San Ernesto de la Higuera
La Higuera, un villaggio perduto e dimenticato nella selva boliviana, è cambiato per sempre il 9 ottobre del '67. Quel giorno risuonarono diversi spari e i campesinos del posto capirono immediatamente che il guerrigliero argentino di cui tutti parlavano ma che pochi avevano visto, era stato giustiziato dai militari. Tuttavia nessuno poteva immaginare che quel «comunista» e «ateo» - come dicevano i manifesti incollati sui muri - sarebbe ritornato anni dopo nelle vesti di «San Ernesto de la Higuera» per ascoltare le suppliche dei suoi abitanti poveri e dimenticati. Molti gli hanno perfino costruito altarini nelle loro case.
L'ordine di assassinarlo, in codice, fu: «Dà il buon giorno a papà», e il suo corpo fu portato a Vallegrande, una sessantina di chilometri da qui, legato ai pattini di un elicottero. Scese dal cielo con i capelli scomposti e gli occhi aperti a causa del vento, ciò che contribuì ad ampliare il mito secondo cui «guardava come se fosse vivo» e «sembrava Gesù». Fu sepolto in una fossa comune - come N.N. - insieme ad altri sei guerriglieri, ritrovati solo nel '97.
«In questa immagine religiosa del Che c'è un mix di devozione per il martire e di paura per i morti», dice Anastasio Kohmann, un tedesco che arrivò a Vallegrande 30 anni fa come missionario francescano e ha ceduto all'attrazione fatale del magnetismo del «guerrigliero eroico» al punto che oggi presiede il ramo locale della Fondazione Che Guevara.
Ci sono decine di medici e alfabetizzatori cubani che spingono per scattare foto di fronte a un gigantesco busto di un Che vigoroso, quasi un sex simbol, di fianco a una croce. Sono arrivati fin qui a la Higuera con l'ambasciatore di Cuba Rafael Dauzá e una torta di compleanno per festeggiare il leggendario «comandante», che giovedì 14 giugno scorso avrebbe compiuto 79 anni.
Da quando Evo Morales è arrivato alla presidenza, sono arrivati in Bolivia quasi 2000 «medici di Fidel», come li chiamano i campesinos, 130 mila boliviani sono stati alfabetizzati e altri 90 mila operati agli occhi. Paradossi della storia, il figlio di Mario Terán, il sergente che sparò al Che, ha rivelato ai giornalisti del quotidiano di Santa Cruz El Deber, che suo padre, quasi cieco, è stato operato di cateratte - senza che nessuno lo risconoscesse - da oculisti cubani.
«Quando lasciarono il corpo nella lavanderia dell'ospedale, gli accarezzai il polpaccio e i capelli, arrivò molta gente per vederlo. Il suo viso era quello di una persona viva, si vedeva che non avevano potuto uccidere il suo spirito», dice visibilmente emozionata Ligia Morón, una uruguayna che viene da Punta del Este. Ligia pianse il giorno in cui fu annunciato che i cubani avevano ritrovato il combattente della Sierra Maestra e che i suoi resti sarebbero stati riportati nell'isola. Per molta gente di Vallegrande, lasciar partire il Che era come tornare a scomparire dalla carta geografica e perdere un'identità che voleva dire un qualche miglioramento dei loro magri introiti. Però il mito è stato più forte e la sua «anima miracolosa» continua ad attrarre centinaia di giovani e meno giovani che con coraggio e pazienza si avventurano per questi polverosi sentieri di montagna fino ad arrivare al borgo di 21 famiglie che vide cadere il capo di una guerriglia sconfitta dalla fame, dall'isolamento, dall'assedio militare monitorato dall'ambasciata degli Stati uniti a La Paz. Oggi, il feticcio commerciale sfida l'impotente cartello che qualche idealista ha lasciato scritto: «No alla commercializzazione del Che». Si producono perfino portachiave con dentro terra della sua fossa comune da vendere negli anniversari della morte.
I resti del Che furono ritrovati il 12 luglio del '97 da una équipe medica cubana aiutata da medici forensi argentini. Due anni prima il generale della riserva Mario Vargas Salinas aveva dato al giornalista americano Jon Lee Anderson le coordinate della fossa comune e il governo cubano accelerò le ricerche per poter riportare il Che nell'isola in tempo per il trentesimo anniversario della sua morte in Bolivia, da dove senza fortuna aveva tentato di diffondere la rivoluzione in tutta l'America del sud con lo stesso metodo di lotta che aveva fiunzionato a Cuba: il foco guerrigliero. L'ex agente cubano della Cia, Félix Rodríguez raccontò una volta che l'allora presidente boliviano René Barrientos aveva proposto «di tagliare la testa del Che e mandarla a Fidel Castro perché si convincesse della morte del suo compagno più fidato». Alla fine gli tagliarono le mani e questa fu la certezza che il leggendario guerrigliero era morto in terra boliviana. Le mani amputate e i suoi diari personali - che nella sua avventura in Bolivia parlano solo di sconfitte - furono la prova finale.
Nonostante le recenti vittorie della sinistra boliviana, nei municipi della «strada del Che» è al potere la destra e il movimenti sociali sono deboli come al tempo in cui Ernesto Guevara scelse queste lande desolate per tentare una guerriglia che s'infranse contro un muro invalicabile: in Bolivia i campesinos erano già proprietari della terra, conquistata armi alla mano con la riforma agraria del '53 e del '67, in quell'epoca era in pieno vigore il «patto militar-campesino» firmato fra le organizzazioni campesinas e Barrientos, un generale populista che parlava in quechua. Anche Barrientos cadde vittima della «malediazione del Che» che persegue i suoi carnefici: morì due anni dopo in un incidente aereo, e il generale Gary Prado, capo dei rangers che lo catturarono nella quebrada del Yuro, è inchiodato su una sedia a rotelle a causa del «fuoco amico» rimediato in un'operazione militare.
Manuel Cortés è una delle persone del posto, ormai in via di estinzione, che può dire di aver visto o parlato con il Che. E questo privilegio ne ha fatto automaticamente una guida per i turisti che vogliono sentire la storia tragica della guerriglia. «Una volta l'ho incontrato in uno spaccio d'alimentari, era il settembre del '67, i militari dicevano che i guerriglieri rubavano ma non era vero. Comprò della carne di maiale e si soffermò un attimo ad ascoltare il ritmo di una cueca..., qualche giorno più tardi lo ammazzarono e la gente si spaventò. Dicevano che sarebbero arrivati i cubani e avrebbero spianato il villaggio perché i campesinos boliviani lo avevano tradito», ricorda Cortés. Anche Guadalupe Caraballo era una devota del Che che, dice, una volta curò sua sorella dalla febbre dengue: «Qui quasi tutti si rivolgono a lui perché fa i miracoli. Io ormai non più perché mi sono data al Signore», dice lei, ormai convertita a una delle tante sette evangeliche.
Fra i devoti che arrivano ogni anno a La Higuera c'è anche Evo Morales, che non chiede «miracoli» al Che ma che assicura di voler «portare a termine la sua missione incompiuta».
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