Una sconfitta da vincente
La sconfitta di Ugo Chávez nel referendum indetto per dare un carattere più marcatamente socialista al Venezuela, e per guidare questo cammino in prima persona, per tutto il tempcuo che fosse necessario, è diventata paradossalmente per lui, sostenitore del sogno di unità latinoamericana di Bolivar, una vittoria.
Da domenica sera, infatti, nessuno potrà più sostenere, e se lo farà sarà una persona in malafede, che in Venezuela si è instaurata una dittatura, e che Chávez è «un tiranno in pectore manovrato da Fidel Castro e dalla Rivoluzione cubana». Era già scorretto sostenerlo prima di questo referendum che chiedeva l'autorizzazione amodificare 69 articoli dei 350 della Costituzione approvata nel 1999, come hanno fatto i tg della nostre tv e dei network via satellite, usi a presentarsi con lo slogan «l'obbiettività innanzitutto », salvo poi raccontarci una realtà grottesca, conveniente solo ai giochi della grande finanza internazionale. Il fatto che il fronte del «sì», quello del Presidente, abbia perso solo per 1, 4 punti di differenza rispetto a coloro che erano per il «no», è il segnale che in Venezuela, nei nove anni di governo di Chávez, rieletto con ampiomargine nel 2000 e nel 2006, si è instaurata una democrazia, certamente più indiscutibile di quella che vigeva nel paese quando governavano alternativamente il democristiano Rafael Caldera e il presunto socialista Carlos Andrés Pérez, che si erano spartiti il potere, fino a vendersi privatamente parte del petrolio di cui è ricco il paese. Il Venezuela che Chávez aveva ereditato da questi figuri, spesso definiti democratici dai nostri media liberali, era una nazione sull'orlo del collasso sociale, con 18 milioni di poveri su 23 milioni di abitanti, di cui 5 milioni vivevano nel fango dei ranchitos, spesso senza essere nemmeno iscritti all'anagrafe, realtà che escludeva automaticamente anche la possibilità dei bambini di andare a scuola. Erano los invisibles, o, per l'oligarchia predatrice locale, los animales. Una situazione umana scandalosa, alla quale Chávez ha posto fine, recuperando allo Stato il controllo del petrolio, la cui estrazione e prima raffinazione può essere fatta adesso, come in tutti i paesi ricchi di idrocarburi, solo da compagnie al 51% di capitale nazionale, e poi espropriando una parte dei latifondi incolti, per ridistribuire con più equità la ricchezza del paese. Questa proposta, che Chávez ha definito bolivariana, approvata dai due terzi dei venezuelani in ben dieci consultazioni elettorali, favorevoli al progetto di integrazione sociale sia nel paese, sia a livello regionale latinoamericano, ha convinto il Presidente a cercare, per il suo governo, un'identità piùmarcatamente socialista, dopo che il neoliberismo aveva chiaramente e miseramente fallito nel continente, come era successo per il comunismo nei paesi dell'ex blocco sovietico, anche se non è di moda affermarlo. Chávez, però, convinto che per un simile cambiamento non fossero sufficienti i cinque anni di governo ancora a disposizione, ha pensato di accelerare i tempi delle riforme sociali, forte dei 5 milioni di esseri umani recuperati alla vita di cittadini, e che hanno cambiato gli equilibri politici del Venezuela, malgrado il 90% dell'informazione radio, televisiva e di giornali sia in mano ai suoi oppositori. Ma, evidentemente, non ha tenuto conto dell'astrusità della materia di molti degli articoli della Costituzione che avrebbe voluto cambiare, e probabilmente anche della diffidenza della parte piùmoderata della sua eterogenea sinistra, timorosa di una svolta autoritaria. Lo ha tradito, quindi, l'astensionismo, salito al 45% contro il 30% delle precedenti consultazioni, ma anche qualche distinguo, qualche defezione, nel movimento politico da lui costruito. È stato saggio, quindi, il suo pronto riconoscimento della sconfitta nel referendum indetto per apportare sostanziali cambiamenti alla Costituzione da lui voluta nel '99, atto che smentisce un decennio di manipolazione dell'informazione, sul processo politico e sociale da lui messo in atto in Venezuela. Chávez ha detto: «In una situazione di sostanziale pareggio, è preferibile aver perso piuttosto che aver dovuto sostenere e gestire una vittoria tanto importante, con unmargine così stretto». Si è rifatto chiaramente ad Allende o, per noi italiani, a Berlinguer, che dichiararono «La rivoluzione per via elettorale non si può fare con il 51% dei voti». Hugo Chávez, che solo l'anno scorso ha avuto due terzi dell'elettorato che ha approvato il suo governo, deve ora prendere atto della sconfitta al suo tentativo di accelerare il processo di cambiamento del paese, che ha influenzato processi di riscatto, come in Bolivia ed Ecuador e che, proprio per questo, non va bruciato con demagogiche fughe in avanti. Vedremo se questa battuta d'arresto lo spingerà verso l'ala più radicale del suo movimento, o invece gli consiglierà di recuperare spezzoni social-democratici, allontanatisi ultimamente. Ma per ribadire la prevalenza che il suo movimento bolivariano ha guadagnato fino adesso, rispetto a una opposizione spesso violenta ed eversiva (come dimostra il tentativo di colpo di stato contro di lui, nel 2002, con l'appoggio degli Stati Uniti di Bush e della Spagna di Aznar), dovrà essere più attento negli equilibri interni. La sua prima sconfitta non è letale, proprio perché gli ha permesso di smontare i pregiudizi costruiti contro di lui.
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