Latina

A chi l'Amazzonia? Alle imprese italiane

Alla distruzione ambientale e sociale della foresta in nome dei biocarburanti contribuisce il governo Prodi. Un secolo dopo le battaglie di Ermanno Stradelli contro l'industria del caucciù
8 aprile 2007
Andrea Palladino
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Ermanno Stradelli aveva 73 anni quando morì, solo e abbandonato, in un lebbrosario a Manaus, centro dell'amazzonia brasiliana. Era il 1926, e si spegneva uno dei più illuminati etnologi e geografi italiani, dopo 43 anni passati a difendere le culture indigene. Aveva un nemico Stradelli, il caucciù, la più importante commodity del mercato globale a cavallo tra '800 e '900. Manaus e Belem erano cresciute, esplose e poi affondate come capitali mondiali della gomma elastica. Nel 1926 poco era rimasto: l'estrazione del lattice del caucciù, gestita dal capitale internazionale, soprattutto inglese, era stata trasferita in Malesia, dove il costo era ben più basso.
Il governo biotech di Lula
Oggi governa Lula in Brasile, il compagno Lula, cresciuto politicamente tra i sindacati di San Paolo, immerso tra gli ex contadini espulsi dalla terra, approdati nelle città, a popolare le favelas più pericolose del mondo. E il governo del Pt (partito dei lavoratori) ha deciso di rilanciare con forza lo sfruttamento industriale delle risorse naturali del Brasile e dell'Amazzonia. Il caucciù non ha praticamente più mercato, si ottiene per sintesi da tantissimo tempo. Ma ci sono altre commodities, risorse il cui prezzo sta salendo vertiginosamente nel mondo, legate alla follia del biodiesel. Non solo la soia, che ruba terre ai contadini e aggredisce l'Amazzonia sul fronte sud, nel cosiddetto arco della deforestazione. Non solo canna da zucchero, la cui produzione industriale cela spesso il lavoro schiavo, denunciato a gran voce dalla Commissione Pastorale della Terra, in aumento da due anni. L'Amazzonia, secondo il governo biotech di Brasilia, potrà ospitare la coltivazione della palma da olio, il dendê. Spacciata come «ecologicamente sostenibile», è un'oliacea di origine africana, portata in Brasile con la colonizzazione.
Oggi Malesia e Indonesia sono i principali produttori mondiali, ma la foresta nel sudest asiatico si sta riducendo in maniera vertiginosa, soprattutto come conseguenza della coltivazione del dendè. Gli stessi speculatori internazionali delle commodities e dei Cdr (i certificati di emissione del protocollo di Kyoto) sono preoccupati e ritengono che la palma da olio africana non sia poi così verde. E allora il Brasile offre la sua foresta, luogo adatto alla coltivazione per il clima e la presenza d'acqua, indispensabile per rendere le piante produttive.
Una volta era il caucciù
L'Italia non ha più un Ermanno Stradelli che nel 1884 scriveva sui bollettini della Società geografica italiana, denunciando come la lavorazione del caucciù fosse un «crimine contro l'umanità» e spiegando come le popolazioni indigene erano le prime a subire le conseguenze dell'arrivo in massa di contadini senza terra dal nordest, a caccia di improbabili - per loro - ricchezze, e che finivano schiavi nelle fazendas sostenute dal capitale inglese. Il posto del geografo, etnologo e umanista è stato preso dai prosaici imprenditori del nostro nordest, che, capitanati dalla San Marco Petroli di Porto Marghera, si sono presentati a Manaus chiedendo e ottenendo 80.000 ettari nella foresta amazzonica, da destinare al ricco business del biodiesel derivato dalla palma africana.
Mentre il presidente del Consiglio Prodi firmava a Brasilia l'accordo sul biodiesel con Lula, la delegazione della San Marco Petroli incontrava la Embrapa (agenzia brasiliana per l'agrobusiness), la segreteria di stato dell'Amazonas per l'agricoltura, l'agenzia per lo sviluppo dello stato di Amazonas (Idam); i petrolieri italiani venivano accompagnati a visitare le terre, le serre con i semi - ibridi - di palma pronti da piantare. Sul tavolo la mappa dell'Amazzonia: il dito puntato sugli obiettivi, su una parte di quelle terre che il governo dell'Amazonas vuole destinare al biodiesel.
La fetta più grande si trova a Tefé, proprio dove Stradelli aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita. A pochi chilometri dalla città c'è una antica coltivazione di dendê, chiusa all'inizio degli anni '90, fallita clamorosamente. Si chiamava Emade, era stata creata negli anni '80 con una partnership pubblico privata. Ancora oggi gli indigeni che abitano le terre che furono occupate dalla palma africana chiedono che qualcuno li risarcisca, anche perché avevano promesso, all'epoca, scuole e ambulatori, mai arrivati. Oggi protestano perché stanno riasfaltando la strada che conduce verso le piantagioni di palma, che taglia la riserva indigena, riconosciuta e omologata nel 1991.
L'esperienza della coltivazione del dendê a Tefé viene ancora studiata dagli antropologi come esempio di agrobusiness ad alto impatto sociale, ambientale ed economico. Priscila Faulhaber Barbosa, antropologa brasiliana, racconta come proprio l'esperienza della Emade sia alla base della disorganizzazione della società tradizionale di Tefé, che ha portato «a una concentrazione finanziaria e a una intensificazione della differenziazione sociale», fattori primari nella distruzione delle culture indigene.
Il biodiesel, dunque, rischia di diventare il nuovo impulso, dopo il caucciù, il legno e la soia (la cui coltivazione è legata al biodiesel) per la conquista economica e predatoria delle foreste brasiliane.
Il punto è centrale per valutare correttamente l'illusione del carburante considerato ecologico, di cui l'Unione europea è il primo acquirente nel mondo. Se è vero che le emissioni di CO2 del biodiesel sono inferiori al diesel tradizionale, nel calcolo non vengono considerate le emissioni dovute alla deforestazione, alla meccanizzazione dell'agricoltura, ai processi di produzione e raffinamento. Non solo. Oggi in Brasile si dice che il break-even, la soglia del prezzo del petrolio che renderebbe conveniente il biodiesel è di 60 dollari al barile. In realtà, questo calcolo non prende in considerazione alcuni fattori fondamentali.
La coltivazione della palma africana è sostenuta finanziariamente in Amazzonia dalla stato brasiliano, che vuole conquistare il mercato mondiale del biodiesel. La stessa San Marco Petroli ha deciso di andare in Amazzonia probabilmente perché sa che l'occupazione della foresta avviene praticamente gratis: l'impresa italiana potrà usufruire di forti sconti fiscali e di linee di finanziamento del governo brasiliano e della Banca per lo Sviluppo. Il modello proposto, inoltre, riduce il rischio dell'impresa: non sarà necessario agire direttamente (solo il 40% del raccolto verrà gestito dalla San Marco Petroli), ci penserà lo stato dell'Amazonas ad organizzare i coltivatori locali in cooperative. Tutto bene, dunque? In realtà no. I contadini riceveranno un pezzo di terra, compreranno i semi e avranno come unico acquirente la stessa San Marco Petroli, che deciderà il prezzo secondo l'andamento del mercato internazionale delle commodities. Anche se oggi viene propagandato come un modello equo di lavoro agricolo, si tratta in realtà dello stesso modello - con qualche aggiustamento - del caucciù. Il potere di contrattazione del prezzo da parte dei coltivatori è di fatto nullo. Tutto è deciso altrove.
Se l'affare del biodiesel italiano in Amazzonia andrà in porto, sarà solo l'inizio di una nuova onda di invasione e distruzione dell'Amazzonia. Perché è ormai chiaro che colonizzazione, agrobusiness e monocultura sono i principali nemici della foresta. Oggi lo stato di Amazonas può vantarsi di possedere una foresta ancora intatta per il 98%, secondo i dati della segreteria per le politiche agricole. Ma i segnali che arrivano ora che il biodiesel fa gola a tanti sono pessimi. La Suframa - organo federale che amministra la Zona franca di Manaus - lo scrive nero su bianco: «Lo stato di Amazonas possiede l'area più grande del Brasile per la coltivazione del dendê, circa 50 milioni di ettari». Considerando che nel 2006 l'area già deforestata era di 3 milioni di ettari, l'impatto potenziale della coltivazione della palma africana è di 47 milioni di ettari di foresta che rischiamo di perdere nei prossimi anni.
Nella memoria degli indigeni
Oggi di Ermanno Stradelli in Italia rimangono solo qualche scritto nella biblioteca della Società geografica. Nel 2006, qualcuno in Amazzonia ha ricordato gli ottanta anni della sua morte. La sua memoria è però ancora viva tra gli indigeni del Rio Negro e del Rio Solimões, che all'epoca lo chiamavano il «figlio del serpente incantato». Ruppe ogni contatto con l'Italia nel 1901, quando si rese conto che l'interesse del Regno e degli imprenditori di Genova era rivolto allo sfruttamento economico del caucciù e della foresta. Lui, che si era laureato in diritto internazionale con la tesi «Hanno diritto le nazioni civili di appropriarsi delle terre dei Barbari?» nel 1896, che - voce solitaria - aveva denunciato per primo la distruzione delle culture indigene, aveva applicato la tradizione umanista italiana alla sua visione della foresta amazzonica. Oggi un'altra Italia torna in Amazzonia, con intenzioni ben diverse.

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