Latina

Tra i desaparecidos italiani, scomparsi durante la dittatura militare in Argentina, alcuni erano di origine marchigiana. Sono Adelaida e Lorenzo Ismail Viñas Gigli, Nadia Doria e Norberto Morresi.

Argentina: storie di desaparecidos marchigiani

Le pagine che seguono sono tratte dal libro “Terra promessa-il sogno argentino”, scritto dalla giornalista Paola Cecchini ed edito dal Consiglio regionale delle Marche, con il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia a Buenos Aires, l’Ambasciata della Repubblica Argentina in Italia, il Ministero degli Italiani nel Mondo e la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
14 settembre 2007
Paola Cecchini
Fonte: Ufficio stampa Regione Marche

Adelaida e Lorenzo Ismail Viñas

Sono arrivata a Recanati lo stesso giorno della mia nascita, cinquant’anni dopo. Ne ero partita all’età di tre anni, quando mio padre Lorenzo Gigli, artista, emigrò in Argentina, a Buenos Aires.

Conoscevo già questo paese attraverso la sua pittura, la sua passione, la sua mitologia recanatese. Quando sono arrivata e ho visto le colline, sono stata presa. Mi è piaciuta da morire. Poi, quando sono passata per le rovine dell’acquedotto romano e ho visto che sotto gli archi non c’era nessuno, non viveva nessuno, per me è stata una cosa meravigliosa, perché mi sono detta: qui non c’è miseria, qui c’è dignità umana.

Dopo, sono entrata nella città, sono andata in albergo; c’era un gruppo di contadini nel loro giorno di festa, sicuramente uno sposalizio, chiacchieravano. E quelle furono le prime persone che vidi. Ricordo anche un bellissimo cane, tutto nero, che riposava li, sulla strada. È stato tutto molto forte…

Quando ho immaginato Recanati, pensavo che non potevo vivere in una provincia, in un paese, abituata a vivere in una capitale. Cosa vado a fare là, dove non succede niente? Quando ho visto le cinque porte di Recanati, ho detto: qui è facile, uno non sta in prigione. Esco per una porta, e via! Vado dove voglio. Fanno sei anni, ora, che non ci voglio uscire per nessuna porta! Mi piace... qui la solitudine è un privilegio.

Pensavo di venire qui a sopravvivere, o a rinascere. E invece ho vissuto. È molto, molto importante. Dopo, s’io fossi libera di tanti miti, di tante cose personali, di tanti ricordi, mi integrerei, mi avvicinerei di più ai problemi recanatesi…

Ritornavo sola, vestita con un paio di jeans e espadrillas, una valigia con libri e i pochi scritti originali che avevo potuto conservare, là, in Argentina. Da quel momento dovevo ripensare a ricostruire tutto. Non parlavo l’italiano. Nemmeno ora molto bene, forse anche per ragioni psicologiche, che non “se può investigare perché”.

Non capivo i recanatesi. E non perché fossi isolata fisicamente, perché qui la gente è molto amabile. Però questo non vuol dire necessariamente comunicazione. Ho imparato a vivere sola, tanto che adesso mi sembra l’unica maniera di vivere.

Qui sono ancora una “estraniera”, ma molto appassionata. C’è spazio, sono libera, non ho terrore, e ho ricordi. Logicamente, mi piacerebbe inserirmi, lavorare nel sociale, ma è molto difficile per me, che sono così profondamente impregnata di preoccupazioni sudamericane.

Però mi sento bene, non perché sia arrivata a una vita felice: non ho famiglia più, o un successo personale, ma perché ho spazio, non devo stare sempre all’erta…

Ho fatto una vita molto intensa in Argentina. Non propriamente la vita dell’emigrante. Ho studiato, mi sono sposata con un ragazzo, un intellettuale, un saggista. Eravamo molto attenti alla “cosa” argentina. Abbiamo fatto una rivista molto importante, che ancora “circula”, come testimonianza di tutta una generazione molto combattente, oramai vecchia. Là ho vissuto con molto interesse, con tutto il mio temperamento, che non è di lottatrice, di ideologa, ma semmai più “idilliaco”, arrabbiato anche, più come un gatto…

Gli ultimi anni in Argentina? Non so quali siano stati, nel senso che non ricordo un primo anno, o un secondo, un terzo, e così via. Semmai quello che è successo... quello lo ricordo. C’è stato un cambiamento storico, che ha compromesso più di due generazioni. E si è risolto in una maniera violenta.

E io sono uscita dall’Argentina, allora, perché non volevo essere un’altra vittima dopo che i miei figli erano scomparsi, desaparecidos. Ero ormai sola.

Non aveva più senso vivere là, e poi non si poteva.

Sono alcune delle dichiarazioni rilasciate nel 1984 da Adelaide Gigli - ora gravemente malata - a Paolo Pascucci di Ancona per la rivista Periscopio marchigiano.

Adelaide è figlia del pittore recanatese Lorenzo, emigrato a Buenos Aires negli anni Trenta, e fondatrice - assieme al marito David Viñas, attualmente direttore dell’istituto di letteratura argentina dell’Università di Buenos Aires - della rivista letteraria Contorno.

Ceramista e pittrice, Adelaide è ritornata nella città natale nel 1982 dopo la scomparsa dei suoi due figli, Maria Adelaida e Lorenzo Ismail.

Maria Adelaida, soprannominata Nanina, fu sequestrata dall’esercito il 29 agosto 1976 in una via elegante di Buenos Aires, vicino al giardino zoologico. Era segretaria di un docente universitario.

Quando intuì di essere in pericolo, consegnò la figlioletta che aveva in braccio, nelle mani di un turista statunitense di passaggio, chiedendogli di portarla fuori dal Paese.

Secondo la testimonianza raccolta dal C.O.N.E.D.A.P. (n 2.819), Nanina era ancora viva nel dicembre 1977, detenuta nel centro di detenzione Campo de mayo.

Ventiduenne, aveva da poco perso il marito, Carlos Andrea Goldenberg, militante montonero e figlio di un noto psichiatra cittadino; era stato ucciso dalla polizia che aveva fatto irruzione nella loro casa, di notte.

Sua figlia è stata adottata dalla famiglia che l’ha salvata. Ora vive in California e fa l’avvocato. Si chiama Inés Cuppersmith e conosce da poco la sua storia.

La scomparsa di Lorenzo Ismail si inquadra, secondo la ricostruzione degli inquirenti, nell’ambito del Plan Condor.

Sottoscritto durante la dittatura di Pinochet, il piano si proponeva di coordinare i servizi segreti delle varie dittature militari in una repressione sistematica dei dissidenti politici dei paesi del cono sud dell’America latina: Cile, Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. Gli esuli politici di un paese potevano essere sequestrati dalla polizia degli altri ed essere uccisi. Non c’era scampo.

Secondo gli inquirenti2- che indagano da ventitre anni assieme alla sua compagna di allora, Claudia Olga Allegrini - Lorenzo era partito il 26 giugno 1980 alle 11,30 da Santa Fe, con l’autobus n. 7.825 dell’impresa Pluna diretto a Rio de Janeiro. Occupava il sedile n 11 ed il suo biglietto era contrassegnato col numero 93.034.

Fu sequestrato alla frontiera brasiliana in località Pasos de los Libres - Uruguayana dove, nella estancia La Polaca ceduta dal proprietario al distaccamento di Intelligencia 123 dell’esercito, operava un centro clandestino di detenzione e sterminio, diretto dal colonnello Héctor Julio Simón, alias el turco Julián.

Simón era incaricato dell’Operativo Murciélago, la cattura, cioè, dei militanti montoneros che entravano o uscivano dal paese, organizzata dal colonnello Carlos Alberto Roque Tepedino.

Al momento del sequestro, era con lui il sacerdote asuncionista Jorge Oscar Adur, parroco di Nuestra Señora de la Unitad, che operava da anni tra poveri ed emarginati. Secondo la testimonianza giudiziale di Silvia Tolchisnsky3 - segretaria dell’ex capo montonero Mario Firmenichi4 - Lorenzo fu condotto in una prigione, nello scantinato di una villa ubicata ad un solo isolato dall’entrata principale di Campo de Mayo, in pieno centro cittadino, probabilmente in via Conesa n. 101 de San Miguel.

Restò lì, secondo la Tolchisnsky - sequestrata nello stesso luogo - fino alla fine dell’anno; fu lungamente torturato e poi buttato nel Río de la Plata, durante uno dei tanti voli della morte raccontati da Horacio Verbitsky nel libro El vuelo.

Lorenzo, dirigente de la Juventud Universitaria peronista (J.U.P.) faceva parte di quelle che dentro l’organizzazione montonera erano definite tropas especiales de Infantería (T.E.I.) che avrebbero dovuto operare nell’imminente contraofensiva popular.

Per la scomparsa di una ventina di militanti montoneros, il giudice federale Claudio Bonadio ha ordinato il 16 luglio 2002 l’arresto di oltre quaranta militari che hanno ricoperto incarichi di spicco durante la dittatura. Tra questi figuravano Carlos Guillermo Suárez Mason, comandante del I° corpo dell’esercito; Santiago Omar Riveros, capo del comando degli Istituti militari; Edmundo René Romero Ojeda, capo della polizia federale e l’ex dittatore Leopoldo Fortunato Galtieri che, pur condannato por incompetencia nella guerra delle Malvine, fu beneficiato dall’indulto emesso nel 1989 dal presidente Carlos Menem.

È incredibile, ma è la prima volta che qualcuno lo arresta per violazione dei diritti umani

ha commentato al riguardo Claudia Allegrini.

La maggioranza degli inquisiti operava nel Batallón 601 (nome di guerra del Servicio de Informaciones del Ejército) il cui quartier generale aveva sede (sarebbe meglio dire ha sede, dato che non è mai stato smantellato) all’angolo tra calle Callao y Viamonte, nel cuore cittadino (dove mezzo secolo fa fu sequestrato il cadavere imbalsamato di Eva Perón).5

In relazione a questo procedimento, il giudice Bonadio - che ha decretato l’anno passato la nullità delle leggi Obediencia Debida e Punto final, in quanto incompatibili con la Convenzione americana dei diritti umani ed il Patto internazionale dei diritti civili e politici - ha chiesto l’estradizione in Argentina di Claudio Scagliuzzi (nome di copertura Claudio Guillermo Sforza), residente in Spagna dal 1984 ed arrestato a Barcellona perché sospettato di aver fatto parte come agente civile del Batallón suddetto. In quanto civile, non erano applicabili nei suoi confronti le leggi sopra citate.

E’ probabilmente lui il sequestratore e l’uccisore di Lorenzo - ha commentato Claudia Allegrini -. Oggi mia figlia Paula ha ventiquattro anni ed aveva ventisei giorni quando il padre scomparve; credo che sia suo diritto sapere che fine abbia fatto. Mi batto da venticinque anni per questo. Oltre a ciò, c’è il mio diritto di conoscere la verità e quella di tutti gli altri compagni, perché io, dopotutto, sono una sopravvissuta.

Nadia Doria

Nadia Doria era partita per l’Argentina con la sua famiglia nel 1950, destinazione Rosario. Era nata il 13 giugno 1944 a Civitanova Marche.

Lavorava come impiegata amministrativa nella sezione I.B.M. dell’acciaieria Acindar di Villa Constitución, ed era impegnata nella lotta che da anni l’Unione Operai Metalmeccanici (U.O.M.) combatteva all’interno dell’azienda.

Era fidanzata con Alberto José Piccinini, segretario generale della U.O.M cittadina, ora deputato nazionale.

Secondo la ricostruzione dei familiari, Nadia uscì da casa per andare all’Università e lì venne arrestata durante una perquisizione della polizia.

Secondo la testimonianza resa da Carlos Sosa alla C.O.N.E.D.O.P., la ragazza rimase per quaranta giorni nel centro clandestino di detenzione della Questura di Rosario (zona 2) che faceva capo al generale Leopoldo Galtieri.

Rilasciata, fu arrestata di nuovo e uccisa un’ora e mezza più tardi con cinque colpi.

Era il 23 gennaio 1977.

La sua famiglia rimase fortemente segnata da questa tragedia: il padre Umberto morì l’anno dopo di tristezza, come scrisse ai parenti civitanovesi il fratello di Nadia, Antonio.

Quest’ultimo si ammalò gravemente e, assente per molto tempo dal lavoro, fu imbrogliato e rovinato economicamente dal suo socio.

Il Banco Integrado Departimental (B.I.D.) presso cui veniva depositata la pensione di Giuseppa Pagnanini, la madre di Nadia, fallì a seguito di operazioni losche e la Pagnanini si ritrovò senza un peso.

Sono sempre un patriota che guarda avanti - scriveva Antonio in una delle ultime lettere - però a volte mi sembra che finiscono le forze.

Sia lui che la madre sono mancati anni fa.

Norberto Morresi

Norberto Morresi, diciassettenne, era uscito da casa il 23 aprile 1976 dicendo che quella sera sarebbe tornato più tardi, perché doveva festeggiare il compleanno di un amico. Poiché era sopraggiunta la notte e non era ancora rincasato, i genitori cominciarono a preoccuparsi, soprattutto quando ricevettero la telefonata di un suo compagno che chiedeva incuriosito perché non era andato alla festa.

Julio, il padre, contattò subito diversi ospedali, ma nessuno seppe dirgli nulla.

Dopo una notte insonne, la famiglia ricevette una telefonata anonima con la quale fu informata che, con molta probabilità, Norberto era stato imprigionato.

Cominciarono allora affannose ricerche presso vari commissariati e presso persone amiche nell’ambiente militare ed ecclesiastico; infine Julio presentò l’istanza di habeas corpus.

Dopo circa due settimane ricevette la telefonata di una donna secondo la quale la liberazione di Norberto era possibile, anche se molto difficile.

Passarono i mesi e dopo varie conversazioni telefoniche con la donna, Julio fu invitato a casa sua; lì conobbe un militare che gli confermò lo stato di detenzione di Norberto; gli riferì anche che stava bene, e che quando le guardie gli portavano da mangiare, chiedeva sempre una mela verde.

Questa circostanza venne ritenuta attendibile dalla famiglia, dato che effettivamente Norberto gradiva molto questo frutto.

Dopo qualche giorno - erano già passati quattordici mesi dal sequestro - quelle persone mi dissero che la situazione stava volgendo al peggio e che Norberto avrebbero potuto salvarsi solo espatriando in Svizzera; occorrevano documenti falsi ed almeno mille dollari.

In una successiva telefonata dissero che il viaggio sarebbe avvenuto con un volo charter per il quale serviva un supplemento di denaro

racconta il padre.

La famiglia impegnò tutti i suoi risparmi e chiese prestiti a familiari ed amici. Il padre consegnò il denaro un venerdì, con l’intesa di incontrare nuovamente la donna il lunedì successivo:

Il giorno pattuito mi recai all’appuntamento ma non trovai nessuno … venni a sapere dal portiere che si erano trasferiti altrove nel corso della notte tra il sabato e la domenica. Mi resi allora conto di essere stato truffato da persone che in quel momento mi apparivano come i corvi che mangiano i resti di un cadavere; in seguito potei capire che tutto ciò che mi avevano detto non rispondeva al vero.

Passarono gli anni e Julio e sua moglie Irma continuavano a coltivare la speranza che il figlio fosse ancora vivo.

Irma confezionava per lui - che immaginava rinchiuso in una cella umida - maglie e maglioni: aveva così l’impressione di stargli più vicina.

Nel 1989, dopo il ritorno alla democrazia, Julio venne convocato dagli antropologi che svolgevano indagini sui desaparecidos; fu avvertito che, a seguito del ritrovamento di un fascicolo segreto presso un archivio militare, era stata individuata una fossa comune dove il cadavere del figlio avrebbe potuto essere stato sepolto come N.N. assieme a quello di molti altri.

Fu una notizia tragica per noi che avevamo ancora la speranza di vedere nostro figlio. Fu terribile

ricorda.

Da quel fascicolo risultava che Norberto era stato ucciso, assieme al compagno Luis Maria Roberto di trentaquattro anni, mentre trasportava con un furgone di proprietà di quest’ultimo, copie della rivista della Gioventù peronista Evita Montonera, messa al bando perché considerata sovversiva, ma liberamente in vendita nelle edicole sino ad otto giorni prima.

Il primo giugno 1989 si procedette alla riesumazione dei corpo a cui Julio volle assistere personalmente, riuscendo così a rivedere i resti di Norberto:

Hanno scavato nella terra ed è apparsa la parte ossea di un essere umano meraviglioso... abbiamo ritrovato, sebbene soltanto come ossa, colui che fu il nostro amato figliolo ed oggi abbiamo un luogo dove possiamo deporre un fiore e potergli dire per esempio: figlio caro, qui siamo noi insieme a te ... Abbiamo un privilegio, perché ci sono migliaia di genitori che non sono a conoscenza di quanto occorso ai loro figlioli.

Le modalità dell’uccisione di Norberto gli vennero poi riferite da Rosalina Cardozo, moglie dell’amico morto con lui: dopo essere stati fermati da una pattuglia di militari ad un posto di blocco, i due giovani erano stati portati in un luogo a venti isolati di distanza, nella periferia di Buenos Aires, e subito uccisi.

Il fatto era stato falsamente descritto in un rapporto di polizia, dove si sosteneva che i due ragazzi erano morti durante un conflitto a fuoco, dopo che avevano cercato di incendiare il furgone per nascondere le copie della rivista.

Julio Morresi ha le guance scavate ed i capelli bianchi.

Parla castigliano, ma capisce l’italiano. Vive a Buenos Aires da sempre:

La mia era una famiglia numerosa; mio padre era partito quando era ancora un giovanotto. Si era appassionato di Mar del Plata. E’ qui che conobbe mia madre, figlia di un anconetano. Uno strano destino li fece incontrare in Argentina e fu subito amore. Papà era scarparo come molti marchigiani di oggi: realizzava calzature interamente a mano, era un artista della calzatura. La mamma era casalinga, perché dalla parte di mio nonno erano ventidue figli e dunque c’era molto da fare.

Io sono nato in Argentina, quarto di sette fratelli. La mia data di nascita è il 9 luglio 1930. Fin da piccolo sono stato dentro la fabbrica di calzature della mia famiglia.

Julio - che ha anche un altro figlio, Claudio, ex giocatore di calcio nel River Plate - continua:

La giustizia italiana ha reso a me e alla mia famiglia giustizia condannando i responsabili della morte di nostro figlio. E’ stato un esempio per tutto il mondo e l’Italia non può che esserne fiera. Per sapere come erano andate le cose ci ho messo tanto, troppo tempo, perché nelle nostre storie ogni secondo è lungo un secolo.

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