Latina

A Felipe Arreaga, uomo nato libero

In memoria di Felipe Arreaga Sánchez, campesino messicano premio nobel per l’ambiente Chico Mendes
25 ottobre 2009
Monica Mazzoleni

la campagna di Manesty International in difesa di Felipe Arreaga Felipe Arreaga è morto il 16 settembre 2009. Campesino messicano ha dedicato la sua vita a proteggere i boschi della Sierra di Petatlán, nello stato del Guerrero. Era un attivista ecologista, difensore dei diritti umani, chiedeva il rispetto delle leggi per la tutela del territorio dove era nato, colpito dallo sproporzionato sfruttamento da parte delle industrie madereras, le industrie del legno.

E’ stato vittima di un incidente stradale, l’autista del veicolo pubblico che l’ha travolto si è dato alla fuga. Ad oggi non è ancora chiara la dinamica dei fatti. Le ONG locali temono che si tratti dell’ennesimo caso da aggiungere alla lunga lista di omicidi impuntiti di attivisti sociali, ambientalisti, leader di comunità, sindacalisti, attivisti dei diritti umani, giornalisti, che avvengono in Messico.

Sconcerto, rabbia, cordoglio. Riascolto la cassetta su cui è registrata un’intervista rilasciata mentre eravamo in viaggio in treno, durante il suo tour di testimonianza in Italia nell’aprile 2006. Si tratta in effetti di una lunga, intensa chiacchierata.

“La vita è come il corso di un rio (fiume). Come l’acqua che nel rio incontra ostacoli come anse, ripide, massi, così nella vita ci sono problemi come povertà, malattie. Il rio, il cammino che stiamo affrontando è la nostra vita. Se sappiamo nuotare seguendo la giusta corrente ci possiamo salvare. Ma se andiamo contro la corrente, contro la natura, sbatteremo duramente contro la roccia: odio, guerre, mattanze, sfruttamento della terra, avvelenamento dell’acqua. Stiamo ammazzando noi stessi, stiamo generando morte.”

Felippe Arreaga Sanchez, nato il 17 maggio del 1949, riceve nel 2005 il premio nobel per l’ambiente Chico Mendes per il suo coraggio e determinazione nella difesa dei boschi.
Cappello sul capo e un bagaglio leggerissimo per il suo viaggio di testimonianza in Europa.
Mi spiega che il suo bagaglio contiene poche cose, perché lui è un contadino povero. E lo dice con la massima naturalezza, sorridendo con occhi sinceri e attenti.

“La vita è di tutti, senza distinzioni di credo, colore di pelle, partito politico. Penso che anche l’intero ecosistema abbia il diritto di vivere. Hanno diritto di vivere tutti gli animali che si stanno estinguendo nei boschi. Perché questa distruzione? Per avere oro e denaro?”.

La voce di Felipe Arreaga è dolce e allo stesso tempo decisa, le parole semplici ma potenti. Racconta della sua vita. L’infanzia serena a contatto con la terra, i monti, i boschi, poi gli anni ‘70 e l’arrivo delle imprese madereras, le rivendicazioni negli anni ’80, degli ejidos nei confronti del governo, di infrastrutture, servizi basilari come scuole, servizi sanitari, strade.
“Chiedevamo anche tecnici per insegnarci a tagliare, lavorare il legno per poterlo vendere al prezzo che valeva, dato che lo stavamo praticamente regalando. Il governo, che detiene le leggi, di tutta risposta ci mandò i militari. Iniziò l’ostigamento, la persecuzione, le minacce di morte.”

E mi chiedo quanto sia imprevedibile e prepotente il suo destino. Un contadino che avrebbe condotto volentieri un’anonima vita tranquilla, coltivando la sua terra con la sua famiglia, invece costretto alla lotta per rivendicare i diritti negati alla sua terra, alla sua gente, ai suoi figli e nipoti. Un contadino dell’America Latina con nessuna velleità di girare il mondo, che si ritrova in Europa a testimoniare, a cercare solidarietà, a parlare con ministri, politici, giornalisti, attivisti, studenti.
Nasconde la fatica del viaggio, la malinconia e il timore per la sua famiglia lontana. Ringrazia con un largo sorriso chi lo ascolta.

Spiega come all’inizio i suoi compagni non lo seguivano perché non credevano a quello che diceva: che l’acqua sarebbe diminuita drasticamente nel corso di cinque, sei, sette anni a causa del taglio dei boschi, mettendo così in crisi l’intero ecosistema e la loro stessa sopravvivenza. I fatti purtroppo gli hanno dato ragione.
“L’acqua è vita. L’acqua, la pioggia sono la benedizione di dio. Sono contento che ora i miei figli hanno capito che la mia lotta ha una ragione.”

Felipe Arreaga è tra i fondatori della Organización de Campesinos Ecologista de la Sierra de Petatlán (OCESP). Nel 1998 appoggia attivamente la campagna non violenta contro lo sfruttamento irrazionale e illegale delle foreste da parte dell’impresa Boise Casade.
Durante la campagna alcuni attivisti di OCESP sono stati assassinati. Rodolfo Montiel, il presidente, e Teodoro Cabrera, un altro attivista, sono stati incarcerati. Verranno rilasciati nel 2001 perché innocenti grazie alla mobilitazione nazionale e internazionale delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani.

Felipe Arreaga per timore della sua incolumità si nasconde sui monti.
“Sono stato otto mesi nascosto nel bosco, in una caverna profonda. I militari mi stavano dando la caccia. Ho vissuto in condizioni molto difficili, mi nutrivo di radici, arbusti e del pane che alcuni compagni riuscivano a portarmi una volta la settimana. Dobbiamo lottare con umiltà e mente ben fredda per poter perdonare tutto questo”.

Felipe Arreaga è stato un uomo di pace, contrario all’uso delle armi. “Io sono contrario all’uso delle armi. Mia madre è stata vittima delle armi, non le posso accettare. Io lotto per la vita, non per la morte”.

Nel 2000 fonda con la moglie Celsa Valdovinos l’Organización de Mujieres Ecologistas de la Sierra de Petatlán, OMESP.
“Ho conosciuto mia moglie nel 1967/68. Nel 1970 mi sono sposato. Era ed è molto carina. Come me ama le piante, la natura. E’ una gran lavoratrice. La lascio molto libera, la donna non deve essere schiava del proprio uomo. Lei ha una profonda coscienza dei propri diritti. Abbiamo sei figli e 14 nipotini.” Sorride.
Tra i vari progetti dell’associazione OMESP c’è quello della riforestazione per lo sviluppo di un nuovo bosco. Il progetto è iniziato nel 2003 con la semina di 146.000 cedri rossi.

Nel novembre 2004 Felipe Arreaga viene incarcerato con l’accusa dell’omicidio, avvenuto nel 1998, del figlio del potente boss locale dell’industria del legno, Bernardino Bautista. Istruire procedimenti giudiziari in base a accuse appositamente fabbricate è uno dei mezzi usati dal governo per togliere di mezzo i leader delle comunità “scomodi”.

“Ero rinchiuso in una cella di 2,5 metri per 3,5 metri con altri detenuti. Queste celle arrivavano a contenere anche 20 detenuti alla volta. In alcuni momenti avevamo 40 cm di spazio ciascuno. Soffrivamo la fame, ma soprattutto la sete. Ho sofferto parecchio. I detenuti vengono portati alla disperazione, ad ammazzarsi per una tortilla, per un goccio di acqua. La gente non sa delle condizioni dei carceri. Io davvero non immaginavo.”

Felipe Arreaga a Monopoli

La mobilitazione in favore del suo rilascio immediato e incondizionato avviene sia a livello nazionale che internazionale per opera di diverse ONG. Amnesty International lo adotta come prigioniero di coscienza nel 2005.
Viene rilasciato dopo 10 mesi di prigione per mancanza di prove a suo carico. Al suo rilascio pubblica una lettera aperta di ringraziamento rivolta a tutti coloro che si sono battuti per la sua liberazione. Ribadisce che continuerà nella sua difesa dell’ecosistema.
“State sicuri che la mia lotta non si arresterà e che potete contare su di me. Io continuerò a camminare per la sierra e a predicare a favore dei diritti umani e per un ambiente sano. Lavorerò a fianco di mia moglie, curando i boschi e conservando gli alberi, il che equivale a conservare l’acqua”. Si firma “FELIPE ARREAGA SANCHEZ, HOMBRE LIBRE, COME NACI’”.

“Penso che gli appelli di Amnesty International siano serviti. Hanno infastidito molto le autorità locali, municipali, statali e federali. Si arrabbiavamo molto e dicevano “Cosa ne sanno loro di quello che succede qua. Non riceviamo ordini dall’esterno.”

Felipe Arreaga, le sue parole, i suoi gesti, le sue mani, il suo cappello: la grandezza dell’umiltà che apre la mente e colma il cuore, l’umiltà che ignora i pensieri e i gesti futili, che si incunea nel profondo, nel cuore della vita e dei veri valori, delle scelte forti.

“Io so di correre dei rischi. Rischio di perdere la vita. Ho tanti amici che mi invitano a rimanere all’estero. Sì, so di correre rischi perché colpisco degli interessi economici. Quando mi invitano a parlare nelle scuole e nelle conferenze parlo di una cosa: parlo di quello che tengo nel cuore. Se dentro hai amore parli di amore, se tieni odio o desideri violenza di questo parla la tua bocca. Chiedo di parlare perché è necessario. La gente deve prendere coscienza. So che il nemico è gigantesco. Un giorno un deputato dell’Unione Europea mi ha detto “Tu sei un maestro”. Io gli ho risposto che non sono maestro di nulla. Semplicemente lotto per la vita”.

Difficile trovare parole giuste per onorare la sua umanità il suo coraggio. E’ stato un maestro di vita. La sua testimonianza, il suo ricordo, il suo esempio gli sopravvivono; la sua lotta pacifica e testarda continua per opera di altri.

Una coincidenza incuriosisce, anche per un destino imprevedibile e prepotente: Felipe Arreaga viene investito e muore il 16 settembre 2009, esattamente quattro anni prima, il 15 settembre 2005, veniva rilasciato dalla prigione dove era stato ingiustamente rinchiuso.

Note: coord.americalatina@amnesty.it

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