Lula contro Opus Dei, sfida senza incertezze
Il primo gennaio del 2003, poco meno di quattro anni fa, fu un giorno indimenticabile per il Brasile e l'America latina. Salendo la rampa del palazzo presidenziale del Planaltoa Brasilia, la capitale realizzata 43 anni prima dal genio visionario di Oscar Niemeyer e Lucio Costa, Luiz Inacio Lula da Silva, l'ex migrante nordestino senza una laurea e senza un mignolo, lasciato sotto una pressa quando da ragazzo lavorava in fabbrica a San Paolo, disse: «Io non sono il risultato di un'elezione. Sono il risultato di una storia, sono il sogno di una generazione e delle generazioni che sono venute prima della mia». In cima alla rampa lo aspettava Fernando Henrique Cardoso, il suo predecessore, per passargli la fascia verde-oro e quel passaggio simboleggiò, antropologicamente ancor prima che politicamente, l'entrata " do povo no poder". Per la prima volta in 500 anni era il Brasile «dei da Silva» che cominciava, anzi nasceva, uno dei milioni e milioni di portatori di quel comunissimo cognome di estrazione popolare - un Rossi, uno Smith. Era il Brasile della " mudança", del cambio, la chiave del trionfo elettorale di Lula di due mesi prima. Il Brasile della «speranza che ha vinto la paura».
Un nuovo inizio. Ma anche una fine. Perché allo stesso tempo era - o sembrava potesse essere - la fine del Brasile " Belindia", l'esplosiva miscela di un Brasile piccolo e ricco come il Belgio con un Brasile grande e miserabile come l'India.
Ma prima di tutto, salire quella rampa era - o sembrava potesse essere - l'inizio della fine del neo-liberismo indiscriminato e nefasto degli ultimi 30 anni in America latina e degli ultimi 8 anni nel Brasile di Cardoso, il famoso sociologo «socialdemocratico» divenuto per due volte presidente, che si era lasciato alle spalle un paese economicamente e socialmente devastato. Con dietro l'angolo il fantasma della bancarotta, come quella in cui era sprofondata l'Argentina solo un anno prima.
Domani si vota qui in Brasile. Il presidente della repubblica, i 503 deputati della Camera, un terzo degli 81 senatori, i governatori e deputati dei 27 stati dell'Unione. Tutto lascia credere che Lula vincerà di nuovo, fin da domani sera, quando si cominceranno a conoscere i risultati, o il 29 ottobre, nel caso debba andare al ballottaggio con il suo principale avversario, il «socialdemocratico» Geraldo Alkmin, ex-governatore dello stato di San Paolo e grigissimo uomo dell'Opus Dei.
L'unica incertezza della vigilia di una campagna smorta e senza gli entusiasmi del 2002, è vedere se e quale sarà l'impatto dell'ultimo scandalo scoppiato una quindicina di giorni fa e dell'inattesa rinuncia di Lula a partecipare, giovedì sera, anche all'ultimo dibattito televisivo con Alkmin e gli altri due principali (seppur distanziatissimi) concorrenti - entrambi ex del Pt, la pasionariaradicale Heloisa Helena, senatrice espulsa dal partito, e il più moderato Cristovam Buarque, andatosene dopo essere stato dimesso da ministro dell'educazione. Per alcuni, come i media ostili (tutti i principali) e Heloisa è stato un gesto di «arroganza e codardia politica», per altri un colpo da maestro per evitare di darsi in pasto alle iene che l'aspettavano solo per inchiodarlo sulla croce degli scandali.
Accuse che, per quanto spesso provate, si riferiscono a volte a vecchie storiacce dei tempi di Cardoso e che, secondo Lula e il Pt, non sono altro che parte di una «campagna golpista» per rendere impossibile e infine espellere il primo governo «popolare» nella storia del paese.
Con Cardoso, quando impazzava anche in Brasile l'orgia delle privatizzazioni, corruzione e ruberie miliardarie erano state il pane quotidiano. All'inizio della campagna del 2002, il candidato Lula aveva anche minacciato, una volta eletto, di aprire gli armadi e sollevare i tappeti. Poi però era prevalsa l'opinione dei suoi " image makers" che gli consigliavano di assumere le vesti anziché del vecchio " sapo barbudo", il rospo barbuto perennemente incazzato, del " Lulinha paz y amor".
Gli innumerevoli scandali di corruzione e malaffare che hanno colpito il governo e il Partido dos trabalhadoressono stati un fatto gravissimo, perché Lula e il Pt prima ancora che essere di sinistra erano l'uomo e il partito «dell'etica». Che dovevano rinnovare la politica e il suo diffuso malcostume e invece hanno mostrato di aver appreso subito la vecchia lezione di sempre, adeguandosi e mettendola in pratica. Lula ha perso per strada alcuni degli uomini più vicini: i ministri José Dirceu, l'uomo che cercava di tenere la barra del timone a sinistra, e Antonio Palocci, l'ex trotzkista che era diventato il guru dell'ortodossia (e della continuità) economica; i presidenti del partito José Genoino, l'ex guerrigliero convertitosi al migliorismo social-liberale, e il suo successore, Ricardo Benzoini, che era anche il capo della campagna elettorale del presidente.
Poteva andare anche peggio. Perché nel momento più duro, la seconda metà del 2005, l'opposizione, quella «socialdemocratica» del Psdb prima di tutto, non se l'è sentita di andare fino in fondo e chiedere l' impeachmentdi Lula.
L'economia in questi quattro anni ha ripreso a marciare, anche se la crescita è sempre troppo fievole a causa del rigore imposto dall'Fmi e pienamente accettato dal ministro Palocci (una volta definito da Lula addirittura il suo Ronaldinho). Le banche non hanno mai fatto tanti profitti. Le imposte, peraltro largamente evase, non sono aumentate e l'inflazione si è molto ridotta. Alla fine del 2002, con la prospettiva di un governo di sinistra, il dollaro valeva 3 reaise mezzo, oggi non tocca i 2 dollari e 2.
La destra vecchia e nuova decise allora che era meglio lasciar fuori Lula dal gioco al massacro ma di fargli il vuoto intorno, cercando di impedirgli la rielezione e poi, quando anche questo si è rivelato un sogno, rassegnandosi a rinviare la rivincita al 2010 (questo spiega anche la scelta di un candidato insignificante come Alkmin). Con effetti a volte comici. Come quando Cardoso parlando del Lula-economico diceva: «il suo governo imita il mio» e parlando, giorni fa, del Lula-politico blaterava: «è un demonio e dobbiamo cacciarlo».
Lula non è una santo, se non per gli esclusi di sempre, e non è un demonio. Gli scandali l'hanno lambito senza toccarlo (anche se francamente è difficile credere che lui non sapesse niente dei maneggi dei suoi uomini più vicini), le classi medie urbane, che nel 2002 avevano votato a valanga per lui, gli hanno voltato le spalle con un senso di disincanto rabbioso e i settori più radicali della sinistra lo considerano un traditore, ma per le grandi masse povere del nord-est è diventato un'icona . Nel Brasile delle diseguaglianze, secondo una statistica pubblicata dalla rivista Veja, i poveri rappresentano l'82% dell'elettorato, la classe media il 12.5% e i ricchi il 5.5%. In questi numeri sta la ragione per cui Lula tornerà a vincere.
Quasi quattro anni dopo quel memorabile insediamento a Brasilia, il Brasile è cambiato. Non è stato l'inizio della fine del neo-liberismo e neanche il trionfo dell'etica nella politica, come in molti speravano. Ma il Brasile di Lula non è più quello di Cardoso e di Sarney.
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