Nel Brasile di Lula io sto dalla parte degli esclusi
intervista a Marcelo Barros
Marcelo Barros, teologo e abate benedettino, è una delle voci più significative dei movimenti sociali brasiliani. Da sempre attivo sia sul piano teologico e filosofico, in questo periodo della sua vita si sta concentrando soprattutto nel lavoro con i movimenti, e in particolare con quello dei Sem Terra, i lavoratori senza terra del Brasile. Lo incontriamo presso la sede dell'Agenzia Adista a Roma durante il suo recente viaggio in Italia.
Iniziamo parlando delle recenti elezioni presidenziali in Brasile. Lei si è pubblicamente schierato per la rielezioni di Lula.
Si. Ho votato per Lula, anche perché sarebbe stato un vero disastro una sua sconfitta. La destra, appoggiata come non mai dagli organi di stampa, ha lanciato una campagna di aggressione verso il presidente di dimensioni inimmaginabili. Io non sono d'accordo con Lula su molti punti, e soprattutto con quanto riguarda le scelte economiche, ma una sua sconfitta sarebbe stata ritornare indietro in maniera inaccettabile, una regressione che ci avrebbe ricondotto a 5 anni fa e alla peggiore gestione dell'allora presidente Cardoso. Se non Lula chi? Non c'era possibilità di scelta.
Lei ha parlato dei media brasiliani. In realtà la campagna di attacco al Partito dei lavoratori (PT) e al Presidente Lula si è basata su casi accertati di corruzione.
Di errori ne sono stati fatti. E' inaccettabile che alcuni membri del PT abbiano utilizzato l'accesso ai finanziamenti pubblici per finaziarie illegalmente alcune attività del partito. Ma non c'è stato nessun caso di arricchimento personale e soprattutto la dimensione dei casi reali, e non quelli gonfiati o "immaginati" dalla stampa nazionale, è stata, confrontata ai patrimoni personali accumulati da Cardoso e soci, infinitesimale. Ciò non giustifica quello che è stato fatto. Alcune denunce si sono dimostrate reali e il PT, fortunatamente, ha reagito isolandoli e denunciandoli. Inoltre Lula non è mai stato coinvolto direttamente.
Comunque vorrei specificare una cosa: il mio voto per Lula è stato un voto da latinoamericano più che da brasiliano.
In che senso?
Semplicemente, davanti alla trasformazione in atto in tutta l'america latina, con l'avanzare in molti paesi di politiche e governi di sinistra e con l'affermarsi del bolivarismo, della sua portata democratica e rivoluzionaria, che il Brasile ritornasse alla destra nel corso di questa congiuntura sarebbe stato davvero pericoloso. Ed è per questo, e con questo sentimento, che ho votato per Lula.
Il bolivarismo, che lei ha appena citato, ha sconvolto le carte del quadro politico internazionale nel continente.
Certo. Si può criticare o prendere distanze sulla figura di Chavez o su alcuni suoi atteggiamenti, ma quello che sta succedendo oggi nel mio continente grazie alla rivoluzione venezuelana è fondamentale. Fa emergere l'esigenza di protagonismo democratico dei movimenti indigeni, dei neri, delle donne, degli esclusi. E' una forza dirompente che sta trasformando e sostenendo il cambiamento in molti altri paesi dell'area.
Anche il successo di Ortega in Nicaragua è inseribile all'interno di questo processo?
Solo in parte. L'America centrale vive una fase differente: dopo l'invasione di Panama la presenza statunitense condiziona pesantemente tutti i governi della zona. Non parliamo poi di quanto gli Usa pesino in Nicaragua: nello scorso secolo lo hanno invaso militarmente due volte e successivamente economicamente dopo la rivoluzione. La vittoria di Ortega è inseribile nella continuità delle politiche del Movimento Sandinista. Per decodificare queste elezioni bisogna guardare a più di vent'anni di storia di quel paese. Ortega rappresentava l'unica alternativa al ritorno di un governo esplicitamente ispirato a somozisti e condizionato da Washington.
Torniamo al Brasile. Le politiche economiche del precedente governo Lula sono state fortemente convenzionali. Questo ha creato una frattura con la base dei movimenti sociali che ne avevano sostenuto l'elezione.
Non si può pensare di far ricrescere il paese continuando a pagare il debito estero, gli interessi da usurai. E soprattutto non si fa rinascere un paese, non lo si fa affermare e crescere applicando una politica neoliberista come quella che ci viene imposta dagli organismi finanziari internazionali. E' necessaria una politica di sviluppo totalmente differente. Noi paghiamo un prezzo enorme a chi ci ha prima prosciugato, appoggiando e ispirando la dittatura militare.
Lula ha fatto molte cose buone, soprattutto in politica estera, ma quando la politica si trasforma in economia il suo governo si è ispirato ai suoi predecessori, alle linee scavate da Cardoso.
Il Brasile sta progressivamente abbandonando lo sviluppo industriale e sta concentrandosi sull'esportazione di prodotti agricoli, in particolare di soia.
Che sia in corso un processo di abbandono di uno sviluppo industriale è evidente soprattutto a Porto Alegre, che per anni è stata una delle aree con la maggior crescita industriale e economica e oggi invece vive una crisi profonda. Ci si concentra sull'agro-business perché è quello che gli istituti internazionali e i nostri creditori ci chiedono e ci impongono. E' il modo più subdolo e distruttivo di pagare un debito estero che ci sta strangolando.
Ultimamente Lula ha parlato di rilanciare una rete ferroviaria brasiliana, abbandonata negli anni '80, e creare attorno a questo progetto una nuova crescita industriale. Ma per ora si tratta solo di un progetto, di cui non si conoscono tempi e modalità.
Una certezza invece è la trasformazione del latifondo in agro-business, in industria per l'esportazione: una scelta che porta all'arricchimento di pochi, spesso neanche brasiliani, e alla distruzione delle nostre risorse naturali. In un paese con 54 milioni di esclusi su 190 milioni di abitanti mi sembra una scelta del tutto errata.
La fame, le disuguaglianze, l'esclusione: i temi sociali rimangono al centro del dibattito politico e culturale brasiliano.
Il Brasile non sarà mai un paese davvero libero fino a quando un quarto della popolazione sarà esclusa dalla vita economica, sociale e politica del paese. Il programma Fame Zero, che pure in qualche modo è riuscito a contenere il problema della denutrizione e della sicurezza alimentare su 11 milioni di famiglie, è stato alla fine solo un processo assistenziale. Non si possono affrontare realmente i problemi dell'inclusione sociale di milioni di persone se non si affrontano davvero i problemi strutturali del nostro paese e in particolare la riforma agraria. A parole tutti sembrano essere d'accordo sulla riforma agraria. E perché non si fa? Perché la riforma agraria contraddirebbe le politiche economiche del governo, gli indirizzi degli istituti internazionali, le pressioni delle lobby.
Nella storia del Brasile rinato alla fine della dittatura militare a metà degli anni '80 e nella nascita dei movimenti sociali, la Chiesa cattolica ha giocato un ruolo fondamentale, soprattutto grazie all'affermarsi di quella che viene chiamata teologia della liberazione. Molte delle persone andate al governo con Lula sia oggi che nel precedente mandato provengono dalle comunità di base. Ma la chiesa brasiliana di oggi è ancora così progressista e aperta anche ai laici?
Assolutamente no. In termini gerarchici ormai gran parte dei laici più attivi, che erano alla base di quella grande trasformazione e giocavano un ruolo fondamentale nell'evolversi delle comunità durante e dopo la dittatura, oggi sono esclusi. Rimangono attivi, continuano ad operare, come diceva lei giocano un nuovo e positivo ruolo politico. Si tratta di una evoluzione della Teologia della liberazione, uno nuovo e più diffuso sentirsi più solidali, giusti, più semplicemente cristiani; ma la chiesa ufficialmente in gran parte rimane sorda alle loro istanze.
Quanto pesa il nuovo pontificato?
Il peso, e le chiusure, sono evidenti da circa dieci anni. Nell'ultimo periodo è accelerato il processo di normalizzazione. Con una battuta: diciamo che la chiesa brasiliana oggi è più romana di quella italiana.
Le istanze avanzate dalla teologia della liberazione sono praticamente scomparse dalle posizioni ufficiali, diciamo che sono diventate "sotterranee". Sono dentro la società ma non nella chiesa e questo è molto grave.
Quasi che questo dimostrasse una debolezza, un sentimento diffuso di paura da parte della chiesa .
Esattamente. Di paura.
Lei sta attraversando difficoltà in questo periodo a operare come teologo e religioso?
Si.
In quale modo?
Io mi considero un discepolo di Dom Helder Câmara. Quando lui scelse una chiara e pubblica opzione per i poveri, operando per la loro liberazione, attraversò moltissime difficoltà, subì un'infinità di critiche.
Succede semplicemente: così. Ma le difficoltà sono gerarchiche, sono quelle che ormai conosciamo benissimo da decenni, ci sono sempre state.
Riesco ad operare con i movimenti sociali, in particolare sono consigliere dell'MST, vivo attualmente un periodo di studio e riflessione, anche condividendolo con Dom Tomas Balduino (ndr: vescovo e presidente della CPT la pastorale della terra e principale sostenitore nella chiesa delle istanze dei movimenti sociali e in particolare dell'MST. Balduino e Barros vivono attualmente nella stessa struttura) sia la quotidianità che il legame religioso.
Al Social Forum di Nairobi saranno presenti i teologi come a Porto Alegre?
Si, ci saremo, anche se il dibattito preparatorio è ancora in corso. Sono successe moltissime cose negli ultimi anni, nel mondo, nei nostri paesi, nella chiesa e fra le chiese. E' necessaria un'analisi molto profonda ed è in corso un dibattito molto interessante anche se non è ancora chiara la linea per una posizione comune o di sintesi.
E della prossima conferenza episcopale brasiliana cosa pensa?
Ho letto i documenti preparatori.
E.. ?
Diciamo che deve essere fatta ancora molta strada.
SCHEDA
MEDELIN, 1968. QUANDO I TEOLOGI SCELSERO I POVERI
La nascita del movimento della Teologia della liberazione risale alla conferenza episcopale latinoamericana (Celam) svoltasi nel 1968 a Medellín, in Colombia, nel corso della quale i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica del' America latina presero pubblicamente posizione in favore dei gruppi più diseredati della società e della loro lotta e si pronunciarono per una chiesa popolare e socialmente attiva. La denominazione divenne universale dopo la pubblicazione del saggio del sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez, Teologia della liberazione, nel 1971. Il diffondersi in quasi tutto il subcontinente, durante gli anni sessanta e settanta, di dittature militari o di regimi pesantemente repressivi, favorì la diffusione e incentivò l'impegno dei teologi della liberazione che vennero elaborando proposte sempre più radicali per far fronte all'aggravarsi della crisi politica e sociale latinoamericana. In Brasile, grazie anche all'appoggio del cardinale di San Paolo, Paulo E. Arns, e del vescovo Helder P. Câmara, sorsero quasi 100.000 comunità di base che si rivelarono in poco tempo il più efficiente nucleo di critica e oppsizione alla dittatura. In Nicaragua numerosi sacerdoti e laici cattolici presero parte alla lotta armata contro la dittatura di A. Somoza e in seguito sacerdoti come Ernesto Cardenal e Miguel D'Escoto entrarono nel governo sandinista. Ma negli anni '80, in corrispondenza del pontificato di Giovanni Paolo II, la componente più conservatrice delle chiese latinoamericane, riemerse prepotentemente anche attraverso azione di censura verso religiosi e teologi che si rifacevano alla confrenza di Medellín. I principali artefici della teologia della liberazione furono progressivamente allontanati dai nodi gerarchici superiori e il loro campo d'azione venne via via ridotto. Emblematico fu il caso del frate francescano Leonardo Boff che, dopo diversi processi ecclesiastici, abbandonò l'ordine nel 1992.
"Ma le "teologie della liberazione", che pure hanno il merito di avere ridato importanza ai grandi testi dei profeti e del Vangelo sulla difesa dei poveri, procedono ad un pericoloso amalgama tra il povero della Scrittura e il proletariato di Marx. In questo modo il significato cristiano del povero è sovvertito e la lotta per i diritti dei poveri si trasforma in lotta di classe nella prospettiva ideologica della lotta delle classi. La Chiesa dei poveri significa allora una Chiesa di classe, che ha preso coscienza della necessità della lotta rivoluzionaria come tappa verso la liberazione e che celebra questa liberazione nella sua liturgia - così si legge nel documento del 1984 redatto dal S. Congregazione per la Dottrina della Fede allora diretta da Joseph Ratzinger, e poi proseguendo - Una delle condizioni per il necessario ritorno alla retta teologia è la rivalutazione dell'insegnamento sociale della Chiesa (...) Le tesi delle "teologie della liberazione" sono largamente diffuse, sotto forma ancora semplificata, in circoli di formazione o nei gruppi di base, che mancano di preparazione catechetica e teologica. Per questo sono accettate, senza la possibilità di un giudizio critico, da uomini e donne generosi (...) Per questo i Pastori devono vigilare sulla qualità e sul contenuto della catechesi e della formazione, che deve sempre presentare la integralità del messaggio della salvezza e gli imperativi della vera liberazione dell'uomo nel quadro di questo messaggio integrale".
Insieme a Boff e a Frei Betto, una delle figure più attive nell'ambito della Teologia della Liberazione è sicuramente Marcelo Barros, uno dei più noti biblisti brasiliani e teologo fra i più stimati a livello internazionale. Marcelo Barros è abate del monastero benedettino dell'Annunciazione del Signore di Goiás, in Brasile. Membro della commissione latinoamericana dell'Associazione ecumenica dei teologi del terzo mondo (Etawot), è impegnato nella pastorale della terra, consigliere dell'MST (il movimento dei senza terra brasiliani), giornalista e e autore di 25 libri; e fra i suoi ultimi libri si segnala O Espírito vem pelas Aguas. A crise mundial da Agua, a Bíblia e a espiritualidade ecumênica (Cebi-Rede, 2002). In questo periodo sta lavorando attivamente al forum dei teologi che si terrà all'interno del prossimo Forum Sociale Mondiale di Nairobi 2007.
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