Latina

Sulle orme della rivoluzione

CHIAPAS. L' Enigma di Marcos il Ribelle Sfuggente che fa Summit in Città

22 ottobre 2006
Ettore Mo
Fonte: Il Corriere della Sera (http://www.corriere.it)

SAN CRISTÓBAL DE LAS CASAS (Chiapas, Messico) - Nella galleria dei personaggi che negli ultimi decenni hanno acquisito notorietà e prestigio quali leader di movimenti rivoluzionari e lotta armata in varie parti del mondo, il subcomandante Marcos, capo degli zapatisti nello Stato del Chiapas, in Messico, continua a rimanere una figura enigmatica: anzi, come qualcuno ha suggerito scomodando la fantascienza, lo si potrebbe definire l' Ufo vagante del Centro America. E certo lui stesso ha fatto e sta facendo di tutto per confermare questa immagine di Unidentified Flying Object. Per i cronisti e fotoreporter non è facile incrociarlo; e, se per caso succede, è ancora più difficile inchiodarlo per pochi istanti e fargli scucire dalle labbra perennemente sigillate sulla pipa (quasi sempre spenta) un paio di monosillabi. Ci si chiede se qualcuno l'ha mai visto ridere o sorridere. Il mistero è rafforzato dal passamontagna che lascia scoperti solo gli occhi e la bocca e che probabilmente si toglie solo la notte quando va a dormire in una delle sue cucce nel buio della foresta. Impossibile seguirlo nei suoi spostamenti, decisi all'ultimo, improvvisati e repentini: e se per caso ti capita di raggiungere il pueblo dove è stato segnalato, quando arrivi sul posto già non c'è più, s'è dileguato come un fantasma tra le montagne e la distanza da chi lo insegue si misura in chilometri. È stata perciò una fortuna poterlo avvistare a Città del Messico, dov'era giunto da San Cristòbal viaggiando tutta la notte con una carovana di nove macchine stipate dai suoi fedelissimi, vertici del movimento e del servizio di sicurezza, il meglio dello guardie del corpo lo zoccolo duro dei «die hard», i duri a morire dell'Ezln, l'esercito zapatista di liberazione nazionale. L'appuntamento nella capitale è cosa di ordinaria amministrazione. In un cortile frequentato dagli zapatisti urbani, il subcomandante e i suoi vice (tra cui quattro soldatesse, tutti incappucciati e funerei, vestiti rigorosamente di nero) fanno il punto sulla situazione. Ma si ha l'impressione che leggano un consuntivo aziendale. Lo spirito rivoluzionario si esaurisce sulle magliette dei ragazzi dov'è stampata l'immagine del Che o sull'epidermide delle fanciulle con la stella rossa tatuata sulla pancia e infine in qualche slogan tracciato che recita vecchie litanie del tipo «luchar vencer y el pueblo al poder». Non sorprende che alla figura di Marcos vengano attribuiti, da parte dei giovani soprattutto, i tratti eroici e carismatici di Ernesto «Che» Guevara, anche se, fortunatamente, le turbolenze socio-politiche del Chiapas non sono tanto gravi da lasciar prevedere, per il subcomandante, un destino così ferale come quello che ha visto spegnersi l'esistenza del guerrigliero argentino nella piccola scuola di Las Higueras, in Bolivia. Non diversamente dal «Che», anche Marcos era nato in un'agiata famiglia borghese, studi regolari al liceo o all'università, brillante professionista inseguito dalle pulzelle della meglio società (così almeno raccontano). Ma alla fine, disgustato da quella vita effimera, aveva cominciato a guardare dentro e fuori di sè e tutto il suo interesse s'era concentrato sulla generosa e belligerante parabola del mitico Emiliano Zapata e sulle centinaia di migliaia di Indios messicani discriminati ed emarginati che morivano di fame. La sua militanza comincia nei primi anni Ottanta nella sterminata Selva Lacandona (nel Sudest del Messico) da dove partono le prime dichiarazioni di guerra al governo di Città del Messico da parte della popolazione indigena che esige il rispetto dei propri diritti e la possibilità di eleggere governi autonomi. Ed è proprio in quella boscaglia che il 17 novembre del 1983 viene fondato l'Esercito zapatista di Liberazione Nazionale. Non c'era nulla che i governi federali d'allora (presieduti dai Salinas, dagli Zedillo e dai Fox) potessero fare per impedirlo. Per gli indios che si riunivano e s'addestravano nei remoti accampamenti di «Zapata» o di «Puma» o in quelli di «Rosita» o dell' «Agua Fria», la capitale federale era una nozione astratta, remota, totalmente estranea al loro mondo. Non trovi risposta o trovi risposta disparata se chiedi quando Marcos sia approdato la prima volta sulla pubblica scena col famoso passamontagna. Uno dei tanti compañeros o guardie del corpo dei primi anni di «macchia», Raul, racconta di averlo incontrato nell'85, nell'accampamento «El Maleficio»: «Lo trovai molto stanco - dice frugando in quella vaga reminiscenza - ma la cosa è più che comprensibile. Come tutti noi, anche il jefe doveva fare la strada a piedi. Ed erano camminate di chilometri, spesso su sentieri e valichi di montagna molto ripidi che neanche i muli...». Altri ricordano che prima di diventare il subcomandante i guerriglieri lo chiamavano capitano o che la gente gli faceva festa quando piombava nei villaggi con la scorta armata e le senõritas stavano su a ballare tutta la notte. L'impressione che si ricava è che, nonostante il suo riserbo aristocratico, godesse di una grande simpatia tra i contadini, ai quali piaceva «mascherato». Se ne ebbe definitiva conferma nell'agosto del 1994 in località Aguascalientes quando chiese a una folla di cinquemila persone se volessero che si togliesse il passamontagna: «Se lo volete - disse - lo faccio subito, in questo istante». La risposta fu un urlo di cinquemila bocche: no no noooo. E la leggenda continua. Non c'è dubbio che la spinta intellettuale e gli ideali rivoluzionari del giovane Marcos siano stati confermati e rinvigoriti dall'esperienza fatta nella Selva Lacandona, a contatto diretto col mondo contadino. Lo sottolinea con un giudizio illuminante Andrés Aubry, uno storico di origine francese che vive nel Chiapas da trent'anni: «È sbagliato sostenere che il Movimento zapatista si identifichi con Marcos e che sia stato lui a originarlo - dice scegliendo minuziosamente le parole - ed è stato lui stesso il primo a metterlo in evidenza attribuendosi il grado modesto di subcomandante. Negli anni, il Movimento si è andato radicalizzando. Per gli zapatisti, il nemico non è il governo federale di Mexico City, è il sistema, antico, obsoleto che va cambiato non solo nel nostro Paese ma nel mondo intero. E questo, Marcos lo ha capito molto bene. È vissuto per 22 anni nella Selva. È un uomo limpido, non è avido, non è corrotto, non si è arricchito. Tutto l' opposto di tanti nostri politici con le chiappe incatramate sulle sedie del potere». È l'alba del primo gennaio del 1994 quando l' Esercito zapatista, che ha dichiarato guerra al governo federale del Messico, muove all'assalto di San Cristobal de las Casas e di altre città del Chiapas. E quell'esaltante capitolo della storia messicana ci venne raccontato nei dettagli dal corrispondente del Manifesto, Gianni Proiettis, che ebbe pure il privilegio di fare un'intervista a botta calda al subcomandante, coperto di polvere: «È uno dei pochi a viso coperto - così attaccò il suo scoop il 3 gennaio '94 - e armato con una mitraglietta. L'unico non indio. Mentre parla, tira fuori dalla tasca una pipa, l'infila nell' apertura del passamontagna ma non l'accende... Una ragazza, anche lei con passamontagna nero e gli occhi da giapponese, gli sta accanto per tutta l'intervista». Pane e Educazione I motivi dell'intervento armato e, soprattutto gli obiettivi dei ribelli di quel lontano gennaio sono validi tutt'oggi: «Noi esigiamo - disse allora Marcos - che si risolvano le principali richieste dei campesinos del Chiapas: pane, salute, educazione, autonomia e pace. Gli indios hanno sempre vissuto in guerra perché fino a oggi la guerra è sempre stata contro di loro mentre ora sarà sia per gli indios che per i bianchi. In tutti i casi avranno l'opportunità di morire combattendo e non di diarrea, come muoiono normalmente gli indios chiapanechi». Non sono stato in grado di verificare se sia calato nel tempo il dato statistico fornito allora secondo cui 15 mila indigeni muoiono ogni anno in Messico per malattie curabili e non vittime di devastanti epidemie. L'obiettivo degli zapatisti, continua a insistere Marcos, non è «la guerriglia ad oltranza» ma la mobilitazione della società civile perché si ponga rimedio con «mezzi pacifici» alle lacune e inadeguatezze che provocano disagio. «Quello zapatista - spiega facendo ricorso alla sua lunga esperienza episcopale Monsignor Samuel Ruiz Garcia, per molti anni vescovo a San Cristobal - è un movimento atipico nell'America Latina: in quanto non include tra i suoi obiettivi la presa del potere e di conseguenza l'annientamento, con la forza, del governo in carica. Noi, del corpo ecclesiastico e sacerdotale, abbiamo sempre fatto da mediatori tra le forze opposte perché si trovi un'intesa pacifica. La nostra missione evangelizzatrice sta dando buoni risultati: abbiamo 18 mila catechisti indigeni e 242 diaconi». Non è poco in un Paese che nel primo decennio del secolo scorso ha assistito, come racconta magistralmente Graham Green nel suo famoso e angosciante romanzo The power and the Glory, alla sanguinosa persecuzione del clero. Come aveva detto nella sua prima dichiarazione dalla Selva Lacandona nei giorni dell'attacco a San Cristobal, la guerra (cioè la lotta armata) era «l'ultima misura» o una «misura disperata ma necessaria» se si volevano provocare «veri cambiamenti» in una società arcaica e statica come quella messicana. Successivamente, però, i suoi interventi verbali hanno assunto un tono meno belligerante, anche in seguito ai fatti luttuosi che s'erano verificati nel Paese, come il massacro di Acteal (45 persone ammazzate nella chiesa del villaggio, durante la messa). Accampamenti, guarigioni, avamposti s'erano prolificati ovunque nel Chiapas, ridotto ormai a una trincea presidiata da 50-70mila uomini. A conforto dell'immagine del movimento zapatista, gli analisti fanno notare che ha sempre respinto i richiami dei gruppi intransigenti, evitando di farsi coinvolgere nelle trame del terrorismo internazionale: e tutti ricordano ancora, qui in Messico, la «marcia del colore della terra» nel marzo 2001, considerata una delle maggiori manifestazioni antirazziste del mondo che vide nello zòcalo della capitale qualcosa come 300 mila persone. Era la consacrazione di Marcos: ma, soprattutto, era la vittoria della popolazione indigena che, dopo vent'anni di lotta, aveva ottenuto i suoi diritti. Pubblicità. C'è chi ritiene che la popolarità del subcomandante sia in lieve declino per questioni di politica locale: nella campagna per le prossime elezioni presidenziali si è mostrato piuttosto tiepido nei confronti del candidato della sinistra, Andrés Manuel Lopez Obrador, battezzato «il candidato dei poveri» che lui considera un «populista vecchia maniera» e ha definito con sarcasmo «la mano sinistra della destra». Ma si tratta di un «peccatuccio veniale», scommettono i più, non tanto grave da offuscare un uomo politico cui va inoltre attribuito il merito di aver accelerato la democratizzazione del Paese, avendo caldeggiato e favorito la nascita, nell'agosto del 2003, dei Caracoles, che sono, per dirla coi politologi, autentici organismi di autogoverno, in grado di coordinare l' amministrazione dei municipi autonomi zapatisti. Per Elena Poniatowska, nota giornalista e fotografa che nel '68 soccorse Oriana Fallaci quando rimase ferita a Città del Messico, la riluttanza del subcomandante a farsi avvicinare dai media «è un modo come un altro per farsi pubblicità». Si tratta quindi di una «civetteria», aggiunge, che non vuole essere un'accusa grave per «un uomo di valore che è stato ed è importante nella storia culturale e politica del nostro Paese». Chiedo aiuto ai colleghi messicani per sapere qualcosa di più personale sul subcomandante. «L'ho visto una sola volta, ed è stata anche l'ultima, ai primi di dicembre del '94 - ricorda una di loro, cercando di rinfrescare un incontro vecchio di quasi 12 anni - aveva invitato la stampa a La Realidad, il villaggio nella Selva Lacandona, c'erano anche giornalisti stranieri. Disse di essere decisamente contrario alla politica del presidente Vicente Fox. Disse anche che le sue richieste e quelle degli zapatisti erano per la democrazia, la libertà e la giustizia per il Chiapas e per tutti i messicani. Non ricordo altro. Scusami». «Ma il passamontagna, se l' era tolto?», chiedo. «Ma vuoi scherzare?» risponde.

Articoli correlati

  • Chiapas: padre Marcelo Pérez, un omicidio annunciato
    Latina
    Il sacerdote tsotsil è stato assassinato il 20 ottobre scorso dalla criminalità organizzata

    Chiapas: padre Marcelo Pérez, un omicidio annunciato

    Ispirato dalla Teologia della Liberazione, da sempre schierato a fianco degli oppressi e delle comunità indigene e contadine, aveva denunciato il legame tra narcotraffico e istituzioni e denunciato più volte paramilitari e multinazionali estrattiviste.
    26 ottobre 2024 - David Lifodi
  • Messico: Claudia Sheinbaum a Los Pinos
    Latina
    La candidata del centrosinistra diviene la prima donna alla guida del paese

    Messico: Claudia Sheinbaum a Los Pinos

    Doppiata la sua sfidante, Xóchitl Gálvez, esponente delle destre
    3 giugno 2024 - David Lifodi
  • Messico: i normalistas di Ayotzinapa senza giustizia
    Latina
    Il presidente Obrador non vuol mettere in discussione le forze di polizia

    Messico: i normalistas di Ayotzinapa senza giustizia

    Obrador vuole la verità sulla strage dei 43 studenti avvenuta nel 2014, ma solo a parole e, per questo, i familiari degli scomparsi hanno sospendere qualsiasi forma di interlocuzione con il governo.
    26 febbraio 2024 - David Lifodi
  • Messico: la necromacchina di Guanajuato
    Latina
    Le organizzazioni criminali godono dell’impunità concessa da istituzioni spesso compiacenti

    Messico: la necromacchina di Guanajuato

    A cercare i desaparecidos sono soprattutto le donne, le Madres Buscadoras.
    26 dicembre 2023 - David Lifodi
PeaceLink C.P. 2009 - 74100 Taranto (Italy) - CCP 13403746 - Sito realizzato con PhPeace 2.7.21 - Informativa sulla Privacy - Informativa sui cookies - Diritto di replica - Posta elettronica certificata (PEC)