Gli occhi di un ragazzo nella sala degli orrori
Trentatré anni dopo il colpo di stato in Cile, l’11 settembre 1973, voglio scegliere un’immagine rappresentativa di quei momenti; di quei giorni quasi dimenticati da altre tragedie più recenti ed altrettanto terribili. Scelgo gli occhi. Non quella degli oggetti su cui volgono lo sguardo. Solo gli occhi. E’ quella l’immagine ricorrente, oggi dopo altre latitudini; altre voci che arrivano da lontano sussurrando ricordi.
Oggi, mi augurerei, l’evocare con la parola. Per riflettere, con le parole dei vecchi; oggi dopo tanto tempo, vorrei raccontare, come chi sceglie le parole alla luce di una candela; anche se mi manca la mia lingua materna. Vorrei il suono della voce.
Trentatré anni dopo, non è il rumore degli elicotteri; non è il sibilo delle pallottole, né l’abbraccio tiepido del sole durante l’attraversamento di quello spiazzo per arrivare al portone di uscita del carcere. Sono gli occhi di quel ragazzo che ho visto solo per pochi secondi di luce nella sala degli orrori, quasi un bambino. Gli occhi della gente per la strada con la paura di non arrivare a casa prima del coprifuoco. Sono gli occhi dei carcerieri, che ti vengono a prendere per portarti all’interrogatorio, alla tortura; occhi appena visibili sopra il fazzoletto nero per coprire la codardia.
La strada è quasi deserta; sto rientrando a casa in macchina con apprensione sotto un cielo plumbeo e silenzioso. Lungo la strada che collega Valparaìso a Vigna del Mar incrocio parecchi camion della marina militare. E’ il 10 di settembre del 1973. Sono le otto di sera. Scendo dalla periferia dove sono gli studios della televisione: ho appena curato la regia di un programma televisivo in diretta. Un gruppo folk nordamericano ha cantato ed ha ironizzato sul Cile e sul suo governo. Sinistre insinuazioni di chi è al corrente di quello che sta per accadere. Banjo, chitarre e ridicoli sombreros e maracas. Sono gli occhi dell’arroganza.
La regia mi è stata affidata come una specie di punizione per la mia militanza politica. Il gruppo musicale appartiene alla flotta del Pacifico degli Stati Uniti d’America che è nel porto di Valparaìso ufficialmente per partecipare alla Operazione Unitas. Ma il loro compito, domani, sarà un altro. Dal silenzio delle cuffie che mi collegano a cameramen e assistenti colgo la tensione che invade lo studio, la regia. Dal di là del vetro due occhi mi fissano: sono quelli di un mio collega e compagno direttore della fotografia. Sono i primi occhi della paura.
Qualche sera mi trattengo con un gruppo di operai di una piccola industria non molto lontano da casa. Il proprietario l’aveva abbandonata; gli operai l’hanno occupata e in poco tempo hanno raddoppiato la produzione. Da varie settimane custodiscono la mia macchina durante la notte dopo interminabili conversazioni, al calore di un fuoco e di qualche bicchiere di vino.
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