echeverria, grigissimo capo di Stato eletto nel 1970 dopo una carriera politica consumata dietro le quinte della destra del partito rivoluzionario istituzionale tra vecchi caudillos e militari smaniosi, è ai domiciliari dalla notte di venerdì. L’accusa è di aver partecipato alla strage della piazza delle Tre culture, il massacro di studenti che segnò l’inizio del ’68 messicano.
All’epoca Echeverria, ora ottantaquattrenne, era ministro degli interni del presidente Diaz Ordaz. E quella brutale repressione fu l’unico avvenimento degno di nota della sua storia politica. Austero, discreto, sempre elegante l’ex presidente - che non fuma, non beve e per atteggiamento e postura somiglia molto più a un funzionario britannico che a un “cacique” latino - è l’emblema nazionale della burocrazia al potere. La sua diretta responsabilità nel massacro di Tlatelolco non è mai stata provata. Eppure fu proprio grazie alle convulse conseguenze politiche di quella strage che Echeverria riuscì a far fuori, uno a uno, i suoi avversari nel Pri e a spianarsi la strada per la presidenza.
Tutto avvenne nella notte tra il 2 e il 3 di ottobre del 1968, mentre nella piazza delle Tre culture di Tlatelolco, quartiere centrale della capitale era in corso una manifestazione di universitarii.
Esisteva in Messico già da decenni una lunga storia di attivismo studentesco. La repressione dei movimenti non era mai stata brutale. Fino a quel giorno i conflitti erano stati risolti o con l’utilizzo relativamente contenuto della polizia (nelle proteste negli stati federali di Guerrero, Morelia, Sonora, ma mai nel Distretto federale) o con la cacciata del rettore. Sia le autorità, sia gli studenti, accettavano come comuni regole del gioco una serie di limiti e di codici che nessuna delle due parti aveva mai trasgredito.
La tensione era cominciata a crescere nel luglio del ’68, quando la polizia aveva disperso affollate manifestazioni di studenti filocastristi. Gli iscritti all’Unam (la gigantesca università pubblica centrale di Città del Messico) diffusero un documento in cui chiedevano lo scioglimento dei gruppi speciali antiguerriglia urbana e la cancellazione della “legge antisovversiva” che limitava la libertà di associazione. La minaccia brandita dall’Unam era lo sciopero generale. Il governo reagì con insolita durezza chiudendo d’autorità tutte le istituzioni relazionate all’Università. Due giorni dopo la diffuzione delle richieste studentesche la polizia entrò nella sede occupata dell’Istituto di Belle Arti, arrestò settanta persone e sparò contro la sede della scuola preuniversitaria di San Idelfonso in cui erano barricate centinaia di studenti. Fu quello che passò alla storia come “il Bakukazo”.
Il primo agosto il presidente Diaz Ordaz pronunciò un discorso pubblico in cui offrì «una mano tesa» agli scioperanti, ma la situazione stava già precipitando.
Il rettore dell’Unam, Javier Barros Serra, si mise alla testa di um corteo di centomila persone protestando contro l’intervento della polizia e denunciando la violazione delle antiche tradizioni di autonomia universitaria. Da quel giorno le manifestazioni si moltiplicarono in um crescendo di cortei, lungo l’imponente Paseo de la Reforma. Cento, trecento, cinquecentomila persone. Città del Messico si preparava ad ospitare i giochi olimpici. Il governo mostrava segni di nervosismo. Diaz Ordaz il primo di settembre accusò gli studenti di cospirare contro la patria. Dieci giorni dopo il Senato autorizzò il presidente a spedire in strada le forze armate «in difesa della sicurezza interna».
Fu allora che gli studenti convocarono un’assemblea a Tlatelolco per la notte del 2 ottobre. La piazza delle Tre culture era stracolma. Improvvisamente agenti di sicurezza in guanti bianchi sciolsero i cordoni e fecero entrare decine di poliziotti che aprirono il fuoco sulla folla. Testimoni raccontarono di una pioggia di proiettili dai tetti. I documenti ufficiali parlano di trentanove morti (e di quelli Echevarria è oggi chiamato a rispondere) ma il corrispondente del New York Times che rimase fino alla fine nella piazza calcolò almeno duecento cadaveri.
Fu la «noche triste», la data di nascita dei movimenti armati che negli anni successivi divorarono la storia politica messicana dopo aver assistito rabbiosi alle Olimpiadi più politicizzate della storia (quelle del pugno alzato col guanto nero sul podio). Su quel sangue nacque il gruppo armato Liga 23 septiembre e i movimenti guerriglieri che poi si rifugirono nelle montagne del sud est. Il leader più conosciuto di quest’epoca fu Lucio Cabanas che con il suo gruppo sequestrò il governatore dello Stato del Guerrero. Fu il primo clamoroso rapimento politico, risolto brutalmente dall’esercito nel 1974.
La strage di Tlatelolco segnò il divorzio degli intellettuali messicani dal regime. Dopo la rivoluzione del 1910 molti artisti e scrittori si erano offerti di collaborare com le istituzioni statali. Riconoscendo tacitamente il loro ruolo prezioso, i governi postrivoluzionari avevano continuato a coltivare questi contatti riservando a personaggi anche critici incarichi pubblici a titolo onorario. I fatti di Tlatelolco spezzarono questo antico patto. Gli scrittori Octavio Paz e Carlos Fuentes denunciarono la repressione e contestarono duramente la legittimità del governo. Le università, fino ad allora culla della classe dirigente, si radicalizzorono rapidamente e divennero le fortezze della guerriglia. Si sancì definitivamente il divorzio tra il Pri e la sua antica orgine rivoluzionaria. E l’Unam divenne «zona autonoma» nel senso di separata. Una separatezza mantenuta nei decenni. Tanto che oggi, circolando per i viali alberati dell’ateneo della più prestigiosa istituzione culturale messicana, non si trova segno della campagna politica per le elezioni presidenziali di oggi, quelle in cui per la prima volta potrebbe andare al governo la sinistra del Partito rivoluzionario democratico. Nessuno dei candidati ha messo piede qui dentro. Le scritte sui muri invitano all’astensione, al boicottaggio del voto. All’ingresso di scienze politiche, una volta laboratorio della sinistra progressista, campeggia un grande lenzuolo bianco con una scritta spray: “non convalidare il sistema, diserta le urne”.
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