Il concetto di frontiera nell’era post 11 Settembre
Gli attentati terroristici dell’11 Settembre 2001 hanno cambiato completamente l’assetto mondiale e la percezione della sicurezza a livello planetario. Questo ovviamente ha dato una nuova enfasi al concetto di frontiera. Subito dopo l’accaduto infatti, gli occhi degli Stati Uniti si sono immediatamente rivolti al rafforzamento delle proprie frontiere e non solo di quelle fisiche.
“The defense of our country begins with the defense of our borders” ha più volte affermato il governo statunitense. I parametri di sicurezza si sono tutti rivolti alla “homeland defense” tramite politiche di inspessimento delle barriere e di inasprimento verso gli immigrati. La politica di controllo delle frontiere è stata rivista ad hoc e ridisegnata in funzione della nuova e globale “war on terrorism”.
La frontiera sud condivisa con il Messico è diventata per gli Stati Uniti la chiave centrale nella cosiddetta guerra al terrorismo.
Quest’ultima infatti ha aumentato la paura di frontiere aperte. Un sondaggio condotto dall’Agenzia EFE (riportato nel Zogby Internaional) poche settimane dopo gli attacchi terroristici, ha rilevato che il 72% degli americani che sono stati intervistati hanno confermato essere a favore di un maggior controllo delle frontiere e di più rigide politiche d’immigrazione e che questo avrebbe sicuramente aiutato a prevenire e difendersi dal terrorismo.
Come dice anche il Prof. M. Sioli nel suo saggio La terra trasformata, la cultura del controllo sul confine Messico- Stati Uniti, tanto meno la dialettica politica e le istituzioni di uno stato riescono a risolvere i conflitti che separano le diverse realtà presenti su territorio, tanto più vengono eretti muri e creati confini.
Per rimarcare la gravità della situazione, Lamar Smith, membro della House Judiciary Subcommittee on Immigration, ha affermato in un’intervista al San Antonio Express News:
“U.S. land borders are too porous and offer an open invitation to those who want to harm us.”
Si può quindi notare da subito l’ormai evidente binomio sicurezza- terrorismo che ha rimodellato le relazioni tra gli Stati Uniti e i suoi vicini.
La frontiera Messico-Stati Uniti, inoltre, è stata anche parzialmente militarizzata a causa del traffico di armi e di droga ma, guarda il caso, è stata aperta per favorire le politiche di mobilità del capitale previste dal NAFTA. Il paradosso sta proprio nel voler da un lato barricarsi per proteggersi dai terroristi e dagli invasori o meglio “aliens” e dall’altro operare una “friendly borderless economy”.
Le aspettative dell’opinione pubblica americana sull’irrigidimento delle proprie frontiere, dopo l’11 settembre, sono di gran lunga aumentate, tali per cui anche se il flusso degli immigrati non dovesse diminuire, per lo meno si avrebbe la percezione di un controllo maggiore della situazione.
Il governo ha preso in seria considerazione questa richiesta quasi unanime del popolo americano, promulgando nell’immediato leggi come il “Patriot Act” che tra le altre cose prevedeva l’ulteriore militarizzazione della frontiera. Questo, e non a caso, ha aiutato tutta quella classe politica che si è impegnata ad implementare tali misure ad ottenere sempre più voti e consenso.
La stessa classe politica che si è sempre battuta per sistemi d’immigrazione più severi ; ha colto, inoltre, l’opportunità del momento e con la scusa di attuare misure per prevenire ulteriori attacchi terroristici ha portato avanti la sua agenda. Approfittando quindi dell’elevato grado di instabilità e timore, riscontrato tra gli americani, politici e gruppi anti- immigrati hanno costruito a pennello la nuova immagine dell’immigrato, dipinto appunto come terrorista e criminale di modo che gli fossero tolte tutte le opportunità di esercitare i propri diritti su terra americana.
Questo ha portato a conseguenze molto negative per tutti gli immigrati, in particolare per i messicani, ma anche, per esempio, per le comunità di rifugiati.
Va inoltre sottolineato che la politica di controllo delle frontiere statunitensi è stata portata avanti sostanzialmente senza impedire il crescente flusso di immigrati, legali o illegali. Questo perché, come ben si sa, l’economia statunitense dipende per buona parte dal commercio con il Messico e il Canada ma soprattutto dallo sfruttamento della manodopera a basso costo messicana.
Ad ogni modo, le aspettative del popolo statunitense, generate da un clima di terrore, ansia e paura post 11 settembre, hanno fortemente spinto verso una completa revisione di alcune istituzioni che, in alcuni casi, hanno assunto nuovi poteri, al fine di acquietare gli animi.
Le agenzie americane che si occupano di controllo, sicurezza e immigrazione per esempio, sono state completamente reinventate. Da ciò è nato il new Department of Homeland Security che ha incluso al suo interno parte di altre agenzie già esistenti come per esempio la “Coast Guard”, “Border Patrol” e “INS” ( Inmigration and Naturalization Service). Questo nuovo dipartimento è stato legittimato di poteri che non gli spetterebbero e che vanno al di là del suo ruolo effettivo, questo per dare ai cittadini americani e a tutto il mondo l’immagine di un’America protetta e sicura e che è capace di far fronte alle nuove minacce alla sua sicurezza nazionale.
Il tutto sta nel capire che cosa o chi è percepito come minaccia alla sicurezza e perché.
Inserire l’immigrazione come priorità nell’agenda preposta alla sicurezza nazionale statunitense è la chiara manifestazione della nuova realtà che vede la frontiera e l’immigrazione come pericolo e minaccia per il benestare della nazione.
Già nella parola “homeland security” possiamo trovare racchiuso tutto il nuovo significato che gli americani danno alla frontiera. Salvaguardare la patria quindi necessita la chiusura delle frontiere.
“America can’t effectively combat terrorism if it doesn’t control its borders” ha dichiarato il Senatore del Maine Byron Dorgan, facendosi portavoce del governo americano.
Se proviamo a sostituire la parola “terrorismo” con “traffico di droga” e “immigrazione illegale” ecco che il nuovo discorso sulla sicurezza nazionale non è più tanto nuovo, anzi diventa molto familiare perché ricalca esattamente quello che ha caratterizzato le politiche di frontiera tra Messico e Stati Uniti prima dell’11 settembre.
Ad ogni modo, il 22 marzo 2002, i governi di Messico, Canada e Stati Uniti hanno firmato vari accordi al fine di migliorare la cooperazione bilatere e la creazione di un perimetro di sicurezza nelle zone frontaliere. L’accordo con il Messico è stato denominato “Alianza para la Frontera” ed è proprio pensato per implementare nuove misure preposte ad un controllo più completo delle zone di frontiera, consta di 22 punti che comprendono diversi aspetti tra cui l’immigrazione, il traffico di droga e armi ma anche il flusso di beni e l’attivazione di nuovi apporti tecnologici da inserire nelle dogane e sul muro lungo tutta la frontiera.
Il sottotitolo dell’accordo è Declaración a favor del fortalecimiento tecnológico y la cooperación para promover un flujo seguro y eficiente de personas y bienes a lo largo de la frontera dove però il promuovere il flusso sicuro e efficiente di persone abbiamo visto non essere esattamente proporzionale ad agevolare quello di beni.
Nel documento il Messico viene nominato come “socio y vecino” questo però non rispecchia il trattamento che gli Stati Uniti riservano agli immigrati messicani, soprattutto agli illegali, in quanto considerati causa di molti problemi interni allo stato. I paragrafi sesto e settimo dell’accordo che si riferiscono appunto al problema dell’immigrazione messicana negli States citano: “En el último año, se logró un importante avance para reforzar la seguridad de los migrantes y, particularmente, para salvar vidas, desalentando y reduciendo los cruces de indocumentados por zonas de alto riesgo (...)”.
Quello che più cade all’occhio in questo passo sopra riportato è quel “salvar vidas”.Le stime che contato le morti dei messicani e di tutti gli immigrati che ogni giorno tentano di oltrepassare la frontiera parlano del contrario. L’innalzamento e inspessimento del muro non ha portato infatti, ad una diminuzione del flusso migratorio ma semmai ad un aumento delle morti, in quanto la povera gente si sposta sempre più verso la zona del deserto dove ancora non ci sono controlli così rigidi e così rischia in misura maggiore la morte, per non parlare poi degli “incidenti” con la Border Patrol e i vigilantes che spesso si comportano in maniera del tutto contraria a come dovrebbero.
Per capire la forte discrepanza nel modo di concepire la frontiera tra Messico e Stati Uniti basta soffermarsi un attimo sullo slogan del progetto di cooperazione che da parte statunitense è ben esplicitato nella frase “creación de una frontera eficiente pero no abierta” mentre al contrario da parte messicana si rileva la necessità della “creación de una frontera abierta”.
Dal punto di vista della prospettiva statunitense infatti, l’efficienza sta nel bisogno di sicurezza e di riaffermazione della propria sovranità. Questo porta più che altro ad una chiusura verso l’altro che non prevede nessuna apertura se non per quello che conviene al paese da un punto di vista politico ed economico. Allora in quel caso, e solo in quel caso, la frontiera diviene un’opportunità da sfruttare. Dall’altra parte invece, il Messico concepisce la frontiera come una linea divisoria, tanto che i messicani quando parlano della “frontera norte” la chiamano “la Línea” che è stata tracciata per dividere territori, popolazioni, culture, sistemi economici, politici, militari e di diritto.
Quello che il Messico vorrebbe proporre al suo vicino comunque, è una politica di “frontera abierta” secondo lo stile dell’Unione Europea e degli accordi di Schengen dato che il NAFTA prevedrebbe tale tipo di apertura anche se solo per questioni di mercato e politiche. Inoltre per esempio, tra Stati Uniti e Canada già esistono simili accordi tali per cui i cittadini canadesi per esempio non hanno bisogno del passaporto per varcare la frontiera con gli Stati Uniti.
Inoltre, mentre gli Stati Uniti hanno implementato politiche riguardati il visto molto più rigide per i messicani, gli statunitensi non necessitano di quest’ultimo per entrare in Messico. Ottenere un visto di entrata per gli Stati Uniti, al contrario, è quasi impossibile per un messicano. E il paradosso è che l’economia americana ha bisogno dei lavoratori messicani, siano essi immigrati legali o non, ed è per questo che il Messico spinge per un accordo bilaterale che invece agevoli il passaggio della frontiera per i suoi cittadini. Tra l’altro negli accordi per una “Alianza fronteriza” si prevedrebbe “facilitar el movimiento de nacionales de los países socios del TLCAN” questo varrebbe quindi anche per il Messico.
Quello che si nasconde dietro tutto ciò è la volontà degli Stati Uniti di mantenere la sua frontiera con il Messico “porosa” per permettere l’entrate di manodopera messicana, anche se illegale, in numero concorde con la domanda della sua economia. Quindi, secondo questa logica, la politica da adottare è quella di controllare ma non eliminare completamente il flusso migratorio illegale, piuttosto di sviarlo.
L’atteggiamento statunitense è sempre quello di una visione unilaterale della questione anche se questa riguarda altri attori.
Con il NAFTA, che è la manifestazione di una politica unilaterale, il Canada e il Messico stanno pagando il caro prezzo di una “asymmetric interdependence”. In particolare il Messico, dove quasi il 90% delle sue esportazioni sono dirette negli USA mentre solo il 15% di quelle USA hanno come destinazione il Messico.
L’idea quindi di un perimetro di sicurezza che unisca tutto il Nord America e che assicuri il libero passaggio ai cittadini che ne fanno parte sembra ancora essere un’utopia molto lontana.
Per arrivare ad accordi come quello di Schengen, adottato dall’Unione Europea, ci vuole prima ed innanzitutto una forte distensione e armonizzazione delle politiche estere e di frontiera che prevedano accordi bi/trilaterali cosa che è molto difficile attuare nel contesto presente.
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