La Bolivia di Evo a un bivio
Martedì un affollatissimo cabildo popolare ha deciso di disconoscere il governatore di Cochabamba, Manfredo Reyes Villa, che si è rifugiato a Santa Cruz de la Sierra, bastione dell'opposizione a Evo Morales. Anche le organizzazioni sociali di El Alto - la città sopra La Paz - reclamano le dimissioni del loro governatore, José Luis Paredes. Nel voto amministrativo, concomitante con le presidenziali del 18 dicembre 2005, i boliviani avevano scelto la capacità di gestione rispetto alla linea ideologica creando una mappa politica locale ostile al governo centrale. Ma oggi molti mostrano di avere ritirato quell'appoggio ed esigono la revoca di quelle cariche all'opposizione.
Evo Morales è il primo presidente boliviano a dover convivere con questo dilemma: essendo sempre stata la Bolivia un paese centralista, spettava al capo dello Stato la nomina dei «prefetti», ossia dei governatori di dipartimento. Però nel 2004, nel mezzo dell'offensiva di Santa Cruz per l'autonomia, l'ex presidente Carlos Mesa cercò una formula per democratizzare la sua elezione senza violare la costituzione. In via «transitoria» il popolo «sceglie» e il presidente «nomina» i governatori che continuano a essere, formalmente, rappresentanti locali del potere esecutivo. Però adesso «la coabitazione» fra governi centrale e regionali è in crisi per la reazione dei movimenti sociali vicini a Evo e contro l'allineamento di questi governatori all'opposizione di destra e il loro appoggio al progetto autonomista di Santa Cruz, che è poi il nocciolo della crisi attuale. Il governo centrale tenta di frenare l''offensiva che minaccia di destabilizzare il paese e per questo ha proposto una legge che prevede il referendum revocatorio di tutte le cariche elettive pubbliche: dai sindaci ai governatori fino al presidente della repubblica.
La situazione del (primo) presidente indigeno non è semplice: lui non è solo il capo dello Stato boliviano ma anche il presidente di federazione dei campesinos cocaleros che si stanno mobilitando a Cochabamba per rovesciare il governatore, l'ex-capitano Reyes Villa. Si trova stretto fra il Palazzo e la piazza, e questo lo costringe a difficili equilibri per non perdere la sua condizione di «statista» e allo stesso tempo per non dilapidare la sua legittimità in seno al movimento sociale costruita in due decenni di militanza sindacale nella regione tropicale di Cochabamba. La stessa che gli consente oggi di parlare di «un governo dei movimenti sociali».
Però non vuole neppure mettere a rischio l'appoggio della classe media. Un sondaggio riservato - che il manifesto ha potuto vedere - mostra che le violenze hanno fatto scendere la popolarità di Morales fra i settori urbani cochabambinos da più del 60 al 49%. Così, se in un primo momento ha tenuto fermo il suo appoggio alle mobilitazioni popolari contro Reyes Villa, questa settimana, di fronte ai tentativi dei settori più radicali di insediare «un governo rivoluzionario» nel dipartimento, ha lanciato un appello al rispetto della legalità e ha riconosciuto il governatore disconosciuto dall'assemblea popolare.
«Il governo non riconoscerà nessun governo popolare di fatto, sono gruppi radicali che non rappresentano i movimento sociali», ha detto martedì il vice-ministro per il coordinamento con i movimenti sociali Alfredo Rada. E il vice-presidente Alvaro Garcia Linera è arrivato a dire che «Manfredo Reyes Villa è il governatore legale di Cochabamba» e ha aggiunto che qualsiasi destituzione di funzionari pubblici deve passare attraverso il referendum revocatorio che deve essere (ancora) approvato dal parlamento. La destra ha già anticipato il suo sostegno alla misura.
Queste dichiarazioni rientrano nel tentativo del governo di raffreddare il clima di polarizzazione che si vive nel paese. Gli affollatissimi cabildos per l'autonomia a Santa Cruz, sommati all'impantanamento dell'assemblea costituente, sembrano aver convinto il presidente indigeno che è necessario mettere panni freddi, ridurre il livello dello scontro con l'opposizione - in molti casi puramente verbale - e cercare di governare il paese. La reazione contro «il populismo» dei ceti medi e affluenti - ridotti di numero però molto influenti nell formare l'opinione - è tradizionale in America latina: rifiuto della «de-istituzionalizzazione» e dell' «autoritarismo», timore dell'incontrollata «deriva plebea». A tutto questo, qui in Bolivia, si somma la diffidenza dell'oriente del paese di fronte a un governo «andinocentrico». In questo quadro, c'è chi accusa Morales di prendere la strada opposta a quella di Nelson Mandela: il risentimento anziché la riconciliazione.
Il 2008 sarà un anno elettorale in Bolvia: con la nuova costituzione che la costituente dovrà redigere entro il prossimo agosto si drovanno «rilegittimare» - come fu per il Venezuela di Chavez dopo la costituzione bolivariana del '99 - sia il presidente sia il parlamento. In questo ambito la sfida di Morales è dimostrare di non essere il presidente della metà (occidentale) del paese e neanche solo degli indigeni. Per raggiungere questo obiettivo fruisce di riserse economiche inedite nella storia di questo paese, provenienti dalle nuove imposte alle compagnie petrolifere dopo la nazionalizzazione degli idrocarburi. Per l'anno in corso è previsto uno choc di investimenti pubblici pari a 1100 milioni di dollari, insieme a un insieme di politiche sociali che includono un piano di fame zero e una copertura universale per la salute. Ma bisogna connettere il discorso politico a quest'obiettivo.
Lo slogan stesso di «rivoluzione democratica» implica un equilibrio precario: come fermare la reazione dei settori conservatori al processo di cambio nell'ambito della legalità in cui è stato eletto e che continua a essere il fondamento della sua legittimità.
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