Oaxaca, che fine ha fatto l'ultima insurrezione messicana
Città del Messico
«Le fiamme sono estinte, ma dietro la calma apparente Oaxaca continua ad ardere». Chi parla non è uno degli insorti, bensì Genaro David Góngora Pimentel, alto magistrato della Corte Suprema, il massimo organo costituzionale messicano.
Tra giugno e novembre 2006, Oaxaca ha vissuto una rivolta popolare di caratteristiche inedite che ha messo sottosopra le istituzioni locali e meravigliato il Messico.
Tutto nacque quasi per caso, nel mese di maggio. Il combattivo sindacato degli insegnanti occupava il centro storico della città con l'obiettivo di ottenere aumenti salariali. Le trattative si trascinavano e la popolazione osservava con un misto di indulgenza e di irritazione gli scioperanti accampati in tende di fortuna nello zocalo (piazza principale) e le vie lì attorno.
Probabilmente non sarebbe successo nulla se il governatore, Ulises Ruiz Ortiz ( detto "Uro", del Partido Revolucionario Institucional, il Pri), non avesse deciso di dar loro una lezione esemplare. Il 14 giugno, 3mila poliziotti fecero irruzione all'alba, come nei film western e, senza risparmiare gas lacrimogeni, né pallottole, distrussero tutto ciò che trovavano sulla loro strada, compresa Radio Plantón, l'emittente degli insegnanti.
Poi accadde l'imprevisto. Invece di rispondere con l'abituale torpore, la gente comune - casalinghe, venditori ambulanti, artigiani, studenti, impiegati, emigranti indigeni- insorse spontaneamente riuscendo a riconquistare la piazza dopo varie ore di duri combattimenti.
Da quel momento tutto cambiò. Circa 400 organizzazioni sociali crearono la APPO -Asamblea Popular del Pueblo de Oaxaca, nome poi cambiato in Pueblos, al plurale, alludendo alla tradizione autogestionaria dei popoli indigeni-, una specie di fronte unico, movimento di movimenti, ma anche foro permanente ed organo decisionale che si unificò intorno ad una sola rivendicazione: la cacciata di Ruiz.
Nei giorni successivi la Appo assunse il controllo della città. Venne designata una direzione collettiva formata da una trentina di persone, in rappresentanza di numerosi settori politici e sociali e cominciarono le trattative con il governo federale per ottenere la revoca del mandato a Uro. Di fronte all'assenza di risposte chiare, la Appo organizzò una dozzina di mega-manifestazioni di proporzioni mai viste a Oaxaca ed occupò gli uffici di governo, la procura della repubblica ed il parlamento locale.
Le elezioni presidenziali del 2 luglio ed il movimento contro l'imposizione di Felipe Calderón -del Partido Acción Nacional, Pan- fecero passare in secondo piano gli avvenimenti di Oaxaca. Lontana dai riflettori della politica nazionale, la città passò per la singolare esperienza di una vita senza stato, senza polizia e senza burocrazia, però aperta al dialogo, alla creatività ed alla festa. Seguendo le usanze indigene, la giustizia era amministrata dai topiles, volontari eletti in assemblea che non portano armi e non percepiscono salario.
La reazione del governo locale fu spietata. Già in luglio, convogli di veicoli senza targa percorrevano la città sparando. Erano gli squadroni della morte che ?Uro' sguinzagliava contro un movimento pacifico e di massa. La gente rispose con le barricate; se ne arrivarono a contare 2000, soprattutto nei quartieri periferici, dove le scorrerie degli assassini erano più numerose.
I media messicani, soprattutto le televisioni, presentarono quei fatti come una prova della "arroganza" della Appo, ma era vero il contrario. La gente si difese evitando di cadere nelle provocazioni. Il movimento occupò pacificamente la televisione locale e le radio commerciali. Furono altrettante risposte alla furia della polizia che distrusse radio Plantón prima e danneggiò radio Universidad poi.
La violenza della repressione provocò almeno 26 vittime. Tra loro si contano due giornalisti: Brad Will, dell'agenzia indipendente Indymedia di New York e Raúl Marcial Pérez, del "Gráfico", quotidiano di Juxtlahuaca. Vi furono anche centinaia di feriti, circa 300 arresti ed un numero imprecisato di desaparecidos. Perché imprecisato? Perché, temendo nuove rappresaglie, i parenti non sporsero denuncia e quindi non si conosce il numero esatto. Le cose peggiorarono quando, a fine ottobre, la città fu presa manu militari dalla Policía Federal Preventiva (PFP) che smantellò gran parte delle barricate. Poche settimane dopo, il 25 novembre, in occasione di un'ennesima manifestazione, i federales scatenarono il finimondo arrestando in un colpo solo circa 160 persone -in gran parte estranee alla Appo- e brutalizzandone molte di più.
Juan M., giornalista presso Noticias de Oaxaca -l'unico quotidiano locale di opposizione- è ancora sconvolto. Nascosto sotto una macchina, quella notte vide un furgone della PFP investire alcuni manifestanti che fuggivano e poi ripassare sui loro corpi. «Ascoltare le loro grida laceranti è stato terribile. Ancora adesso mi rimbombano nella testa», racconta con le lacrime agli occhi spiegando che non hai più saputo nulla di quei malcapitati. «In Messico non esiste democrazia», continua. «Affermano che c'è libertà di espressione, perché adesso si può fare ironia sul presidente della repubblica. Però se infastidisci la classe politica, ti fanno tacere».
Il calvario dei prigionieri politici è descritto fin nei minimi dettagli nel rapporto presentato al Parlamento Europeo dalla Comisión Civil Internacional de Observación por los Derechos Humanos (Cciodh) dove fra l'altro si legge che «I fatti accaduti a Oaxaca sono l'anello di una strategia giuridica, poliziesca e militare, con aspetti psicosociali e comunitari il cui vero obiettivo è creare la paura ed ottenere il controllo della popolazione civile nelle zone in cui si sviluppano processi di organizzazione cittadina o movimenti di carattere sociale non legati a partiti». Con quali risultati? Oaxaca è oggi una città stordita dove regna una calma ingannevole. Contro tutti i pronostici, "Uro" fa ancora il governatore e, per il momento, è difficile pensare che esca di scena.
La Pfp mantiene una presenza discreta, ma continua. La polizia statale si fa vedere il meno possibile perché bisogna far passare il messaggio che il conflitto è finito e non scoraggiare il turismo, settore strategico dell'economia locale.
Delle circa 200 persone arrestate prima della fine di dicembre (tutte con le stesse accuse mai provate: incendio, furto, sedizione e lesioni qualificate) ne restano almeno otto dietro le sbarre. Uno dei leader mediatici del movimento, Flavio Sosa venne intercettato in dicembre, a Città del Messico, mentre si accingeva a dialogare con il nuovo governo di Felipe Calderón. Flavio militava in una corrente moderata, alleata dei partiti istituzionali, che porta avanti aspre polemiche con l'ala radicale ed antielettorale della Appo.
Sette mesi dopo, si trova ancora nel carcere di massima sicurezza de La Palma (nei pressi di Toluca, a 500 km da Oaxaca), dove è incredibilmente classificato "detenuto di alta pericolosità", accanto ai serial killer ed ai baroni della droga. Insieme con lui, c'è il fratello Horacio, mentre un altro fratello, Erick, è stato liberato la settimana scorsa. Nessuno dei due fratelli di Flavio Sosa ha mai avuto a che fare con la Appo.
Negli ultimi mesi ci sono stati nuovi arresti, come quello di David Venegas Reyes, giovane membro del Consiglio della Appo, detenuto e torturato il 13 aprile con l'accusa fabbricata di sana pianta di possedere buste di cocaina ed eroina. Il reato è un delitto federale che non prevede la libertà su cauzione.
Chi rimane fuori vive nella paranoia costante, aspettando di essere arrestato da un momento all'altro. È il caso di una giovane psicologa (che preferisce mantenere l'anonimato) che non è militante della Appo, però partecipa alle attività di solidarietà con i prigionieri politici. «Dopo il 25 di novembre tutto è cambiato. Quando vado alle assemblee mi sento seguita. Per la prima volta in vita mia, adesso so cos'è la paura».
Un'altra figura rappresentativa del movimento, la doctora Berta, speaker di Radio Universidad, la cui voce era nota anche in Italia, non è in galera solo perché ha preso la via dell'esilio, mentre un'altra annunciatrice, la maestra Carmen, vive a Città del Messico per sottrarsi agli squadroni della morte.
Il 9 agosto, Germán Mendoza -paraplegico dal 1987 per via dello sparo di un cacicco e delle torture subite dalla polizia- fu arrestato e malmenato nonostante le sue delicate condizioni fisiche (soffre di diabete ed è in dialisi). Dopo quasi tre mesi, il 30 ottobre, venne rilasciato senza spiegazioni. Da allora, va il meno possibile a Oaxaca e preferisce la funzione di portavoce del movimento a Città del Messico. Secondo le ultime notizie, su un totale di 300 mandati di cattura, ne sono stati revocati circa 280 per insufficienza di prove, ma il numero esatto è sconosciuto perché la procura non dà cifre e neppure nomi.
«Il fatto è che Oaxaca non esiste lo stato di diritto», mi spiega uno degli avocati difensori, Gilberto Hernández. «C'è uno stato d'eccezione permanente e si arrestano rispettabili cittadini senza neppure un mandato di cattura. Alcuni vengono poi liberati, altri no; così, senza motivo. Ad altri ancora si fissano cauzioni esorbitanti che, in alcuni casi, finisce per pagare il governo. È assurdo, ma è così. A noi avvocati si nega persino la facoltà esaminare la situazione giuridica dei nostri clienti».
Il 14 giugno, anniversario del primo attacco militare della polizia del governatore contro i maestri in sciopero, circa 100mila persone sono scese in piazza. La politica di terrore non accenna però a diminuire la pressione. L'altroieri alle quattro del pomeriggio, per esempio, un commando della polizia statale ha fatto irruzione nella casa di Cesar Luis Días, membro indigeno della Appo e attivista della Otra Campaña. Se lo sono portato via armi in pugno sotto gli occhi dei suoi tre bambini. Non avevano un mandato d'arresto. Questa è la finta calma che regna a Oaxaca.
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