Latina

Il greggio creativo di Rafael Correa

Per salvare il parco nazionale di Yusaní, «patrimonio della umanità» nell'Amazzonia ecuadoriana, da una «ferita» petrolifera di 200 mila ettari, lanciata la proposta di lasciare il greggio sottoterra. E pagarlo
13 giugno 2007
Paola Colleoni (http://www.amazoniaporlavida.org)
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)


Quito Il presidente Correa lancia da Quito una proposta innovativa per proteggere l'ambiente e le popolazioni indigene del parco nazionale più biodiverso del paese e trovare un'alternativa all'apertura di un nuovo campo di estrazione petrolifera nell'area.
Il 5 giugno, il presidente Correa ha presentato ufficialmente la proposta di vendere «crudo represado», cioè petrolio che rimanga compresso nel sottosuolo, per impedire che nel parco con maggior biodiversità del paese, lo Yasuní, si apra una nuova ferita di 200.000 ettari: quella del blocco di estrazione Ishipingo-Tambococha-Tiputini (ITT), che fino a poche settimane fa si stava negoziando con l'impresa statale brasiliana Petrobras.
Il parco nazionale dello Yasuní, che si trova nell'Amazzonia centro-meridionale dell'Ecuador ed è stato dichiarato patrimonio dell'umanità dall'Unesco nel 1979 per il suo inestimabile valore ecologico, non è stato risparmiato in questi anni dalle attività predatorie e distruttive dell'industria petrolifera. La compagnia spagnola-argentina Repsol-Ypf e la canadiense Encana, recentemente acquisita dai cinesi di Andes Petroleum, operano da anni nella zona nei blocchi 16 e 14.
Il parco Yasuní è anche il rifugio per gli ultimi popoli indigeni non contattati dell'Amazzonia ecuatoriana, i Taromenani e i Tagaeri, della cui esistenza la società nazionale è venuta a conoscenza solo recentemente, a causa degli scontri a punta di lancia e fucile tra gli indigeni e i tagliatori illegali di legname che si sono addentrati nel loro territorio.
E' solo una delle conseguenze dell'estrazione petrolifera nello Yasuní e nell'Amazzonia, perché insieme ai petrolieri e ai tagliatori illegali di cedro, nella selva penetrano malattie, relazioni di dipendenza e sfruttamento per le popolazioni indigene contattate, come gli Huaorani; coloni in cerca di terra o di opportunità di lavoro nella «Compagnia», - così chiamata, con C maiuscola, indistintamente e da tutti quelli che vivono nelle zone petrolifere, a testimonianza del potere assoluto che le imprese del petrolio esercitano nelle loro zone di influenza.
La proposta del crudo represado è partita originariamente dalla società civile ecuadoriana e da alcune organizzazioni ambientaliste, per essere poi raccolta dal ministro dell'energia Acosta nel marzo 2007, che l'ha inserita nello spettro di possibilità su cui il presidente Correa avrebbe dovuto deliberare. Tra queste, la possibilità che l'impresa statale Petroecuador sviluppasse il campo ITT con mezzi propri; la ricerca di alleanze strategiche con altre imprese statali latino-americane, la venezuelana Pdvsa, o la brasiliana Petrobras; o ancora, che si aprisse una fase di licitazione a cui partecipassero imprese statali internazionali.
Una patata bollente per il nuovo governo di sinistra ecuadoriano, non solamente perché Correa vuole mantenere relazioni amichevoli con il gigante brasiliano e una politica di collaborazione con il presidente Lula, ma anche perché il pozzo produrrebbe 108.000 barili al giorno nei primi 17 anni, un'entrata economica notevole per il paese.
E come se non bastasse, una scelta che si presentava come un banco di prova su come il governo riformatore di Correa intenda affrontare i profondi problemi ambientali che attanagliano l'Oriente ecuadoriano e la sua Amazzonia.
Lasciando tutti quelli che per mesi si sono mobilitati a difesa dello Yasuní con il fiato sospeso, Correa «ha fatto la cosa giusta». Ha optato per una scelta nuova e senza precedenti, e in una conferenza stampa ufficiale, ha dato a conoscenza che l'opzione per il blocco ITT sarà quella di mantenere il petrolio nel sottosuolo, spiegando attraverso quali meccanismi si cercherà di ottenere una compensazione economica alla «costosa» decisione di non sfruttare questa risorsa.
Lo sfruttamento di quel blocco apporterebbe alle casse del paese 350 milioni di dollari l'anno nei primi dieci anni andando poi decrescendo. come alternativa, il governo emetterà «buoni» per vendere il greggio senza estrarlo, confidando che siano comprati da persone, gruppi, ong, organizzazioni a livello nazionale e internazionale, ma anche dagli organismi di cooperazione governativa. L'operazione sarà gestita nella sua fase iniziale dalla società civile che ha dato vita al gruppo «Amazzonia per la vita», mentre il governo si occuperà di verificare l'interesse dei paesi stranieri a comprare i buoni. Calcolando che un barile di crudo costa tra i 2 e i 7 dollari e che una tonnellata di anidride carbonica ritirata dall'atmosfera secondo la Banca mondiale costa 20 dollari, ogni barile di greggio virtuale costerà approssimativamente 5 dollari e potrà essere comprato attraverso il web, campagne locali di raccolta fondi, donazioni della cooperazione, convegni tra i governi per condonare il debito estero.
In questo modo si pensa di poter coprire il 50% dei guadagni che si otterrebbero con l'estrazione del petrolio, a cui bisogna aggiungere il risparmio che lo Stato avrà per non dover bonificare l'area di estrazione petrolifera. I soldi verranno destinati ad attività tese a liberare il paese dalla dipendenza dalle esportazione del petrolio e al consolidamento della sovranità alimentare dell'Ecuador.
Questo meccanismo, che appunta a vendere-per-non-usare una risorsa, stravolge le idee guida del protocollo di Kyoto. Raccogliendo fondi per mantenere il greggio nel sottosuolo non si vendono riserve né si vendono servizi ambientali: lo Stato ecuadoriano riceverebbe invece una compensazione per rinunciare agli introiti dello sfruttamento petrolifero e per attuare una politica ambientale con una ricaduta globale positiva, contribuendo all'abbassamento dell'emissione di Co2 e al problema del riscaldamento globale provocato dai combustibili fossili.
Il presidente Correa dunque ora attende quali saranno le reazioni della comunità internazionale.E se la campagna non producesse i risultati sperati? Bisognerà pensare a come estrarre il petrolio con tecnologie di punta con minimo impatto ambientale, dice Correa, lasciando, inutile dirlo, le organizzazioni della società civile promotrici della campagna, con l'amaro in bocca.

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