Moratoria petrolifera
Se c'è una cosa che non sentiremo né leggeremo nella messe di comunicati, articoli e dichiarazioni ufficiali dell'ultimo vertice tedesco del G8 è il termine «giustizia climatica» o «debito ecologico». Mentre si continua ad argomentare , con scarse possibilità di successo, sulla necessità di andare oltre il Protocollo di Kyoto, la realtà che si presenta agli occhi dell'opinione pubblica mondiale è che ancora una volta la centralità della crescita economica globale prende il sopravvento rispetto alla sopravvivenza del pianeta. La questione riguarda tutti, le generazioni presenti e quelle future. Le conclusioni dell'Ipcc (l'organismo delle Nazioni unite sul clima) danno per scontata l'alterazione del clima causata dal modello di sviluppo e calcola perdite per oltre il 20% del Pil mondiale. Un dato drammatico per i teorici della crescita che ben comprendono come questo scenario segnerebbe in un modo o nell'altro la fine dell'era capitalista, incapace, come del resto accadrebbe a qualsiasi altro modello, di reggere una crisi strutturale di queste proporzioni. Quegli appelli provenienti da alcuni paesi del G8 e dall'Unione europea affinché la questione dei mutamenti climatici sia affrontata in maniera decisa e determinante, non sono il frutto di una conversione ambientale, ma della convinzione che sarà la mano (in)visibile del mercato, quella dei mercati di permessi di emissione, o dei meccanismi di sviluppo pulito, a rimediare a una questione che sembra essere sfuggita di mano a coloro che governano l'ordine mondiale. In questo senso l'apparente autismo dell'amministrazione Bush è in realtà la lucida conseguenza dell'impossibilità dell'attuale paradigma di sviluppo di uscire dalla dipendenza dai combustibili fossili e dell'urgenza di assicurarsi il controllo di quelle risorse anche attraverso lo strumento militare. Preoccupazione non solo di Washington, se è vero che anche la Nato, Italia inclusa, discute di come poter intervenire a protezione di rotte di petroliere o oleodotti strategici in caso di emergenza.
Con questi presupposti nessun accordo, al di la delle apparenze, è stato possibile al vertice del G8. Nessuna giustizia climatica potrà essere data, se il quadro di riferimento nel quale ci si muove è quello di «mitigare» la dipendenza dai combustibili fossili, come se il metadone fosse la cura definitiva alla dipendenza da eroina. Eppure qualcuno ci sta provando. E non si tratta di multinazionali in cerca di una nuova immagine verde, o di sparuti gruppi di ecologisti, «neo-luddisti»; bensì di una rete di associazioni e movimenti che ha deciso di affrontare la questione partendo dal ragionamento che il commercio delle emissioni ed i meccanismi di sviluppo «pulito» sono formule elaborate appositamente per non colpire gli interessi delle multinazionali petrolifere, principali responsabili del riscaldamento globale. È proprio il commercio delle emissioni che trasla le responsabilità e gli impatti sui «Sud» del mondo, creando ulteriori minacce e continuando a far pagare ai vari «Sud» il prezzo dello sviluppo insostenibile dei «Nord» opulenti ed energivori che a tutti i costi sono determinati a mantenere inalterato il loro stile di vita. Il mercato delle emissioni infatti legittima un sussidio a quelle imprese responsabili dei cambi climatici ed è uno stimolo per i paesi che maggiormente consumano petrolio ad andare avanti con l'attuale modello. Nella situazione attuale non ce lo possiamo più permettere.
Il petrolio è uno dei principali fattori dell'effetto serra ed è per questo che tutte le operazioni petrolifere hanno un «debito» con il clima. Da anni si parla di una moratoria sulle estrazioni petrolifere nelle aree più importanti per la bio-diversità del pianeta. Sono stati i movimenti sociali latino-americani in questi anni a spingere il ragionamento in tal senso, capovolgendo il concetto di debito e introducendo nuove chiavi di lettura per misurare il concetto di «sviluppo» e di «efficienza economica». Proprio grazie all'analisi ed ai nuovi strumenti di lettura scaturiti dal concetto di «deuda ecologica», i movimenti ed i paesi dei sud del mondo si sono per la prima volta definiti paesi «creditori» e non debitori nei confronti del nord. Un ribaltamento culturale di prospettiva articolato in una proposta forte lanciata a tutti i governi dei paesi occidentali, a partire da una prospettiva «d'insieme» su come affrontare le grandi questioni dei nostri giorni.
Oggi questa proposta à fatta propria e rilanciata dal governo ecuadoriano di Rafael Correa, presidente di un paese produttore e dipendente dalle esportazioni di petrolio. Il suo ministro per l'energia, Alberto Acosta, ha lanciato - non senza difficoltà e conflitti con Petroecuador - la proposta di non sfruttare campi petroliferi presenti in aree ad alta bio-diversità come il caso del parco dello Yasuní. Il suo è un triplice obiettivo: rispettare i diritti dei popoli nativi, conservare la bio-diversità e controllare i cambiamenti climatici. Ai paesi «ricchi» spetterebbe di elargire una compensazione del 50% di quello che lo stato ecuadoriano guadagnerebbe in caso di sfruttamento dei giacimenti , in vero ossequio al principio delle responsabilità «differenziate» in relazione ai cambi climatici. È legittimo che un paese del sud che assume come centrale nella sua politica la responsabilità verso l'ambiente e verso tutti gli altri popoli della terra, sia quanto meno compensato per i suoi sforzi e per il mancato guadagno monetario che questo comporta. E' un modo di riconoscere il debito ecologico del nostro modello di consumo e sviluppo.
Ci aspettiamo che dopo le dichiarazioni di sostegno di alcuni paesi europei quali la Spagna e la Norvegia, anche l'Italia colga l'occasione per praticare concretamente una vera inversione di rotta autenticamente basata sulla giustizia ecologica ed ambientale.
Sociale.network