Latina

Indigenismo. Risorsa o deriva dell'America Latina?

Gli indios sono tra i protagonisti del risveglio democratico del continente. Ma i politici che parlano in loro nome corrono il rischio di definire la cittadinanza e i diritti solo in termini di appartenenza "alla terra e alla comunità"
4 luglio 2006
Alessandro Fioroni
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)

«L’America Latina non vuole né ha motivo di essere un alfiere senza volontà, e non c’è nulla di utopistico nel fatto che l’aspirazione alla propria indipendenza e alla propria originalità diventino anche un’aspirazione occidentale. Perché quell’originalità, che ci ammette senza riserve nella letteratura, provoca tanti sospetti e ci nega i difficili tentativi di cambiamento sociale?». In questo passo tratto da La solitudine dell’America Latina di Gabriel Garcia Marquez è contenuto forse il nucleo dei mutamenti che stanno attraversando quasi tutto il continente latinoamericano. L’aspirazione al cambiamento, legata ad un’originalità di esperienze storiche, si sta dispiegando con una molteplicità di forme. Si è assistito al cambio di governi e ad un nuovo protagonismo dei movimenti sociali, l’America Latina pare virare a sinistra anche se la realtà è molto più complessa. Nel 2002 ben il 45% dei latinoamericani interrogati sulla loro appartenenza politica, si dichiaravano di destra, ma ben il 30% esitava nel definirsi con precisione.
In questi ultimi anni infatti due sono stati gli elementi capaci di provocare importanti rivolgimenti. Con la fine della Guerra fredda è venuto meno il ruolo coperto dalle dittature militari che hanno caratterizzato gli anni ’60 e ’70 e anche l’appoggio degli Stati Uniti a queste esperienze è andato man mano scemando. L’avvento della vulgata neoliberista, seppur arrivata in un contesto di energie politico-sociali liberate e di regimi più o meno democratici, ha determinato l’attuale sistema di sfruttamento economico sostituendo l’oppressione militare con la creazione di società oligarchiche che escludono in larga parte le fasce povere del continente. La privatizzazione degli spazi pubblici consigliata dalle ricette del Fondo Monetario Internazionale e l’azione delle multinazionali occidentali ha sconvolto territori ed anime, costruendo però le condizioni per nuove forme di opposizione sociale.

Si tratta di quella che alcuni autorevoli commentatori latinoamericani chiamano la “seconda guerra fredda”, la lotta tra i poveri della terra e i pochi ricchi del mondo. «Le grandi fortune contenute in poche mani sono come l’acqua che non bagna la terra» afferma Mariano Moreno, uno dei protagonisti di Memoria del Fuoco di Eduardo Galeano: la sete di giustizia ha così dato luogo all’irruzione sulla scena politica dei popoli indigeni.

Solo in Bolivia gli indios sono il 60% della popolazione, in altri paesi le percentuali variano ma non cambia la loro condizione di contadini poveri o di abitanti delle favelas delle sterminate megalopoli del continente. L’indigenismo si è costituito così come un atto di resistenza, concretizzandosi nella rivendicazione letterale di “diritti umani”, istruzione, salute, pari opportunità, difesa dell’ambiente in cui si vive. Accanto alla semplicità delle richieste è andata via via definendosi l’idea di “popolo indigeno”, la consapevolezza di un’identità che proprio la dominazione economica neo-coloniale ha tentato di disperdere. Il recupero della memoria collettiva ha costituito altresì la difesa di pratiche sociali collettive e l’indicazione per diverse forme democratiche di
partecipazione. Quell’originalità di cui parla Garcia Marquez ha portato i movimenti indigeni a influenzare pesantemente le classiche categorie marxiste, peraltro già uscite malconcie dalla fine dell’universo socialista reale, facendo balenare diversi orizzonti per il concetto di liberazione.

L’informazione occidentale considera spesso le figure di Ugo Chavez o Evo Morales come una riedizione del tradizionale populismo latinoamericano, questa volta sostenuto da una strumentale retorica del recupero delle radici, o come la realizzazione di un sogno anti-yankee ormai affievolito nel resto della sinistra internazionale. Una dicotomia che male si attaglia all’esperienza attuale. In latinoamerica il populismo rappresenta infatti la presenza delle grandi masse sulla scena politica sia pure all’interno di una caratterizzazione nazionalista. La riappropiazione di risorse come il petrolio o gli idrocarburi oltre ad una misura redistributiva può essere considerata anche come la riconquista di un’identita nazionale sopita dal passato coloniale. In realtà l’indigenismo appare in questo caso come un paradigma della postmodernità. L’esempio della Cuba di Castro è quello di un’isola imprigionata nell’eredità del conflitto Usa-Urss, un retaggio della modernità caratterizzato da un confronto politico-militare antitetico e, sebbene Chavez venga frequentemente apparenatato al lider maximo cubano, i processi attualmente in corso in Venezuela sono totalmente differenti. Mentre si procede alle nazionalizzazioni, contemporaneamente non viene messa in discussione la proprietà privata, l’uso della ricchezza petrolifera è mirato alla creazione di un nucleo di welfare state prima inesistente e non alla completa espropiazione delle ricchezze personali. La stessa Bolivia di Morales, che ha rotto lo schema escludente nei confronti delle masse povere indigene proiettando queste ultime al governo del paese, reclama giustamente il completo sfruttamento delle proprie ricchezze naturali ma nello stesso momento vuole rinegoziare i contratti con le grandi multinazionali straniere.

Il pericolo di un’involuzione è però sempre dietro l’angolo, il rischio che il populismo si trasformi in demagogia nazionalista si accompagna ad uno scivolamento verso la ri-militarizzazione della società così come il vacuo ritorno a impossibili epoche passate può determinare un’etnicizzazione della politica. Il caso peruviano è emblematico e si condensa nella figura di Ollanta Humala, un ex militare ribellatosi a Fujiimori che ha raccolto molti consensi attraverso la dottrina definita etno-cacerismo in onore di Andrés Cáceres, l’eroe peruviano che combatté sulle Ande contro l’esercito cileno durante la guerra del Pacifico del 1879. Alejandro Bermúdez, direttore dell’agenzia cattolica Aciprensa, ha messo in evidenza alcune dichiarazioni di Humala che afferma: «i razzialmente meticci o indigeni sono i veri peruviani, mentre le persone di razza bianca, i giapponesi, i cinesi o i neri sono solo persone con la cittadinanza». In realtà Humala fa leva sulla frustrazione indigena delle campagne, mentre non gode dello stesso sostegno a Lima - i cui abitanti rappresentano un terzo del paese - promettendo la riconquista di risorse e incarnando il conflitto tra contadini poveri e piccola borghesia. Propone dunque una rivincita dei nativi che passerebbe per una nuova esclusione. L’America latina sta andando veramente a sinistra?

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