«Ve lo do io il socialismo del ventunesimo secolo»
Milano nostra inviata
«Siamo socialisti del secolo XXI e ci ispiriamo a Simon Bolivar». Eccolo qui Rafael Correa, tormentato dal protocollo e dalle zanzare, venuto da Quito fin nel caldo umido dell'idroscalo di Milano a spiegare alla comunità ecuadoriana che l'aria a casa è cambiata. E che lui, giovane economista eterodosso eletto alla presidenza in novembre col 57% dei voti, sta con Hugo Chàvez.
Tiene molto, però, a non essere confuso con gli avanzi della sinistra vecchio stile latino-americana che per Chàvez si spella le mani: «C'è una differenza fondamentale tra noi, socialisti del secolo XXI e i vecchi socialisti - sottolinea Correa lisciandosi la giacca - il socialismo tradizionale aveva dello sviluppo un'idea non diversa da quella capitalista: essenzialmente modernizzazione. Per noi lo sviluppo non vuol dire modernizzarsi a tutti i costi, sviluppo significa vivere bene. E vivere bene deve voler dire anche vivere in armonia con la natura». Lui sta con gli ecologisti insomma, con gli attivisti dello sviluppo sostenibile che in Ecuador come in Venezuela contestano lo sfruttamento indiscriminato delle risorse energetiche anche quando serve a finanziare governi che promettono la rivoluzione. E in questo sta attento a differenziarsi, almeno a parole, dal suo potente alleato. Per il resto le posizioni ribadite dalla promessa del socialismo andino sotto il tendone di Milano sono i comandamenti del socialismo rispolverati dal presidente venezuelano: «Supremazia delle esigenze del lavoro sui bisogni di accumulazione del capitale e necessità dell'azione dello Stato».
Correa è in tour europeo in visita a quel 20% del suo paese emigrato negli ultimi sette anni e finito da questo parti a fare, in gran maggioranza, il badante o la colf.
Negli anni '90 una grave crisi economica portò l'Ecuador al crollo del sistema finanziario e all'iper inflazione. La trovata poco lungimirante fu dollarizzare l'economia. Il piano inizialmente predisposto dal presidente Mahaud, deposto da una rivolta nel 2000, fu realizzato dal suo vice e successore, Gustavo Noboa. Di solito, quando paesi a moneta inflazionata si ancorano al dollaro, succede che i prezzi impazziscono perché si internazionalizzano. Tutto costa quasi come a Miami ma il valore dei salari si riduce. E questo, grosso modo, è successo anche a Quito. Il debito estero (pubblico e privato) supera i 18mila milioni di dollari, il 50% del prodotto interno lordo. Il 10% degli abitanti ha in mano il 48% della ricchezza. «I mezzi di produzione sono in mano al 2% della popolazione» ricorda Correa che quando parla di economia si scalda parecchio.
C'è di che accalorarsi, in effetti: in Ecuador gli stipendi non consentono di varcare la soglia della sussistenza, il paniere ha un valore di 400 dollari, un operaio guadagna 200 dollari al mese, la stessa cifra di una guardia di sicurezza privata che faccia turni di 9 ore per sei giorni a settimana.
Il presidente, rivendica, in sei mesi qualcosa ha fatto: non ha firmato il trattato di libero commercio con gli Stati Uniti, ha predisposto il rientro nell'Opec (l'organizzazione dei paesi produttori di greggio) e si è messo d'accordo con Chàvez per raffinare il greggio negli impianti dell'impresa statale del petrolio venezuelano.
L'Ecuador, nonostante sia il quinto produttore del Sud America con 530mila barili al giorno, spende circa 1250 milioni di euro all'anno per comprare carburante perché i suoi impianti non sono in grado di lavorare più della metà del crudo estratto nel paese.
Il tour europeo è un preludio di quella campagna per l'assemblea costituente sulla cui convocazione Correa si è giocato la testa (ha stravinto con l'80% il relativo referendum) e con cui promette di dare il via al nuovo corso.
Per realizzare le riforme promesse un nuovo assetto istituzionale gli è indispensabile. Ma non sarà una passeggiata. Così come non lo è stato per Evo Morales convocare una costituente in Bolivia.
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