La frontiera Messico-USA dopo l’11 Settembre
L’emigrazione internazionale dei messicani si dirige nella quasi totalità verso gli Stati Uniti e, per quanto se ne voglia dire, secondo una ricerca portata avanti dal Colegio de la Frontera Norte che riguarda la magnitudine dell’emigrazione messicana negli Stati Uniti dopo il 2000, non è che un “semplice” riflesso delle disparità economiche tra i due paesi.
Queste, si manifestano, da un lato nell’eccessiva manodopera a basso costo e nell’estrema carenza di posti di lavoro stabili e giustamente remunerati e, dall’altro, nella forte e continua domanda di forza lavoro bassamente qualificata che rappresenta un elemento fondamentale dell’economia statunitense.
Negli ultimi anni la dimensione del fenomeno migratorio tra i due paesi è andato incrementando notevolmente ed in maniera sistematica tanto che la popolazione messicana negli Stati Uniti, in base alla statistica presentata dal Colef, è di circa 12 milioni.
Quest’ultimo, basandosi su fonti tratte dal Current Population Survey, l’American Community Survey e il Consejo Nacional de Población, stima che a partire dal nuovo millennio sono circa 400 mila per anno i messicani che emigrano negli States. La statistica prende in considerazione sia gli immigrati temporali che quelli permanenti.
Ovviamente le stime sono tutte approssimative dato che la maggioranza emigra illegalmente e quindi, come si può ben dedurre, risulta difficile quantificarne precisamente la mole.
Non c’è dubbio però, che dopo l’11 Settembre la percezione del fenomeno migratorio ha cambiato direzione. Si è passati dall’asse strutturale, economico e sociale a quello della sicurezza nazionale.
Solo una settimana prima degli attentati terroristici infatti, gli allora rispettivi presidenti dei due paesi, Fox e Bush presentavano formalmente il tanto anelato patto migratorio che conteneva anche un programma di amnistia.
Insieme alle torri, però, anche quest’ultimo è andato in fumo.
L’immigrato viene ora, indiscriminatamente circoscritto dentro uno status di illegalità, anche se di fatto, per esempio, possiede il permesso di soggiorno o magari è rifugiato politico. L’evidente conseguenza è che, solo in quanto immigrato, passa facilmente ad essere identificato come criminale.
Il termine “illegale”, infatti, conferisce a quest’ultimo uno status di violatore della legge ed assume quindi una connotazione negativa tanto che ogni immigrato, non considerato nel suo caso singolo, tende ad essere percepito come tale. È come se, oramai, nella parola “immigrato” fosse insito anche il termine “illegale”.
Amnesty International (AI), ma non solo, invita a non usare tale vocabolo in quanto definito discriminante e lesivo dei diritti umani: “AI does not use the term “illegal immigrants” as it connotes criminality. Such descriptions create the impression not only that migrants have no rights to enter a territory, but that they have no rights at all”.
Come afferma anche Amnesty, infatti, parlare di immigrati come illegali porta a pensare che non solo essi non abbiamo il diritto di entrare in altro territorio che non sia il proprio d’origine, ma che, più in generale, non posseggano alcun diritto affatto.
Inoltre ogni immigrato, indipendentemente dal suo status, è, in quanto essere umano, destinatario dei diritti umani fondamentali.
Gli immigrati illegali, quindi, sono particolarmente a rischio di abusi e violazioni solo perché mancano dello status legale.
La domanda che forse molti non si pongono o che fanno finta di non considerare è: perché i messicani emigrano negli Stati uniti? E ancora, perché emigrano illegalmente?
Forse perché il tanto acclamato Trattato di Libero Commercio tra Messico, Stati Uniti e Canada (NAFTA) non ha fatto altro che impoverire maggiormente l’economia messicana e aprire ancor di più le porte all’imperialismo economico statunitense? o perché l’immigrazione illegale conviene all’economia americana?
Gli Stati Uniti permettono eccome l’immigrazione illegale, anzi con le proprie politiche contraddittorie e confuse su questo tema, in realtà, non fanno altro che incitarla perché infondo dipendono da essa. Non è vero quindi, che come dicono molti, gli immigrati illegali pesano sull’economia americana; questi ultimi infatti, pagando le tasse sono una fonte non indifferente di sostentamento per gli Stati Uniti.
Le politiche restrittive contengono sempre, dunque, misure che per esempio, pur prevedendo pene per i datori di lavoro che assumono illegali, non dispongono poi degli strumenti di controllo per poter sanzionare tali pratiche.
Esiste poi negli Stati Uniti da un lato, un rifiuto evidente degli immigrati da parte della società e dall’altro un’enorme necessità di manodopera a basso costo da parte delle aziende americane.
Come, a ragione, sostiene anche Isabel García, fondatrice della Coalición de Derechos Humanos de Tucson: “Quieren hacer creer que los migrantes no son buenos para la economía, que toman recursos y no pagan nada; que son criminales o narcotraficantes. Y nada de eso es cierto. Los migrantes mexicanos aportan mucho más al estado de lo que se benefician ellos con los servicios. Son los héroes tanto de esta economía como en la de México, a la que también aportan muchísimo”.
Quello che comunque si rileva obiettivamente, è una grande ignoranza su questi temi e “sull’altro straniero”, tanto che la maggioranza dell’opinione pubblica americana parla dei messicani come: usurpatori di posti di lavoro, peso che grava sulle tasche dei cittadini americani; e ancora, come invasori della sovranità nazionale e spesso anche come sovvertitori parte di un complotto che prevedrebbe la riconquista di territori statunitensi una volta appartenenti al Messico. In più, ultimamente, e anche per legge, hanno acquisito l’ulteriore etichetta di criminali. Il Messico è considerato l’origine di buona parte dei problemi degli Stati Uniti ed è visto come una minaccia alla sicurezza interna. Il Messico è il vecchio e insieme nuovo nemico da combattere.
Si può dedurre facilmente che tutto questo nasce da una grande base di pregiudizio e non conoscenza reale dell’altro che porta poi a gravi conseguenze che si manifestano in atti e atteggiamenti discriminatori, razzisti e xenofobi.
Il Messico, d’altro canto, vive nel complesso di inferiorità che il suo popolo ha nei confronti dell’Occidente e nella corruzione del suo governo e dei suoi funzionari. Il popolo messicano però continua a credere nel cosiddetto “sogno americano” senza rendersi realmente conto di quello che c’è dall’altra parte né considerando le grandi risorse che la sua terra possiede e che semplicemente sono sfruttate in maniera sbagliata e a favore di pochi.
Quand’è che gli Stati Uniti ammetteranno di essere dipendenti dalla manodopera a basso costo messicana e smetteranno di trattare la loro fonte di ricchezza principale come una pezza da piedi? E quand’è che il Messico ammetterà che la sua economia vive soprattutto grazie ai soldi ( le cosiddette “remesas”) che gli immigrati messicani inviano alle proprie famiglie dagli Stati Uniti e inizierà ad attuare politiche di sostegno a questi ultimi?
Invece di spendere milioni di dollari per la costruzione del muro e la militarizzazione della frontiera forse sarebbe stato meglio attuare politiche economiche e sociali investendo di più in Messico ed aiutando cosi lo sviluppo della sua economia.
È facile inoltre, usare gli immigrati come capo espiatorio accusandoli di tutti i problemi interni per poi soltanto ottenere più voti alle elezioni. Non sono servite anche a questo le misure di irrigidimento della frontiera?
Muro o non muro, il flusso dei migranti messicani non si ferma, aumentano solo le morti nel tentativo disperato di oltrepassare quel confine e di poter semplicemente vivere degnamente come ad ogni essere umano sarebbe dovuto.
Quella che vige è solo la politica della paura, dell’invisibilità e del potere.
È come se in realtà questi due popoli da una e dall’altra parte di una frontiera di cristallo, trasparente ma anche tagliente, non si guardassero realmente bensì accecati dalle proprie convinzioni e pregiudizi, chi più e chi meno, vedessero solo la proiezione del proprio pensiero sull’altro.
Infine, solo attraverso una politica di vero incontro, più che di integrazione, due popoli con due identità così diverse possono davvero conoscersi ed imparare a rispettarsi.
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